come “t’imparo” a raccontare storie

in un commento al post precedente, Enrico domanda

uno che voglia imparare a scrivere, a maturare il proprio stile (che credo in qualche misura sia innato), cosa deve fare? La grammatica si spera la si sia imparata a scuola (e magari all’università), leggere a più non posso aiuta a capire cosa ci piace degli altri, a “contaminarsi”, per così dire, ad ampliare il proprio vocabolario, ma per imparare a creare un intreccio? A scrivere una storia? Ci saranno degli schemi, ma se non li si rompe si rischia di scimmiottare sempre qualcuno. D’altra parte se non li si conosce è difficile romperli in modo consapevole. Ci sono dei corsi di scrittura, ma si otterrà lo stesso risultato che, per esempio,  seguendo un corso di informatica (che ti garantisce che alla fine almeno il PC lo saprai accendere)?
Ho trovato nella rete alcuni siti molto interessanti e ben fatti che aiutano a capire come revisionare un testo in modo professionale e migliorarne la scorrevolezza, ma non credo basti questo. Vorrei qualche consiglio, non solo da Remo, ma anche da lui,  perché scrivere mi piace, anche se non ho l’ambizione di diventare scrittore. Sono troppo timido per prendermi la responsabilità di presentare un mio testo!
Ciao e grazie.

Provo a rispondere ricorrendo (come faccio spesso) ad altro, premettendo che sulle scuole di scrittura non si può fare di tutta un’erba un fascio; io un corso con Pontiggia l’avrei fatto (e qualcosa si trova in rete), o con Parazzoli; diciamo che è come se l’avessi fatto, con un docente di letteratura, Mario Ricciardi (1990, facoltà di Lettere, Torino). Per anno ci spiegò il primo capitolo de I Malavoglia di Verga e mentre ci spiegava quel primo capitolo noi studenti a dire, E quando passa al secondo? C’era già tutto, de I malavoglia intendo: nel primo. Nel primo capitolo Verga già stabilisce un patto col lettore, indicandogli le strade che seguirà.
Dico solo,e poi passo alla risposta (o forse alla non risposta) che uno (dico uno, tra mille) dei grandi problemi che si affronta scrivendo si chiama dosaggio.
Quando parlo di un personaggio quante pagine gli dedico, quante cose dico su di lui, e soprattutto (e soprattutto…) quando lo dico?
Non c’è una risposta.
La risposta è: se si impara a dosare ci si fa leggere, altrimenti chi ci legge s’annoia.
A volte (scusate, la risposta deve ancora arrivare) la gente magari saprebbe scrivere, ma non lo sa.
Lo ripeto per la centesima volta, credo.
Mi è successo di ricevere mail di persone che mi hanno conosciuto tramite questo blog. Mi scrivono e si raccontano, e magari quando si raccontano dicono (scrivono) cose che sono leggibili, non foss’altro perché sono semplici.
Poi mi dicono: Possa farti leggere un mio racconto?
Va bene, dico.
Arriva il racconto e faccio una scoperta: che le mail erano meglio. Questo perché la gente, tanta gente, pensa che quando si scrive si deve stupire con effetti speciale.
Macché: quando si scrive una storia bisogna solo saperla raccontare una storia. E non è facile, perché è un po’ come per le barzellette: stessa barzelletta, quasi le stesse parole, c’è chi ti fa ridere e chi no.
Provo a dire: le storie devono avere un orecchio e una voce.
L’orecchio: bisogna farselo, leggendo libri e leggendo la vita. Dicono che Piero Chiara ascoltasse storie nei bar di Luino, forse è vero forse no: di sicuro, se uno si mette ad ascoltare storie di vita, si fa orecchio.
Se uno, invece, le storie le impara dalla TV, dai fumetti… abbiamo dei libri del cavolo, o dei manoscritti del cavolo.
Poi, dopo l’orecchio (che vuol dire esercizio, e che presuppone anche l’occhio: e l’occhio dello scrittore dovrebbe vedere oltre, andare al di là) ci vuole Voce.
La parole che si scrivono: leggetele ad alta voce e capirete molto della vostra scrittura. O qualcosa.

Provo a rispondere, ora.
Ricorrendo a Eduardo De Filippo.
C’è un vecchio filmato negli archivi della Rai. Eduardo che insegna teatro a dei ragazzi. Arriva un giornalista, appunto, della Rai, e gli domanda: Qual è il segreto per diventare attori?
Avrebbe potuto rispondere, il grande Eduardo, così: Basta frequentare una scuola valida, io, Gassman, Strheler, e invece disse altro.
Disse, sono tanti i ragazzi che mi domandano, come faccio a diventare un attore?
Disse, e io rispondo a tutti, figlio mio, devi saperlo tu, sono le cose che hai dentro che ti fanno diventare un bravo attore.

Ecco il punto di partenza io credo sia questo: avere qualcosa dentro, non da raccontare, altrimenti è pura noia; avere qualcosa dentro che sia uno strumento per leggere e scrivere la vita degli altri.

Poi, piccolo trucco che consiglio anche agli imparati: se volete cercare di carpire qualche piccolo segreto dei grandi scrittori leggete ai due all’ora, leggete e rileggete la stessa pagina, interrogatela la pagina, magari, se avete tempo, provate a scrivere delle frasi: che poi magari vi accorgerete che tanti scrittori per raccontare usano un’arma, che è quella della semplicità.

Scusate, come al solito la fretta, Oggi insalata di riso, mentre postavo.

6 pensieri su “come “t’imparo” a raccontare storie

  1. Parlando di semplicità, George Simenon (autore dei romanzi del commissario Maigret) diceva di aver scritto tutti i suoi 400 libri usando un vocabolario di 400 parole.

    Poi c’è una cosa che dicevo ai collaboratori del Giornale di Teviglio, quando ero redattore: «Senti se funziona». Cioè: mettiti dalla parte del lettore – se tu fossi il lettore di questo testo, che cosa ne penseresti?
    Se tu fossi il lettore di un giornale composto da 200 notizie, e non avessi tempo di leggerle tutte approfonditamente… le cose interessanti le vorresti sapere subito o dopo 50 righe di considerazioni personali del giornalista? Se tu fossi il lettore di un romanzo, le cose importanti vorresti che fossero chiare o nascoste sotto strati e strati e strati di parole?
    In generale se un testo funziona… non ci si accorge del modo in cui è scritto, perché tutta l’attenzione è assorbita dal tema, e dai pensieri che il tema suscita. Viceversa se un testo non funziona ce ne si accorge subito: non si capisce quasi niente del tema.

    (Mi scuso, non vorrei sembrare quello che scavalca Remo sulla sua pagina. Però la questione della tecnica compositiva dei testi è una di quelle che mi interessano di più. Mi sembrava il posto e il momento per intervenire – potrei aver sbagliato)

  2. ciao Remo, ti seguo da poco, interessanti spunti.
    e, ovvio, d’accordo con Eduardo.
    ciao
    Annalisa

  3. Grazie di cuore, Remo, per il tempo che mi hai dedicato (mi permetto di darti del “tu”).
    Alcune cose che mi suggerisci le avevo in una certa misura intuite,ma mi sembravano sentieri troppo semplici, invece il segreto pare proprio la semplicità.
    Passerò a vivisezionare le pagine dei libri che mi piacciono (un informatico direbbe farò reverse engineering!), e continuerò a provare ad “asciugare” al massimo i miei testi con le mie interminabili revisioni a strati, che a volte mi sembrano il mio punto debole: non so mai quando accontentarmi e accettare una versione finale.
    Grazie ancora, vedrò di maturare l’argomento riflettendoci un po’.
    Se qualcuno ha dei links da suggerirmi naturalmente li visiterò volentieri.
    Buona serata e buona cena!

  4. ho risposto su facebook, dove l’ho visto per caso, ma vorrei dire una cosa anche qui.
    non ‘dire’, che hai già detto tu.
    sottolineare.

    Voce. Leggere ad alta voce è un’ottima cosa. serve a farti sentire davvero le cose che non vanno. Non tutte ma qualcuna sì.
    Poi sottolineo Eduardo e ciò che ha detto. Questo sempre e comunque.
    e il trucco finale che hai scritto: leggere lentamente, rileggere, interrogare la pagina. e la semplicità.

    ho sottolineato tutto, mi sa :-)

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