E poi, quella multa fu il colpo di grazia.
Beh, disse tra sé, consoliamoci, poteva essere più salata! Se lo disse sì, ma non capiva perché le lacrime continuavano a uscire dai pensieri. Il fine settimana era fuori dalla porta, ed anche i soldi. Merda, le esclamò il cervello! E mandò all’inferno pure quel vigile che quel giorno non aveva avuto altro cui vedere.
Passò davanti allo specchio. Tornò indietro.
– Ehi, tu, che hai da guardare?
Sotto quegli occhi gli anni ci si sedevano. Non erano borse, ma valigie vere e proprio. Eh sì, doveva prendersi una pausa. Di scatto alzò il telefono e svelta come un razzo infuocato compose il numero.
– Ciao Giusy, come stai? Sì, lo so, siamo a dieci gradini di distanza, ma non rimproverarmi e dimmi una cosa: dov’è che hai sbollito l’ultima tua incazzatura?
– …
– Mmm certo non male, e poi è a due passi da qui, e… senti, non per farti i conti in tasca, ma… t’è costato molto? Sai, è che…
– …
– Perfetto! Bene, sì sì ti spiegherò, ma ora fammi andare o rischio di cambiare idea. Tu vedi di trovarmi il biglietto. Baci abbracci e tutto ciò che vuoi. A dopo!
No, non doveva perdere tempo, altrimenti i ripensamenti avrebbero preso il sopravvento e addio programmi. Volarono sportelli, cassetti, abiti e pantofole e in meno di un baleno lei e il trolley furono pronti.
La sua amica, che stava con gli occhi costantemente piantati sul pc, le aveva trovato un biglietto scontatissimo nel tempo che lei aveva impiegato a preparare il suo bagaglio e ora se lo studiava in attesa del taxi: binario tre, carrozza tre, posto numero trenta.
Il solito traffico, ma per fortuna il treno era ancora lì. Con la mente in fumo, mentre saliva, ripensò alle ultime parole della sua amica: tre, il numero perfetto. E poi… è il destino!
Con un movimento deciso, il trolley era volato al suo posto, incastrandosi con un rumore sordo nell’apposito scomparto sopra il suo sedile. Sprofondando sul suo “numero trenta”, posto accanto al finestrino, ebbe un unico pensiero: arrivare, e poi…
E poi all’improvviso le arrivò dal piede un dolore lancinante.
– Ma chec…z…?
– Mi scusi, non volevo…
– Niente….(bofonchiò, poco convincente)
Sorride! Ma che c’ha da sorridere? Mi ha distrutto il mignolino e manco mi guarda! Sibilò tra sé, fulminando quel lui maldestro che si stava sedendo proprio di fronte.
Il treno decise che era ora di partire e un sospiro di sollievo uscì dal suo corpo, portandosi via anche un po’ di tensione. Un sorriso le illuminò il volto, infatti il suo dirimpettaio occupava il sedile numero trentatré. E poi? Destino?
La città si allontanava, e gli alberi prendevano rincorse opposte. Un senso di benessere la pervase.
– Anche lei è in cerca di piacere?
– Cosa?
– Oddio mi scusi, volevo dire viaggio, viaggio di piacere.
Lasciò che il tempo ripristinasse l’impaccio creato. Assestò le spalle allo schienale e strinse gli occhi come per deglutire. Le rotaie lanciavano un ritmo a intermittenza e fuori il giorno ragionava sul da farsi.
Che curioso quel tipo. E poi, nessun bagaglio. Ora che lo guardava meglio, vedeva in lui qualcosa di strano. Anche il suo pallore ne parlava e tutto ricordava chi odia il sole. Forse aveva la sua età, ma era indefinibile per la leggerezza che traspariva dalla sua pelle: le sue mani erano lisce e snelle. Si guardò le sue: nel paragone ci perdeva sicuramente. Ma che vado a pensare, pensò.
– Le chiedo scusa per prima. Forse questo silenzio è dovuto a quello? Sa, a volte parlo svelta come vivo e mi perdo le parole. Bello questo paesaggio, vero? Mette brio addosso. Tutto fugge via, ed è come se noi si andasse incontro alla fortuna. La velocità prende il sopravvento e cancella tutto, non trova?
– Troverei corretto dire che vado alla ricerca di altro, ma credo che il suo pensiero non sia affatto male. Lei deve essere una persona positiva o forse super agitata. Le metto per caso soggezione?
– No, perché?
– Così, mi sembra che voglia parlare per forza, ma magari sbaglio e sta solo fuggendo da se stessa.
(O cavolo, e questo come lo sa che sono piena di problemi?)
– Beh, proprio da me stessa no, ma dai problemi che mi assillano sì. Mi perdoni, ma come ha fatto, ho detto solo due parole, e comunque lei non è obbligato a rispondere, badi bene.
– Lei non riesce a stare ferma, neanche con la mente.
– Sì, in effetti…
Lei aveva detto sì due parole, ma lui con una l’aveva folgorata, togliendole la voglia di parlare. Tornò a guardare fuori, ma quella frase, quel suo sentire, l’avevano messa in difficoltà.
Il viaggio proseguì silenzioso.
Quell’uomo la inquietava: il pallore, la seriosità, quel discorso da “veggente” e, nonostante tutto, sereno. Era passata dal desiderio di sommergerlo di domande a un più ragionato “meglio farmi i fatti miei”, anche se le era rimasto il dubbio su come una persona sconosciuta avesse, con una semplice occhiata, capito tanto di lei. Ammirava chi sapeva, solo con pochi dettagli, cogliere al volo il carattere di una persona e si era sempre chiesta quale fosse il trucco. Magari, se un loro ulteriore dialogo lo avesse permesso, lei glielo avrebbe chiesto, ma lui proseguì con lo sguardo nell’ignoto.
L’altoparlante aveva appena annunciato la prossima fermata e lui si stava alzando.
Forse va via, pensò, oppure va in bagno. Chissà.
Una frenata improvvisa fece perdere l’equilibrio al numero trentatré che, con lo scossone, riuscì a salvarsi attaccandosi al suo sedile, ma non prima di pestarla nuovamente.
– Ma allora dica che lo fa apposta! Possibile? Non ce la fa proprio a guardare prima dove mette i piedi?
– Mi dispiace…
– Le dispiace? E di cosa, visto che non sta attento?
Con uno sguardo perso nel vuoto, le rispose: – Di non poter vedere.
Fu investita come da una secchiata d’acqua gelata. Avrebbe voluto chiedere scusa, giustificarsi in qualche modo. Si sentiva stupida: tra i due, quella che effettivamente non aveva il dono di vedere era solo lei.
Allora le vennero in mente i maledetti soldi e le parole della sua amica. E benedicendo la multa che l’aveva portata lì gli gridò: – E poi…? Che fa, torna?
Concordo in pieno col primo commento.
sto leggendo un po’ alla volta e in ritardo. Devo dire che preferivo un tema preciso, come l’anno scorso.
L’argomento libero fa folleggiare di qua e di là.
e non sempre ci si raccapezza.
disse. Uhm
Non è un cimento per dei dell’olimpo, ma per la miseria…
E lo dico pur ammettendo che il racconto in sé, con tutte le sue evidentissime magagne, mi ha fatto simpatia. La personaggia, come l’ha chiamata qualcuno, è talmente agitata e imbranata che mi ha ricordato alcune mie amiche. Quando sono in buona mi fanno tenerezza, quando mi gira storto non le sopporto. Oggi sono in buona e mi fa tenerezza questo racconto, quella domanda finale, la voglia di capire di più di se stessi attraverso gli occhi (ciechi) di un altro. Peccato per il modo in cui è scritto, per la poca verosimiglianza, per quelle frasi che stonano proprio e che non sto qui a rielencare. Insomma, questa è la mia classifica:
1) Il primo figlio
2) la casa del mais
3) la confraternita della banacauda
4) a caccia di arcobaleni
5) E poi
Purtroppo non si può non concordare con i giudizi negativi già espressi. Aggiungo che per il primo terzo di racconto il protagonista assoluto è il trolley.
Peraltro anche a me la metafora delle borse sotto gli occhi su cui ci si poteva sedere non è dispiaciuta. Originale e con una certa forza espressiva. Rivela che i mezzi per migliorare ci possono essere.
Io continuo a pensare che, anche quando si fa per gioco, la prima cosa da fare è scrivere in lingua (corretta), con accenti, virgole, parole, persino spazi al punto giusto, così che una storia interessante ma scritta male di solito mi infastidisce più che se avvenisse il contrario.
Concordo poi con chi ha detto che, oltre alla storia in sè, i dialoghi son poco credibili.
mi dispiace concordare cn la maggior parte dei commentatori.
l’idea credo che fosse buona, a parte la scontata veggenza.
Qui è così che va, ed è giusto che sia così, si partecipa, ci si espone alla critica, ma si sapeva ciò che ci attendeva.
non aveva avuto altro *cui* vedere. Sotto quegli occhi gli anni *ci* si sedevano…etc. magari evitiamo gli errori morfosintattici.
banalizzata l’idea mitologica del cieco che vede “oltre”.
“Lei deve essere una persona positiva o forse super agitata”: come fanno a stare insieme due valutazioni così da parte, nello specifico, di una persona che viene descritta come ipersensibile? brutti aggettivi e stonati tra di loro.
mi spiace, ma non trovo sufficiente questo racconto.
@Marchetti Fausto: bravo Marchetti Fausto, tu si che sei buono.
@quoto sterno
@elena rilassati che fa caldo , è solo un racconto, forse chi l’ha scritto è solo un principiante come lo siamo in tanti, o forse chissà…
Cè un concorso è qualcuno sta partecipando.
Nel regolamento mi sembra di aver capito che c’era spazio per tutti e non solo per gli dei dell’Olimpo.
Mi sono impegnato a fare un commento onesto a tutti i racconti, senza la bacchetta della maestrina in mano, non le usano più da tempo.
Premieranno i migliori, io comunque farò il mio bel applauso a tutti i partecipanti
andata ;)
evabbé togliamo dalla lista ” sotto quegli occhi gli anni ci si sedevano” che possiamo considerare un’immagine forzata, e pure il baleno e il razzo infuocato se proprio proprio vogliamo, (le mani snelle no!), ma le altre no eh!
vabbé,
“sotto quegli occhi gli anni ci si sedevano” a me ha colpito assai, invece. tipica frase femminile. nel senso: ci sono testi, romanzi, saggi che io tendo a classificare come femminili o maschili. scritture di donne dedicate alle donne o di uomini dedicati agli uomini. Hornby, per esempio, trovo che possa creare solo scrittura maschile. la Oates, invece, scrittura femminile (pure se io ho adorato Blonde e trovo sia uno dei più bei libri mai scritti). Stupro, per dire, tocca corde che inevitabilmente potranno infiammarsi solo nelle donne. probabilmente mi sbaglio ma una donna non apprezzerà mai Alta fedeltà come può apprezzarlo un uomo.
poi.
sotto quegli occhi gli anni ci si sedevano, un uomo non avrebbe mai potuto scriverlo, in quanto privo della necessaria femminilità per accorgersi dell’evidenza delle ochiaie su se stesso. generalizzo, naturalmente. tant’è che, magari, si scoprirà che quella frase è di un uomo e io avrò drasticamente confuso.
ad ogni modo, quello che intendevo è che certe frasi, a parte la forzatura grammaticale o di sintassi, sono tipiche e caratteristiche di una scrittura proprio perché identificano lo stile di un autore. e quindi sono speciali. e grandi.
tutto qui.
che quel giorno non aveva avuto altro cui vedere.
Sotto quegli occhi gli anni ci si sedevano
ma valigie vere e proprio
svelta come un razzo infuocato
in meno di un baleno
Sprofondando sul suo “numero trenta”, posto accanto al finestrino
Lasciò che il tempo ripristinasse l’impaccio creato
le sue mani erano lisce e snelle
Oltre a essere d’accordo con le osservazioni dei commenti precedenti sul contenuto del testo, io mi fermerei ai semplici errori di grammatica e di conoscenza dell’uso dell’italiano.
Insomma, non è che è obbligatorio partecipare ai concorsi letterari. Neanche per gioco, perché anche i giochi hanno le regole.
Io a questo punto non vedo coraggio di mettersi in gioco, vedo presunzione.
Ah la fretta dei ragazzi, la maledetta fretta, ci ho visto mio figlio in questo racconto: tutto intero!.
Mi soffermo sul trolley . Dopo una multa (sicuramente per eccesso di velocità) riempito così a caso, che quando poi in albergo te lo trovi lì spalancato ti accorgi che c’è di tutto tranne quello che ti serve) sbattuto e “strablato” per scale e marciapiedi, lanciato come un cappello nello scomparto sopra il sedile (l’energia dei ragazzi). Non mi sarei stupito se dopo le due pestate sui piedi della ragazza, la valigetta doppiamente incernierata, al primo scossone, per pareggiare i conti,fosse caduta in testa all’uomo cieco, che sicuramente avrebbe fatto una risata dicendo: “ma cosa ci hai ficcato li dentro?”.
Non esprimo un parere sullo scritto, vorrei solo abbracciare la ragazza del racconto e dirgli :
“Dai, la prossima volta, fai le cose con più calma”.
Il falconiere
La cosa più importante quando si scrive, secondo me, è avere qualcosa da dire, la seconda cosa è cercare di dirla nel miglior modo possibile, la terza è dire le cose in modo tale da dare la possibilità al lettore non solo di immedesimarsi ma anche di ricreare nella sua mente un’immagine veritiera sebbene trattasi di finzione e non di relatà. In questo racconto non trovo nessuna di queste tre cose. Certo è difficile scrivere, è ancora più difficile scrivere a quattro mani, per cui apprezzo gli autori per il loro coraggio a mettersi in gioco e spero che questi commenti li aiutino in futuro a scrivere una storia più convincente. Lucia
Concordo con Sonia. E aggiungo che i dialoghi sono del tutto innaturali, il che potrebbe andar bene in un racconto surreale, ma non in un testo che ha la pretesa di raccontare un episodio di vita vissuta. Di treni ne prendo tanti, ma non ho mai trovato nessuno che scambiasse con me (o con altri) una simile conversazione.
E poi quel trolley che vola, per non parlare degli sportelli, che volano anche loro (consiglierei una revisione ai cardini…); comporre un numero telefonico svelta come un razzo infuocato; il biglietto scontatissimo trovato dall’amica: se il posto da raggiungere era a due passi dal luogo di partenza, il prezzo del biglietto doveva già essere più che accettabile.
Insomma… non mi convince, questo racconto. Ci sono troppe cose e al tempo stesso non c’è niente.
Milvia
“non aveva avuto altro cui vedere”? “gli anni ci si sedevano”? “valigie vere e proprio”? per il resto anche a io credo che non sia molto convincente e neanche riesco a capire bene che cosa vi vuole dire.
ok lo stress, l ansia dei soldi della multa e gli scazzi, ma la personaggia più che stressata e priva del dono di vedere si muove in una storia non credibile:
un cieco, soprattutto se solo, non si muove mai fuori di casa senza il proprio bastone, magari rinuncia al cane per spostamenti rapidi, ma al bastone mai.
poi, che usi o meno gli occhiali scuri, ha atteggiamenti assolutamente tipici nel muovere le mani, o la postura della testa, il modo in cui si gira mentre ascolta chi gli parla, non dirigono lo sguardo ma l’orecchio.
se il posto in treno poi va prenotato, partendo dal presupposto che i numeri sui sedili non sono scritti in braille, qualcuno deve accompagnarlo o lui dovrebbe chiedere indicazione.
il testo non si regge proprio in piedi e non è colpa del treno.
non mi convince.
No, non ci credo. Il trolley di una che in cinque minuti è pronta a togliersi uno sfizio partendo per una meta non precisata dopo che il suo cervello ha detto “merda”, no, non vola “nell’apposito scomparto” e, comunque, se s’incastra, son cazzi, dopo.
Credevo fosse un morto, un fantasma o cose così. Invece è un cieco. Però pur sorprendendomi non mi stupisce, e sa di facile retorica. Sorry.