A 4 mani, 6° racconto: Il tempo necessario

Gli sembra di sentire il profumo dei fiori. Li ha sistemati poco prima, nel vaso accanto alla fotografia. Ha reciso i gambi con un taglio obliquo, come lei gli ha insegnato. Ci stanno bene le gerbere vicino al suo vestito di margherite, al sorriso beato e i capelli spettinati. E ogni tanto sembra che profumino. Allora si toglie la mascherina e si avvicina ad annusarli: no, le gerbere non sanno di niente. Perfette e di plastica.
Sua madre non ricordava nemmeno dove fu scattata. Forse in Corsica o forse in Sardegna. L’aveva raccontata mille volte, quella storia. “Tuo padre non amava il mare, diceva che il mare gli aveva portato via i suoi fratelli, nella guerra. Non sporgerti troppo, diceva, è infido. Io, invece, lo adoravo. Soprattutto nelle giornate di vento. O quando si incupiva, in autunno. Mi portavo dietro un rotolo di spago, ci legavo una pietra e la buttavo fra le onde, tenendo stretto l’altro capo. Ci parlavo, io, al mare. C’è anche qui. Non lo vedi, ma c’è”.

Aveva rovistato per anni tra i suoi ricordi per trovarne uno in cui sua madre lo abbracciasse. Ecco, forse, in posa su qualche fotografia. Calzoncini corti, la cartella lustra del primo giorno delle elementari. Lo sguardo che scruta l’obbiettivo, per capire su chi è puntato. Quello di sua madre, sicura di essere al centro. Sulle spalle il braccio di lei, come un segno sghembo di parentesi.

Il tanfo dell’altra stanza gli entra nelle narici come un lombrico che si fa strada nel fango, si mischia a un sapore dolciastro in fondo alla gola. A stento riesce a trattenere un conato.
Si rimette la mascherina, prima di girare la chiave. La leggera corrente che entra dalla porta fa rotolare sul pavimento i gusci di plastica dei deodoranti che finiscono sotto gli spettri dei mobili. Sulle pareti si è asciugata anche l’ultima mano di vernice, ma l’odore di sua madre non se ne va. È sotto l’intonaco, dentro i mattoni. Rimasto, negli anni, come un’impronta del corpo.

Sul bordo del letto quel giorno era seduta sua madre. “Mi son fatta male inciampando sul rastrello”, gli spiegava. “Ma guarda te se mi doveva capitare proprio oggi che arrivavi tu. Quest’anno però faccio solo la marmellata di albicocche, tanto le altre tu non le mangi mai”. Lui si era stretto nelle spalle, con l’occhio in fuga verso la finestra e il pensiero nella valigia piena di vasetti.
Sua madre voleva parlare solo del prezzo delle albicocche salito alle stelle, per colpa di quell’estate balorda. Che si era fatta male gli era tornato in mente la mattina dopo, in cucina, quando lei gli aveva chiesto di sistemare i vasetti sulle mensole dello sgabuzzino. Nella fretta di ripartire, ne aveva fatto cadere uno e mentre raccoglieva quella poltiglia luccicante si era reso conto che mai prima di allora sua madre aveva voluto una mano per un lavoro tanto semplice.

“Non è niente, vedrai, solo un po’ di dolori. Se lo dici a qualcuno non ti rivolgo più la parola”.
Ma si ritirava sempre più spesso in camera sua, a riposare, e le finestre restavano spalancate sempre più a lungo, con i cuscini appoggiati a prendere aria.
No, non l’aveva detto a nessuno. Tutto doveva sembrare normale, e giorno dopo giorno anche quell’odore era entrato nella normalità.
“Niente ospedale, niente tubi, niente fili”, gli aveva chiesto, infine.
“Va bene, mamma” aveva risposto, decidendo, in quel momento, di fermarsi più a lungo a casa di sua madre.
Era rimasto lì, con tutte le sue domande di sempre.
Avrebbe voluto sapere se sua madre ricordava quella volta che lei, a calci e pugni, aveva divelto la porta della cucina. O di quando correva da una parete all’altra, brandendo un coltello e urlando di volersi ammazzare. Se ricordava gli occhi di suo figlio bambino al quale i grandi, assuefatti, avevano affidato la sorveglianza di lei, distesa sul divano, per la centesima volta in attesa dell’ambulanza. Di come, in quell’attesa, lui disegnava con lo sguardo labirinti sul soffitto, dei quali non trovava mai l’uscita.

“Non sento niente. Il dottore dice che non sentirei dolore nemmeno senza la morfina. Dice che ho avuto una grazia”.
“Sì, mamma”.
“Potrei anche uscire, sai, andare magari al mare Mi accompagni? C’è la corriera che si ferma qui davanti, la sento, all’alba. Andiamo sugli scogli. Vedrai, ci divertiamo”.
“Va bene, mamma”.
“C’è ancora un po’ di spago, l’ho conservato nel cassetto della credenza, ricordiamoci di prenderlo”.
“Sì, mamma”.

È tornato nella casa disabitata.
“Vado a casa di mia madre”. Alla moglie aveva detto solo così, censurando il resto del pensiero: alla casa della mia infanzia. “Solo per il tempo necessario” aveva aggiunto, quasi per rassicurare se stesso, più che lei, con un’indicazione vaga del tempo.

È ora di andare via. Appoggia la mascherina vicino alla fotografia. Con le imposte richiuse, l’odore di putrefazione diventa più forte. Nella penombra, prima di uscire, riesce a distinguere ancora le margherite del vestito.

“Chissà se ti ricordi di quella sera, quando ti lasciai sola per dieci minuti. Ero andato a comprare lo spago.
E ti ricordi di come mi vergognavo, la mattina dopo, sulla corriera, quando tutti ci guardavano?
Di come ti sostenni, nei tuoi passi incerti, fino alla punta nera dietro il molo.
Della tua risata, quando mi facevi gettare il sasso sempre più lontano e poi stringevi lo spago e mi dicevi di lasciarti sola.
Della tua voce nel frastuono delle onde. Mi chiamavi, vieni a prendermi, è tardi, sono stanca, dove sei figlio mio.
Ti ricordi? Era luglio, c’era vento e il buio ci mise un sacco di tempo ad arrivare”.

26 pensieri su “A 4 mani, 6° racconto: Il tempo necessario

  1. Mi dispiace, ma non sono riuscita a capire dove volesse andare a parare. E non è colpa del cattivo odore o della mascherina. Troppe cose tutte insieme e poco collegate tra loro, è già stato detto ed è esattamente la mia impressione. L’esegesi che ne è stata fatta è stata utile, ma un racconto non andrebbe mai spiegato, se non si capisce è colpa di chi l’ha scritto. Per esempio a me ha dato l’impressione che il figlio decidesse di lasciarla morire sul molo, con il suo spago in mano a parlare col mare. Comunque per me scala in ultima posizione.
    1) Il primo figlio
    2) la casa del mais
    3) la confraternita della banacauda
    4) a caccia di arcobaleni
    5) E poi
    6) il tempo necessario

  2. Man mano che procedevo nella lettura, e fino alla fine, mi son detta: proprio bello, questo racconto. Poi mi sono chiesta: ma cosa è successo alla madre? Però… anche se non ho capito tutto, insomma, continuo a dire che è bello… Accade raramente, ma a volte sono belle anche cose che non si capiscono.

    Milvia

  3. Concordo con Sterno: troppe cose in poco spazio. Aveva bisogno di aria questo racconto, così forse si sarebbe capito anche meglio in certi passaggi. La cosa dello spago mi è piaciuta assai.

  4. A una prima lettura ho capito ben poco, tranne il cattivo odore e l’altrettanto cattivo rapporto con la madre.
    Poi ho letto l’approfondita esegesi di luciamarchitto in effetti motlo utile alla comprensione del testo.
    Ma un racconto che ha bisogno di una chiosa lunga quasi come il racconto stesso per capirci qualcosa, direi che ha fallito in partenza.

  5. no, sinceramente no. frammentario, poco comprensibile, non tanto come storia, che si intuisce quanto proprio dal punto di vista del marchio stilistico che a me pare inesistente

  6. è scritto bene e tra quelli che ho letto finora, mi pare il “migliore” anche se lo sviluppo dei fatti non mi è chiaro (non che questo si necessariamente un problema). il protagonista voce narrante mi sembra una specie di norman bates. c’è un po’ di “psycho” qui dentro, o forse è solo la mia impressione.

  7. sapete cosa? sono stato presuntuoso, è vero.
    e me ne scuso.

    quanto a obbiettivo. ho sbagliato anche lì. questo è il bello del confronto. imparare. anche dai propri errori.

    ad ogni modo grazie alle vostre spiegazioni ora il racconto mi è più chiaro. ed è molto forte. forse troppo. soffre dello spazio ridotto. l’estensione su più pagine gli gioverebbe.

    ciao.

  8. ho letto con interesse, capisco bene anche la persistenza degli odori, di certi odori che rimangono nella mente più che nel naso.
    a me non dispiace, trovo solo che in certi punti sia poco chiaro.
    E ho visto un figlio con il rimorso di non essere stato presente abbastanza nel finire della vita di sua madre, forse incapace di perdonare.

  9. Scritto bene, con tutte le cose a posto, e con una storia sotto che potrebbe essere interessante se potesse essere trattata in lungo e in largo, ma ho fatto una gran fatica a capirlo, se poi l’ho capito davvero, leggendo e rileggendo.

    Personalmente non amo i racconti e i romanzi dove tutto è spiegato per filo e per segno, amo le cose stringate e suggerite più che raccontate, ma credo che a volte il lettore vada aiutato di più, altrimenti, nello sforzo della comprensione, rischia di perdere per strada concentrazione, interesse e soprattutto piacere per la lettura.

    Un’unica osservazione: la mascherina. Mi suona abbastanza strano che uno lasci la mascherina anti-odore a fianco della foto della madre morta e che se la rimetta addosso ogni volta che va a visitare la casa della sua infanzia. Ma non si sa mai, magari l’è un po’ fora pure lui..:))

    Comunque brave/i. Per averlo scritto in due c’è molta coerenza di stile e di espressione, il che non è facile.

  10. Lucia (Scritture) mi ha preceduto. Sottoscrivo ripensando ad un altro commento lasciato in calce al racconto precedente: e credo che peggio di uno “scrittore presuntuoso” ci sia solo un lettore con la medesima dote.

    Quanto al Tempo necessario: molto bello e scritto bene (un paio di limature sul lessico e sulla forma hanno francamente un peso risibile quando il resto funziona).

  11. non ho capito niente. è un racconto pieno di rivoli e rivoletti, aperti e non chiusi. sta donna è morta putrefatta in casa, per la ferita del rastrello (?) o il figlio l’ha ammollata sugli scogli? se è vero questo, perché in casa c’è puzza? non ho letto i commenti precedenti nei quali forse sono state dibattute e acclarate le stesse questioni. la pazzia è contagiosa, è quello che ho capito.

  12. @ Sterno: Vocabolario De voto Oli pag. 749: obiettivo (o obbietivo).
    @Gloria Gerecht: “Mi portavo dietro un rotolo di spago, ci legavo una pietra e la buttavo fra le onde, tenendo stretto l’altro capo. Ci parlavo, io, al mare. C’è anche qui. Non lo vedi, ma c’è”.
    Ecco spiegato l’arcano: a volte basta leggere con più attenzione per capire. Ciao Lucia

  13. @Fausto: ha ragione.
    Mi è scappato come reazione a quel “obiettivo con una sola b” di sterno.

  14. Potrebbe diventare una bella storia, qui è troppo condensata, troppe cose in poche righe come di ce Morena fanti.
    @sterno ti ha risposto abbastanza bene Luciamarchitto, una gangrena dovuta forse al diabete, all’impossibilità di amputare. Comunque certi odori permangono nella memoria olfattiva per tutta la vita, soprattutto se abbianti a momenti particolari di gioia o dolore.Mi trovo d’accordo anche sulla depressione/pazzia della madre .
    Ripeto potrebbe diventare una bella storia.
    @t per favore!

  15. Oh mi ci voleva una bella ventata di ottimismo.
    Scherzi a parte c è un po’ un pout pourri di immagini e situazioni in stato confusionale.
    Come me dopo la lettura.

  16. @sterno: credo che la mamma soffrisse di depressione/pazzia, e come succede in molti casi dentro la pazzia c’è una lucidità per alcune cose sorprendente. Per l’odore ho pensato a una forma di cancrena o gangrena come dir si voglia(decomposizione dei tessuti) di solito sono colpiti gli arti inferiori che spesso vengono amputati. La pazzia e la gangrena sono due eventi separati nel racconto e possono esserle anche nella vita. L’odore della gangrena è nauseabondo. Certo dopo tanto tempo e pittura e tutto il resto penso che sparisca ma non nella testa di chi l’ha sentito e l’ha ‘vissuto’ attraverso un affetto sempre rincorso e mai trovato. Poi non mi sembra di capire che porti la madre sul molo e lì l’abbandoni alla morte ma la lascia sul molo affinchè lei finalmente possa giocare col mare (era un desiderio vecchio e mai realizzato) E poi l’ultima frase “Ti ricordi? Era luglio, c’era vento e il buio ci mise un sacco di tempo ad arrivare” potrebbe significare sia la morte della madre sia la fine di una giornata troppo dolorosa perchè ancora una volta sua madre l’aveva allontanato, perchè voleva stare da sola, perchè lui si era sempre senito escluso. Ciao Lucia

  17. giuro non ho capito. mi capita di essere piuttosto tonto, chiedo scusa. porta la madre a morire sul molo lasciandola lì finché arriva il buio? e l’odore di putrefazione nella stanza ??? ho letto bene ??? cioè si putrefaceva da viva ??? oppure l’ha lasciata morta a putrefarsi nella stanza ??? e a distanza di anni l’odore non se ne va ??? nonostante le mani di tempera sui muri e i deodoranti sparsi ??? e la malattia che tipo di malattia è e come si relaziona alla pazzia e all’indole al suicidio della madre ??? e che ruolo ha la sindrome da bimbo abbandonato che non riesce a trovare fotografie d’affetto in tutto questo ??? per favore qualcuno mi spieghi. (ps: obiettivo con una sola b)

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