A 4 mani, 14° racconto: L’ultimo giorno

La prima volta che vidi Giulio pensai all’orsacchiotto sbilenco e dagli occhi sbilenchi – o almeno, così lo ricordo – con cui giocavo da bambina. Ho ripensato a quell’immagine, stamattina, quando mi sono fermata nell’atrio con lui.
Un’immagine dimenticata, tornata con il sole che illuminava i molti lavaggi della maglietta azzurra di Giulio, e i suoi occhi, e i suoi occhiali.
Guardavo i suoi occhiali io, mentre lui, girandosi leggermente, mi chiedeva di indovinare cosa avesse dentro lo zaino.
I suoi occhiali, già: gli hanno insegnato ad aggiustare la stanghetta destra con lo scotch, sono mesi che va avanti così, la stanghetta però, ogni tanto si ribella e rende ancora più precario il suo sguardo… ma forse questo lo sto pensando ora, perché so.
– Allora me lo dici o no? Cosa c’è nel mio zaino?, mi ha chiesto nuovamente, sempre girato, con lo zaino strapieno.
– Non saprei. Oggi è l’ultimo giorno di scuola, giusto?
– Ho i regali per i compagni. Poi parto, non li vedo più…
– Come parti? Per andare dove?
– Non lo so, neanche Emilia lo sa.
So bene dove vai, ho pensato.

Eccola Emilia. Lo stava aspettando con il motore acceso e con suo figlio Francesco, che va all’asilo. Ho acceso una sigaretta guardandola, ma più che di fumare avevo voglia di dire cose cattive a quella donna.
Per dieci mesi Giulio è stato il fratello maggiore del piccolo Francesco, e io, dal piano di sotto li sentivo giocare, sentivo Francesco correre e Giulio cantare, ed ero contenta di quell’allegria oltre il soffitto. Ma ero anche contenta di non essere come la vicina della mia infanzia che terrorizzava mia madre: Vado dall’amministratore, sentirà le sue, cara signora. Mia madre, che mi costringeva a usare i feltri sul pavimento incerato, e guai se il volume della radio era un po’ più alto, respingeva sempre le mie ragioni. Quando diventai più grande, se la incalzavo si torturava il mento con la mano, Se ci fosse tuo padre non avresti il coraggio di dire questo, sibilava. Per lei, io esagero sempre. Cumuli di ghiaccio, fra noi.

Ma per Giulio è molto peggio, cazzo.
Ora che Emilia aspetta un altro figlio per Giulio non c’è più posto. La casa, dice Emilia, è troppo piccola. Giulio, ragazzino usa e getta.
Giulio, dalla prossima destinazione sconosciuta: altra casa, una casa famiglia, stavolta. Spero tu sia più fortunato, piccolo.
Quando Giulio, in ascensore, mi aveva detto, cercando di aggiustare quello strazio di stanghetta – Ora che arriva un fratellino a Francesco non mi possono più tenere -, non ci avevo creduto. Aveva ricacciato in tasca il rotolino di scotch: non gli era riuscito proprio un bel lavoro.
La portinaia che sa tutto, perché – secondo me – origlia alle porte (è stata lei a dire a tutto il condominio che mio marito se n’è andato) però ha confermato. Giulio è stato un bambino usa e getta.
Mancava un particolare: la data di partenza. Ora c’è anche quella. Ultimo giorno di scuola, ultimo giorno nella famiglia che aveva bisogno di un figlio tappabuchi.

Adesso lo sto guardando, nascosta dalle persiane del mio soggiorno. Credo sia l’ultima volta che lo vedo. Sta salutando, goffo, qualcuno che, dalla mia visuale, posso solo immaginare. Mi viene in mente solo Emilia, è un’idiota quella donna. Quando le dissi che l’avvocato Dalmazi del primo piano si era sparato mi aveva guardata sorridente. Le avrei sputato in faccia allora, perché Dalmazi era un uomo dai modi garbati e un ottimo avvocato, le vorrei sputare ora, per Giulio. Ho bisogno di un fazzoletto: le lacrime ricacciate scendono poi dal naso. Meglio che vada di là, da mio figlio. E’ di buon umore oggi, ha voglia di parlare. E io devo ascoltarlo.

Il verde dura pochissimo. Se nessuna delle macchine davanti gira a sinistra forse ce la faccio a passare in questa tornata. Dovrei fare in tempo a fermarmi anche in lavanderia. Poco tempo tra l’uscita dell’ufficio e il rientro a casa. Un tempo contratto, da dividere tra mia madre e mio figlio Lele che adesso è all’allenamento: ma se dio vuole da domani va in vacanza anche la squadra di calcio. Ho bisogno di allentare il ritmo anch’io: lezioni di inglese, il calcio, le visite al suo migliore amico che sta dall’altra parte della città… queste mi sa che dureranno fino ad agosto.
Fortuna che c’è parcheggio sotto casa di mia madre.
E Giulio? Dove sarà ora? Non so come funziona. Dormirà già stasera in un’altra casa?
Devo correre, si sta facendo tardi.
Mamma… Lascia stare, stiro io, vorrei dirle, ma non mi permetterebbe di metter le mani su ricami che ringiovaniscono grazie al suo rapido arroventarli, in punta di ferro.
– Mamma scusa, cosa sono tutti questi biglietti per terra,?
Mi mostra la borsa, compiaciuta: l’ha ripulita e svuotata da foglietti vari, che però poi sono caduti. Ha aspettato me affinché li raccogliessi. Ha la schiena a pezzi, porta il busto e non ha certo la forza per piegare le gambe o pulire con la paletta.
– Mamma sei pazza? Cosa sono questi scontrini?
Mi guarda con la fierezza di un bimbo impaurito. Anche in fondo allo sguardo di Giulio c’era paura, stamattina: perché non l’ho abbracciato? è così esile.
– Spiegami, per favore.
Gli scontrini per terra sono della pasticceria che c’è qui sotto casa. Significa rischiare, mamma, perché il diabete va alle stelle, insomma: significa essere deficienti…
Guarda il vuoto, avrei voglia di abbracciarla. No, le darei modo di sciogliere lacrime e lingua: mio marito, il passato, le vicine di casa…
Da un po’ evito lo specchio del corridoio di casa mia perché mi ha mostrato – a sorpresa – lo stesso suo modo di deglutire.
– Ciao mamma, vado a prendere Lele.
– Senti…
La sua voce trema, ora l’abbraccio…
Il vapore inutilizzato ha formato una chiazza sotto il ferro da stiro.
– Perché stasera non venite da me tu e Lele, è un po’ che non si fa vedere.
Oggesù, mamma. Lele non sopporta te e forse nemmeno me. Una cena fredda? Lele rimpiange la sua vita di prima, suo padre.
Cos’avrà per cena Giulio stasera?
– Va bene, mamma. Cosa prepari?

26 pensieri su “A 4 mani, 14° racconto: L’ultimo giorno

  1. …ok le perplessità, ma ha comunque il pregio di tratteggiare con veloci battute alternate a sapienti osservazioni, personaggi e situazioni confusi e caotici ,in un alternarsi di pensieri e di emozioni a volte appena abbozzati, come lo è la frenetica vita di oggi ,che non ci fa trovare a volte neppure il tempo di riflettere sulla nostra interiorità..per cui il suo limite diventa anche il suo pregio(anche il mio commento è scritto di fretta, spero se ne capisca il senso!)
    luisa

  2. Io invece lo trovo molto carino.
    C’è tanta roba, è vero, ma perché questo dovrebbe essere un fatto negativo? E’ uno scorcio di vita in cui si raccontano tante cose, che appaiono nella scrittura in prima persona quasi come il già citato flusso di coscienza. Mi piace. ;)

  3. Sfiora un po’ il melodrammatico, per me. Un po’ confusa la seconda parte, dal semaforo in poi.
    Ma ho letto di peggio.

  4. Avrei trattato un argomento solo in modo più “profondo”. Un condominio molto affollato per leggerlo in un unico racconto. L’affidamento è un argomento molto serio, ho apprezzato questo.

  5. Mi allineo al giudizio della maggioranza: troppa carne al fuoco. La scrittura è buona, apprezzo anch’io quei piccoli particolari che “fanno” il personaggio, ma ci sono passaggi troppo bruschi. Il fatto di sorridere alla notizia di un suicidio mi appare fuori contesto anche per una madre che sta per mollare in casa famiglia il povero Giulio…

    (warning! da questo punto chi è infastidito dalla mia classifica può passare oltre)

    Quindi, dicevo, mi piacerebbe comprenderlo tra i miei sei, ma riguardando i titoli mi accorgo che neanche “La casa del mais” merita di scivolare via e quindi resta tutto immutato. Ma faccio comunque i complimenti agli autori.

    1) Take away
    2) Anni sereni
    3) Il primo figlio
    4) beautiful monster
    5) Antiferesi
    6) la casa del mais

  6. A me invece non piace perché personalmente mi da’ fastidio questo sovraccarico di sfighe in un unico condominio: avvocati suicidi, bambini in affido, madri cattive, padri scomparsi, donne abbandonate e/o vedove, madri col diabete e questa sorta di odiosissima “madre coraggio” da libro Cuore che da’ dell’idiota e della deficiente in giro.
    Qualcuno ha detto giustamente troppa carne al fuoco, a me sembra che la sensazione di troppa carne al fuoco sia anche la sensazione di troppo sentimentalismo, troppa sfiga, troppo buonismo, troppi sacrifici tutti insieme.

  7. Alcuni spunti apprezzabili, qualche ingranaggio non perfettamente oliato nella costruzione della storia e nello stile. Un po’ ridondante ma non è un brutto racconto.

  8. Mi piace sia come scrittura che come storia, come altri commentatori avrei anch’io tolto alcuni pezzi. Per quanto riguarda il giudizio sui personaggi in genere sono da evitare, trattandosi però di un soliloquio, la protagonista esprimendo il proprio pensiero non può esimersi dal “giudicare”: questo giudizio è parte integrante della personalità della stessa.
    Per quanto riguarda il finale anche in un racconto breve può starci un finale aperto, il finale aperto può esserci anche in un romanzo, per dire.
    Finale aperto non vuol dire che la storia non finisce soltanto che non la chiude con un laccio ma lascia al lettore il dubbio e la possibilità di intenderlo come meglio crede, oppure semplicemente glielo fa intuire.
    Ciao Lucia

  9. Davvero benscritto e ricco di spunti… Una mamma timorata di Dio e che fa la bambina ribelle, o meglio tenta… davvero bella la immagine della stanghetta rappezzata con lo scotch, emblema della esistenza della protagonista che cerca e vede sofferenze simili a quantolei prova No il tema dominante non eè l affido eè l abbandono

  10. una buona prova, non si avvertono le quattro mani.
    l’argomento è ostico, reale, e se una madre non sorride alla notizia di una morte, sarà perché nemmeno lei è tanto viva…
    forse qualche dettaglio ha appesantito il racconto, che però nel suo insieme mi sembra riuscito.

  11. ci sarebbe molto da dire sul racconto che potrebbe svilupparsi in romanzo. la possibilità di espansione va lavorata, ma non esibita. resta un racconto e se sono state stabilite seimila battute bisogna lavorare compiutamente su seimila battute, non si può iniziare come se si avesse davanti l’infinito e poi accorgersi di essere a quota 5822 e chiudere senza grazia. è tutta lì la capacità o meno di chi scrive. il racconto breve è un’arte propria dei nostri giorni: non so perché, ma, pur essendo sempre esistita, mi pare abbia un senso ulteriore nel nostro tempo. e c’è chi ci sa fare. non essere scrittore non è una scusante: che scrivi a fare se non ti dai delle “regole”. se cucini da cani ti giustifichi dicendo “d’altra parte non sono uno chef^?

  12. Non lo so, forse è come dici tu, L. ma per come la vedo io, mi sembra che aver scelto una simile struttura, cioè quella che prevede racconti “tradizionali” con un inizio e una fine, non sia stata una scelta facile. Per farti un esempio, è un po’ come il tema d’attualità della maturità sul quale si buttano in tanti pensando che sia il più semplice di tutti. Per una mia personale visione della cosa, avrei preferito leggere racconti con una struttura meno blindata e più aperta. Tanti piccoli inizi che magari potevano pure proseguire in altre edizioni e essere ripresi, perchè no, in quelle successive magari anche da altre mani oppure portati avanti dagli stessi, se considerati meritevoli. Lavoro di fantasia lo so, però secondo me è più giusto considerare questi scritti come esperimenti di scrittura piuttosto che insistere sui meriti o demeriti. Mi scuso, forse sono stata un po’ confusionaria.

  13. Condivido la tua osservazione, ferrugnonudo. Ma il fatto che molti racconti siano più spunti per un romanzo, forzatamente condensati, è un demerito degli autori, non un merito o una scusante. Perchè dimostra che non hanno saputo scrivere un racconto in quanto tale, semplicemente. Il che, anche a quattro mani, è possibile, perchè due o tre riusciti, fra quelli pubblicati, ci sono.

  14. no infatti non è automatico. non scordiamoci però che la regola del gioco impone un tot di battute. in molto hanno scelto di “concludere”, scelta che io personalmente non condivido, ma che inevitabilmente a meno che le quattro mani non siano particolarmente “brave”, spinge ogni racconto o almeno molti di quelli che ho letto finora, a un’accelerata finale non sempre godibile.

  15. L’idea è interessante e il tema dell’affido importante ma questo non basta per definire un racconto riuscito se la scrittura non supporta adeguatamente le intenzioni.
    Slegato e con troppa carne al fuoco, come hanno detto molti. E’ vero che nella vita ci sono tante cose ma saperlo rendere per iscritto non è automatico. Anzi.

  16. Questo “Ultimo giorno” sale al primo posto della mia personale classifica. Noto che quasi tutti i commenti rilevano che ci stanno troppe cose, dentro: ma è nella vita delle persone che ci stanno tante, o troppe, cose. Un caso di affido, un suicidio, una donna anziana con il diabete, un marito che se ne va, nella vita di un condominio non sono poi tante cose. E qui vengono raccontate con grande sobrietà, direi. Un buon racconto, poi, è fatto anche di piccoli particolarIi come questi, ad esempio: “la stanghetta destra aggiustata con lo scotch”, “se la incalzavo si torturava il mento con la mano” , “perché mi ha mostrato – a sorpresa – lo stesso suo modo di deglutire”. Piccoli particolari che delineano i caratteri dei personaggi e della storia, che hanno la capacità di dire molto di più di tante parole.
    Se proprio devo trovare una stonatura (sforzandomi) è il sorriso della madre affidataria alla notizia del suicidio del vicino. Sarebbe forse stato meglio parlare di indifferenza. Ma chissà… magari è successo davvero una cosa così, a chi racconta.
    Vivissimi complimenti alle 4 mani.

    Milvia

  17. c’è realtà e realtà
    una mia collega aveva affidamenti su affidamenti
    mi sono sempre chiesta come facevano ad affidare ragazzini a un soggetto psicolabile come lei
    cmq bello il racconto, pone l’accento su un problema importante quale appunto l’affidamento di minori e non si sentono le quattro mani

  18. A una prima lettura (mi riservo una seconda ragionata) mi sembra un racconto “condominiale”.
    Un po’ troppe cose messe insieme, affastellate, un’indignazione repressa e rassegnata, perché la vita è così: non si riesce a starle dietro.
    Non tutto quadra nella trama e nella scrittura, ma non mi è dispiaciuto.

  19. a me sembra piuttosto slegato, troppi personaggi problematici, e troppi “giudizi” sottratti al lettore e infilati nella trama. ciò detto senza animosità e sarcasmo.
    :D

  20. Mi è piaciuto a tratti. Si è spento piano piano, proseguendo nella lettura. Secondo me c’è un po’ troppo. Il diabete della madre, per esempio, mi sembra che non c’entri molto, o c’entri in modo marginale in queste storie di disagio da vicinato – vissuto accusato – che il racconto vuole trasmettere. Mi sembra comunque apprezzabile la fantasia, anche se ci sarebbe bisogno di rivedere alcuni tempi e alcuni salti temporali. Più leggo e più provo a scrivere discorsi diretti più mi rendo conto di quanto sia difficile realizzarne di scorrevoli e credibili. Complimenti a questi autori a quattro mani.

  21. Penso che le famiglie per l’affido le scelgano con più cura e siano molto improbabili situazioni come questa, dove la madre sorride alla notizia di un suicidio, al figlio in affido si riparano per mesi gli occhiali con lo scotch e lo si butta fuori di casa, così, in modo sommario e senza spiegazioni. Avrebbero revocato l’affido molto prima, quantomeno.
    In generale il racconto appare slegato, con troppe cose insieme (Giulio, Lele, vicine presenti e passate, portinaia, ex marito, madre col diabete, matrimonio finito) anche per un genere a simil flusso di coscienza.

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