Il sentiero dei papaveri: l’idea del libro

Sto rivedendo Il sentiero dei papaveri. Uscirà nei primi mesi del 2024 ancora per la casa editrice Golem, ed è la prima volta che pubblico tre libri con lo stesso editore (con Fanucci e Pardisa Pop ero arrivato a quota due)
Prima del libro, a mo’ di introduzione, ci sarà questa mezza pagina.

Questo libro è ambientato ai tempi di facebook ma la parola facebook non viene mai pronunciata.
Eppure, tutto parte proprio da facebook. È un sera di qualche anno fa. Sono su facebook, e sto ascoltando un incontro tra psicanalisti. Sono collegati, ognuno dal proprio studio.
Il medico e psicanalista Emilio Mordini si mette a parlare dell’era digitale e dice: `«Sono le dieci di sera e stiamo parlando davanti al computer. È una follia comoda. Pensate: dopo un viaggio, potremmo essere attorno a un tavolo con una bottiglia di vino… Stiamo perdendo il ritmo della vita e la vita è un po’ come la musica, che è fatta da suono, pausa, suono. Senza pausa non c’è musica. Anche il pensiero è fatto da suono, pausa e suono. Noi stiamo distruggendo la pausa, non c’è più un tempo delle cose e se non c’è un tempo delle cose siamo tutti morti.»
Poi disse anche: «Tutto questo sistema è costruito per portare a un continuo consumo. Cosa fare? Dobbiamo tenere aperto il ragionamento. Pensate ai Benedettini durante gli anni delle guerre gotiche: studiavano, insegnavano la bellezza…»
Non sono un benedettino, io, ma fin da ragazzo mi è sempre piaciuto andare in un bar, mettermi in disparte, leggere e, a volte, anche scrivere. L’idea del libro nasce da questo.

Ci sarà questa pagina, alla fine ci saranno ringraziamenti e spiegazioni, ci saranno due citazioni, queste:

Conserviamo i libri vecchi. Nessun algoritmo potrà cambiare le verità che contengono.
Carla Vistarini, paroliera e scrittrice

Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga.
Albert Camus quando, nel 1957, gli conferirono il Premio Nobel


Quando si scrive le acrobazie non servono

Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce piú a che cosa devono servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscí molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano.

La spiaggia, incipit.
Cesare Pavese

Cosa vedo dietro queste parole? Vedo un narratore che invita a leggere una storia senza sussurrarti, mentre leggi, che il narratore è bravo e sa scrivere bene.
Vedo un narratore a cui importa il raccontare, con parole che scendono come l’acqua di un ruscello.
Se c’è una critica che mi sento di muovere a tanti che vogliono scrivere e a tanti che scrivono è questa: perché non narrate invece di sforzarvi di far vedere quanto siete bravi con acrobazie letterarie?

Maria Grazia Calandrone e sua mamma Lucia: la recensione del suo libro “Dove non mi hai portata”

… posso finalmente accarezzare il volto di mia madre, e il suo corpo di luce e di niente. E abbandonare il pregiudizio che solo la cultura ci permetta di capire le cose e conoscere il mondo fuori e dentro noi. Lucia aveva la seconda elementare, ma era libera. Perché aveva cuore. Quello che ancora splende, irreparabile.



La recensione sul mio blog, su Il Fatto on line.
LEGGI QUI

E buona domenica a chi passa di qui

Una bella poesia di Levi e un “pezzo” di un mio libro

In genere – così ho imparato – sulla rete è buona cosa pubblicare articoli brevi, magari con foto.
Oggi ne pubblico due, vista la lunga assenza.
Una poesia e un estratto di un mio libro che può essere un racconto.
Partiamo dalla poesia. L’ho letta su un blog molto amato e del quale, da tanti anni, nulla si sa: quello di Clelia Mazzini, insomma questo: http://akatalepsia.blogspot.com/
Ogni tanto ci torno e così, l’altra sera, mi sono imbattuto in una poesia di Primo Levi che ho postato su facebook e che ha ottenuto un bel po’ di like.
Il motivo? E’ semplice, arriva a tutti. Non occorre nessuna laurea. Eccola.

Il mio vicino di casa è robusto.
E’ un ippocastano di corso Re Umberto;
ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ne ha vergogna,
in aprile di spingere gemme e foglie,
fiori fragili a maggio,
a settembre ricci dalle spine innocue
con dentro lucide castagne tanniche.
E’ un impostore, ma ingenuo, vuole farsi credere
emulo del suo bravo fratello di montagna
signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
i tram numero otto e diciannove
ogni cinque minuti; ne rimane intronato
e cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
dal sottosuolo saturo di metano;
è abbeverato d’orina di cani,
le rughe sul suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali;
sotto la scorza pendono crisalidi
morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.
[Primo Levi – Cuore di legno]


E veniamo all’estratto di un mio libro. Nei giorni scorsi ho visto che su Amazon qualcuno ha acquistato La suora, La donna di picche, La donna chje parlava con i morti e Forse non morirò di giovedì. E anche una copia de La notte del santo, da cui copio e incollo questo estratto.

Il mattino del 26 giugno, giovedì, Giuliano Amadei, operaio Fiat, sindacalista duro e puro della Fiom-Cigl, si svegliò prima del solito: doveva correre all’ospedale Sant’Anna, perché sua moglie, questione di ore, avrebbe subìto un delicato intervento chirurgico. Dopo aver constatato che la giornata era uggiosa, e che la pioggia minacciava il cielo di Torino, ancora in pigiama e subito dopo aver svuotato la vescica, andò a controllare se suo figlio Marco fosse rientrato. Eppure l’Amadei sapeva bene che non era rincasato. Fosse tornato, lui, che aveva dormito poco e male, avrebbe sentito la porta di casa aprirsi e chiudersi, avrebbe poi sentito l’acqua del rubinetto in bagno, e infine avrebbe sentito lo sportello del frigorifero sbattuto forte, perché Marco, dopo aver preso una birra, era solito chiuderlo con un colpo di tacco.
Guardò la stanza vuota di suo figlio. I poster di Che Guevara e del Grande Torino li aveva gettati via, da tempo. Era un segno chiaro: Marco disconosceva tutto ciò che lo aveva legato a lui. E sulla scrivania non c’erano più le foto delle loro vacanze in Maremma. L’assenza di Marco, comunque, significava che per andare al Sant’Anna lui avrebbe dovuto prendere l’autobus, ma non era quello il problema. Il problema era Marco, che dopo il diploma da geometra, oramai sei anni addietro, si faceva mantenere pretendendo soldi di continuo e, maledizione, ormai era un figlio perso: che la madre stesse lottando contro un tumore a lui non importava nulla.
Un paio di volte avevano anche fatto a botte, padre e figlio, altre volte si erano limitati a urlare: «Drogato» «Fallito» «Comunista dei miei coglioni!»
Spesso, avevano litigato per contendersi l’unica auto che possedevano, una Volvo nera, acquistata di seconda mano, intestata al padre, ma preda del figlio anche allora, nonostante avesse la patente sospesa per guida in stato di ebbrezza.
Alle sei meno qualche minuto, Amadei, sentendo il citofono suonare, si illuse: poteva essere Marco, per la sua Luisa sarebbe stato un regalo piovuto dal cielo vedere i suoi due uomini ai piedi del suo letto.
Sentì una voce mai udita.
«Suo figlio è stato ucciso, avvisi la polizia, il cadavere è nel garage, dentro l’auto.»
Giuliano Amadei vide il corpo senza vita di suo figlio pochi minuti prima che arrivasse la polizia. Marco era seduto in auto, sul lato guidatore, bloccato dalla cintura di sicurezza. Con la testa penzoloni, quasi staccata dal corpo. La bocca incerottata. E sangue sul sedile, sui tappetini, sul vetro interno.
Non furono rilevate tracce di cocaina o di altre droghe, ma che il ragazzo fosse un assuntore e anche un piccolo spacciatore era noto, sebbene l’avesse sempre fatta franca (il padre era convinto che il figlio si fosse fermato alle canne.)
E comunque, era rincasato da bravo figlio.
«E’ tornato perché mia moglie, proprio oggi, va sotto i ferri» disse in lacrime il padre.
L’ispettore Tavoletti, entrando in casa Amadei, notò un grande poster appeso nell’ingresso: era una fotografia di una ventina d’anni addietro, di una manifestazione a Torino, con tante bandiere rosse e del sindacato. Giuliano Amadei, guardando l’obiettivo del fotografo, sorrideva orgoglioso di essere lì con un bel bimbo che stava portando sulle spalle.