SE L’ANIMA SI SPORCA…
(pubblicato su No Tag, Sottovoce, Maggio 2008)
Mi sono fatta rifare naso e zigomi, i miei capelli, ora, sono biondi e corti. Solo i vicini di casa e i colleghi in casa editrice mi riconoscono: da anni, quando vado in giro, non succede mai che qualcuno mi identifichi, a meno che non sia io a volerlo, ma io, solitamente, non voglio.
Tu però mi stai osservando con troppa attenzione. Sento i tuoi occhi incollati alla mia schiena. Pensa. Se tu venissi qua e mi dicessi che anche senza i capelli ricci e lunghi mi hai riconosciuta, e quindi debbo sparire dal tuo bagno lasciando l’ombrellone ad altri, io ti sorprenderei: sorridendoti.
E’ il terzo giorno, oggi. Ne mancano due alla partenza. Conoscevo la Puglia, era stata a Bari e Trani, ma mai fin quaggiù, nel Salento. Son qui per te, per rivederti. E’ stato facile rintracciarti: ho chiesto a un aspirante scrittore, poliziotto. Mi ha detto della tua casa, a Tricase, di questo bagno sullo Ionio, decoroso, un po’ scalcinato. Non ho chiesto altro al poliziotto scrittore. Ma avrei voluto: vive solo, ha figli, moglie, fa sempre l’impagliatore di sedie in inverno?
Mi hai riconosciuto, lo vedo. Se mi giro tu continui a fissarmi. Fai così solo con me. Sai che faccio? Oggi resto a pranzo.
Ricorderai, immagino, l’incipit del tuo libro: Quando ci si sporca l’anima una volta…
Non ricordo, poi, le parole che venivano. Ma il senso sì: basta una volta, e l’anima resta sporca, per sempre.
Eccomi qua, al tavolo. Su, da bravo, alza il culo e vieni, non mandare quel ragazzo, troppo giovane per essere tuo figlio. Stai venendo, mi servirai tu. Intanto ti servo io: ecco sul tavolo, per i tuoi occhi, due libri. Uno nuovo, l’altro di quindici anni fa quando tu, ormai, pensavi di… diventare un libro.
Fui io a scoprirti, fu mia la prima telefonata. E’ bellissimo quello che scrive, ti dissi. Fui io a cacciarti. Cinquantenne del cazzo, presuntuoso. Mi rispondesti con un ghigno.
Ti dissi, volli dirti mentre mi giravi le spalle che Il tuo manoscritto non rientra più e mai rientrerà nei nostri piani editoriali. Te ne andasti senza dire una parola, una bestemmia. Vedo i tuoi sandali da frate. Sto guardando i libri, guardali anche tu, forza. Poi interrogami.
Cosa le posso preparare signorina?
Ehi, oggi ho io cinquant’anni e tu mi lusinghi così? Signorina?
Cosa mi consiglia?… Ehi, ma guarda i libri, guarda il nome della casa editrice, prendesti l’aereo per venire da noi, era il tuo primo aereo, scommetto che da allora non hai più volato.
Va bene: cozze, vecchia ricetta salentina. Ma torna, guarda sul tavolo, e leggi il nome della casa editrice.. Eccoti, sei stato veloce, erano già pronte. Te ne vai senza dire, senza guardare? Già, c’è gente, sei indaffarato.
Sono buone queste cozze, non c’è che dire. Avrei voglia di fare la scarpetta ma sono a dieta. Qui in Puglia è tutto più buono. Peccato dover ripartire. Fra tre giorni sono nelle Dolomiti, per la mia depressione è meglio, m’han detto. Mi sta incantando questa terra, tornerò, magari non qui. Buone, proprie buone queste cozze, da scarpetta.
Sei di nuovo qua?, non mi ero accorta di te. Mi stai sorridendo.
Lo sapevo: mi hai riconosciuta. E’ per via del neo sulla mano sinistra? Stai guardando i libri, inespressivo, intanto mi spieghi che le cozze (sono stata io a chiederti la ricetta) sono preparate con tantissimo sedano (c’ero arrivata, grazie), un accenno di cipolla e tanto, tanto vino bianco, di queste parti. Vino bianco e sedano sono il segreto, mi spieghi.
Non ti guardo, io guardo loro, i libri, Dai, chiedi, che aspetti? Non puoi. Il tuo giovane aiutante ci ha raggiunti, dice: Sono arrivati.
Sono arrivati con una Bmw, sono in tre. Due con pantaloni corti e maglietta, il terzo, giovane, grasso e sudato, ha il completo, stropicciato, di lino bianco. Che avete da discutere? Siete lontani.
A me un tavolo lo devi trovare, testa di cazzo: il piccolo e grasso ha la voce forte. Con la testa, lentamente, dici di no. Non vuoi farli accomodare, del resto hai ragione, è tutto pieno. Quindici anni fa dicesti di no a me: ciondolando allo stesso modo la tua testaccia dura.
Ti avevo scoperto io, io, ma cristo quelli ti stanno spintonando, e tu continui a dire di no, con quel tuo cranio grosso, non penso ci siano taglie adatte a te.
Sei bello sai? Se ne stanno andando e il tuo volto è affilato dalla rabbia. Non li dimostri i tuoi sessantacinque anni, sei bello come un dio greco.
Il ragazzo ti sta consolando. La gente che, ai tavoli sta aspettando caffè e conto, tace. C’è tensione, nonostante il sole e il rumore del mare. Ci pensa il ragazzo a portare amari e caffè, tu vai alla cassa. Inforchi gli occhiali, hai gli occhi bassi. T’han visto tutti, un attimo fa, che sei barcollato per una spinta.
Erano belli i tuoi racconti contadini. Ricordo il prete guaritore, ricordo… quando ci si sporca l’anima una volta… basta una.
La moglie del sindaco cercò di sporcare l’anima del prete, forse per ripagarlo, lui aveva salvato suo figlio con un rito magico. Non ci riuscì, e si vendicò, infangando il prete… Ma fu la sua anima a sporcarsi.
E avevi fatto solo la quinta elementare. L’idea fu di Carlo, il mio primo marito, ma io la trovai geniale: avevamo preparato una quarta di copertina che avrebbe funzionato, Questo libro, di un uomo privo di cultura ma ricco di ricordi e di istinti primordiali…. ti fece rabbuiare.
Parlo l’inglese e sto studiando il latino, ci dicesti. E sapevi cos’era un ossimoro, un anacoluto. Eri arrabbiato, e pensare che ti eri presentato raggiante, con dolci pugliesi per tutti noi, fatti in casa. E questa è merda, dicesti, indicando la cartella che conteneva le bozze della copertina, il manoscritto, il contratto da firmare.
Rivedo ancora lo sguardo di Carlo, tutto per me: Convincilo, questo caprone non saprà resisterti.
Restammo soli. Ti spiegai. Tacevi. Mi facevi compassione, sai? Ma quando ti accarezzai la mano, dicendoti Pensa a quando accarezzerai un libro tuo, scattasti in piedi, sembravi morso da una tarantola.
Ricordo che pensai: ma non vede quanto sono desiderabile? No, no… la psicologa dice che non devo prendermi in giro… Pensai: come fa questo a non avere voglia di scoparmi? A nessuno, mai, avevo sfiorato la mano, a nessuno, mai, l’ho sfiorata, dopo di te. Tutti ai miei piedi, sempre, quelli alle prime armi. Tu, invece, eri lì, sprezzante. Così ti cacciai.
Agli altri dissi che non avevi accettato nessuna mediazione, che eri un presuntuoso. Mi ero vendicata di un Cinquantenne del cazzo; tu, tu non avevi detto sì come mi dicono tutti, non mi sorridevi, te l’avrei staccato quel testone che faceva no, no, no…
Sono davanti a te, alla cassa, hai altro per la testa oggi. Vado via, parto, ti dico. Arrivederci signorina, dici. Il tuo giovane dipendente ti sta guardando con ammirazione.
L’AUGUSTO
(Su Sacripante)
Manca un’ora. Più dodici minuti.
L’ultima ora sarà tutta per mio figlio, questi 12 minuti, invece, per te caro Emilio.
Ma dimmi, sei ancora vivo?
Io sì, per un’ora, 11 minuti e una manciata di secondi. Poi due rette, uguali e contrarie, si scontreranno: per la grande scintilla.
Non sono schiavo di nessuno, io, nemmeno della libertà.
Gliel’ho detto, sai?, ai socialisti che mi vorrebbero arruolare. Il rosso mi piace, accidenti, ma le loro facce no.
L’Augusto è più libero del vento.
E’ libero come un berbero, l’Augusto.
Ed è più libero di te, caro amico dai piccoli occhi furbi, che sanno immaginare tutto.
Quante cose mi hai rubato. Poi ci salutavamo, dopo cinque, sei, sette bicchieri di vino.
Rubavi le mie storie, e andavi a imprigionarti per scriverle, e sognare la gloria che invece, questi bastardi, hanno regalato a D’Annunzio, facendoti morire di rabbia e povertà.
Povero amico mio, schiavo di soldi e della fama.
Io no, tu lo sai.
Ricordi Rimbaud? Mi scrisse tempo fa, ma a te, di quel giovane, sconosciuto poeta, non importava nulla.
Tu volevi le mie storie d’Africa, i miei mille duelli, le mie donne, che mi hai sempre invidiato.
Ne ho una sola, ora, proprio come te. E un figlio, che non mi somiglia e a cui non so parlare.
Povero amico, che per respirare il profumo che emanano le femmine vogliose hai dovuto, di notte, dare vita alla favorita del Mahdi, alla regina dei Caraibi, alla Perla di Labuan. Marianna, la tua preferita. Il tuo grande amore segreto.
Che io non ho avuto: ho collezionato spedizioni in terra d’Africa, io, duelli, io, e mogli di altri: le più calde erano quelle degli ufficiali torinesi.
Caro amico, mancano, ormai, tre minuti. Tre. Come gli atlanti che ho disegnato, come le spedizioni che mi hanno seccato il cuore, come le mie pistole.
Ne userò solo due, per la grande scintilla.
Ho pensato solo a te, oggi.
Perché tu, come me, sei una grande vittima: di questo secolo. Che sia maledetto il Novecento e che, quando arriverà il Duemila, porti via questa follia chiamata progresso.
Evviva Mompracem, evviva Sambigliong, il tuo eroe più silenzioso.
Caro Emilio, il tuo tempo è scaduto.
Anche il mio.
Devo dire a mio figlio qualcosa, che non so trovare.
Un giorno mi dicesti: Ma nelle carte che hai disegnato la tua firma non c’è, nessuno si ricorderà di te.
Avevi ragione, è bello essere ricordati. Mi pento di non avere lasciato segni.
E’ per questo che scriverò a mio figlio.
Mancano 58 minuti.
Poi arriveranno due rette, uguali, potenti e contrarie. E la scintilla. Così tutti, tutti, si ricorderanno dell’Augusto.
Augusto Franzoj (San Germano Vercellese 1848; San Mauro Torinese, 1911), scapigliato, esploratore (Africa e Amazzonia), mazziniano, collezionista di donne e duelli.
In Africa, durante una spedizione verso i laghi equatoriali, conobbe Rimbaud. In Italia, durante un convegno, Salgari.
Morì suicida, premendo contemporaneamente il grilletto di due pistole puntate alle tempie. Piaceva a Carducci. Non si sa se Carducci piacesse a Franzoj.
IL CENTRAVANTI
Questo racconto è pubblicato in un’antologia curata da Giusy Baldissone (Racconti di sport) con autori noti (Givone, Ricciardiello, Laura Bosio) e meno (come me)
Sono le 3, devo dormire, ma più lo dico e meno ci riesco. Devo rilassarmi, scegliere i pensieri giusti. I gol più belli. Il mare della Calabria, la piazza del paese, il gatto. Ora faccio entrare aria: fa caldo stanotte in questo albergo di Torino. Ma anche restassi sveglio tutta notte so che domani giocherò bene. Ieri su Stadio hanno scritto: Un calciatore sconosciuto, non più giovane, un figlio del sud che ha sempre militato fra i dilettanti, domenica vivrà un giorno di gloria: perché giocherà contro la difesa più forte della squadra più forte d’Italia. Giornalisti ruffiani. Ho fatto raffiche di gol in prima categoria, Promozione e in serie D, e voi sempre a dire, ripetere, che ero brutto da vedere. Troppo piccolo e tarchiato. Scrissero: Ha qualcosa in comune con Maradona: la “tondità”. La mamma ci restò male, pianse; stasera mi ha telefonato: sa che domani giocherò bene, ma ha paura: che io voglia strafare, che corra troppo, che mi faccia espellere se qualcuno dovesse dirmi “nano terrore”.
Ti ricordi mamma quando Lino ti pigliava a calci e pugni e diceva Sei brutta come un rospo? e che io non potevo essere figlio suo? No, non devo pensarci, altrimenti non dormo.
Un altro Lino, Lino DeLuca il magazziniere della prima squadra di serie D in cui ho giocato, è stato il mio vero padre. Un centravanti alto un metro e 70 e che pesa 74 chili, se non gli dài l’opportunità di dimostrare che ha il fiuto del gol come pochi, è destinato a far la riserva. Peggio: riserva delle riserve. Durante le partitelle del giovedì stavo ai bordi del campo: squadra A contro squadra B. Poi alla fine, io coi ragazzini a giocare qualche minuto. Ma il mister aveva già visto quello che doveva vedere. Per lui non esistevo: inutile dare l’anima in quei pochi minuti. Meglio tornare al paese, fare il muratore: come riserva delle riserve guadagnavo troppo poco per pagare il cardiologo per la mamma. Fosti tu, Lino, a convincermi a restare, quella sera che entrasti nello spogliatoio. Ero rimasto solo io. Piangevo. Andiamo al bar, andiamo a bere qualcosa, dicesti.
Ti dissi di me, di mio padre che in casa si vantava di essere andato a puttane, di quando mi diceva: brutto come sei puoi farti solo seghe. Cose che non avevo mai raccontato a nessuno. Come di quel giorno che lo picchiai, cacciandolo da casa. Ero tornato dall’allenamento. Lui era ubriaco, la mamma sanguinava dal naso. Aveva il vestito strappato, le mutande per terra.
Ti raccontai tutto, Lino DeLuca. Tu mi raccontasti di tuo fratello, in fin di vita, e che la sera prima di addormentarti sognavi di fare l’allenatore. Tu, lavorando in squadre di serie C e D, avevi rubato i segreti a tanti tecnici. Qualche allenatore, quando parlo con lui, mi ascolta, qualcun altro no, dicesti. Chissà se mi avevi mai notato sul campo: ero uno dei 28 giocatori, uno degli ultimi. Quando giocavo scampoli di allenamento tu già ritiravi paletti, palloni e pettorine.
Era mercoledì. Il giorno dopo, giovedì, l’allenatore mi fa giocatore la partitella con le riserve. Gli avevi parlato tu. Segnai un gol, colpii una traversa, per due volte rubai palla ai difensori, pressandoli. Tu mi guardavi da bordo campo, compiaciuto. La domenica fui convocato, andai in panchina, entrai alla fine, 5 minuti e un tiro; scagliai una sassata di punta, da 25 metri: per un soffio a lato. Dalla domenica successiva ebbi la maglia da titolare, la numero 28. Giocai sempre, fino a fine campionato: 12 partite, 12 gol.
Fui venduto a un’altra squadra di D. Ti salutai con un abbraccio forte forte, Lino DeLuca. Era tutto merito tuo. Non mi piace la gente, non mi piacciono i miei compagni di squadra. Sto solo, vado a pescare, a correre, sto in disparte e, ogni giorno, vivo per due telefonate: alla mamma e a te, il padre che avrei voluto avere.
Ho cambiato tante squadre ma ho sempre segnato, io. Il record è dell’anno scorso: 30 partite e 32 gol, tutti su azione.
Tanti di testa, in tuffo, rischiando i tacchetti dei difensori in faccia. Quando, ad agosto, mi dissero che un club di A era interessato a me pensai a uno scherzo. Certo, era una neopromossa del sud, con un presidente mafioso che paga con sei mesi di ritardo e che già sai che quando andrai via non prenderai ciò che ti spetta. Al sud succede: per arrotondare, fino all’anno scorso vendevo sigarette di contrabbando.
La mamma non è mai stata così felice, credo. Ora, in casa nostra, appeso al muro, accanto al Crocifisso c’è, incorniciato, un articolo. C’è scritto: Non è bello da vedere, è troppo tozzo. Nelle prove di velocità è lento. Ed è piccolo, non sa palleggiare in corsa. Poi lo vedi mentre gioca e si trasforma. Nello scatto breve arriva sempre primo, non perde mai un tackle, asfissia i difensori; si fa valere anche in elevazione, ma non è forte di testa. E’ forte nella testa. Per lui è arrivata la prova del 9: a 28 anni la serie A.
Ero uno dei 32 giocatori. Riserva della riserve. Fino a cinque giorni fa. Ora devo riposare, è tardi. Sono quasi le 4, dormirò 4 ore. Domani farò una buona partita. I loro difensori sono veloci, prestanti, belli da vedere. Sono più forti di me. Lo era anche mio padre quando lo cacciai di casa.
MOBBING IN FAMIGLIAPubblicato nella raccolta MOBBING
ottoracconti
(RemoBassini GajaCenciarelli SaverioFattori
GiuliaFazi FlavianoFilo SergioKraisky
YariSelvetella ChiaraValerio)
Sembrava un bel pranzo colorato di primavera, tra amici. Quindici persone. Gente adulta, benestante, i figli ormai grandi sono altrove.
Si banchetta, si ride e si scherza. E si brinda. Arrivano dolce, caffè, e calvados o cognac, e amari. La giornata è illuminata da un sole caldo, la compagnia è piacevole e la padrona di casa – involontariamente – rutta.
Tutti fan finta di niente, chisseneimporta.
E invece.
«Fai schifo, ogni giorno che passa fai sempre più schifo», sbotta il marito. Nel cui viso si staglia una smorfia, e che è peggio di un insulto. Su tutto, cade una cappa di gelo, di imbarazzo, di sguardi che cercano rifugio oltre le finestre, spalancate, verso il prato coi riflessi di sole, oppure sotto il tavolo.
Lei si porta le mani al volto, singhiozza, si alza, vacilla e quasi casca, ma nessuno che vada a sorreggerla mentre, barcollando, fugge in cucina. Nessuno che dica una parola. Del resto si sa.
Sembrava un bel pranzo colorato di primavera, tra amici. Quindici persone. Gente adulta, benestante, i figli ormai grandi sono altrove. Insomma, stessa scena.
Con la padrona di casa che – improvvisamente – rutta. Non l’ha fatto apposta, è chiaro a tutti, si dovrebbe continuare, far finta di niente: e invece…
«Fai schifo, ogni giorno che passa fai sempre più schifo», farfuglia il marito tra l’imbarazzo generale, e un silenzio, che dura un attimo.
Perché lei, dopo un sorriso e uno “scusate” per gli ospiti, guarda il consorte e lo gela, con lo sguardo, ma non solo: «Che dici Carlo, mi chiedi scusa subito?, o aspettiamo che se ne vadano tutti?», dice, scandendo bene le parole.
Ci raccontasti queste due storie, parlandoci di mobbing familiare, caro prof.
Più che raccontare ce le facesti vedere. Il prato era verde e la barba dei mariti bianca, curata alla perfezione.
Dicesti anche: «Ragazzi, considerate che c’è sempre di mezzo il caso. Sempre. Due mariti teste di cavolo, uno con la moglie che s’ingozza di psicofarmaci, forse perché sta invecchiando ed è troppo grassa, e che finirà prima dallo psicanalista, poi sul giornale per un tentativo di suicidio sventato in zona Cesarini, e infine da un maresciallo, a dire, dirgli che ne ha basta di un marito che la tradisce da anni, che la tratta come una bestia di fronte a tutti, umiliandola, e che le molla anche qualche ceffone, ma non solo, non solo. Ha fatto in modo che i figli la odino, che si vergognino di lei. E poi non la sfiora nemmeno più. Preferisco farmi una sega, le dice, anzi no: le sussurra piano, così che nessuno sappia. Così che un qualsiasi maresciallo, un giorno, non potrà che dire: Signora, ho bisogno di qualcosa di concreto, non posso intervenire. Si rivolga a un avvocato, ma ne scelga uno bravo, altro non le so consigliare».
«Ma signor maresciallo, mi ascolti… è arrivato al punto di portare a casa le sue amanti; e i miei figli la sera escono con lui, con lui e quelle puttane, e quando gli chiedo i soldi per la spesa mi dice che dovrei andare a lavorare; certo che vorrei, ma a 54 anni?, come si fa, a 54 anni? E dove li trovo i soldi per un avvocato, io?».
Quella donna, ci dicesti, si sentirà impotente, umiliata; un giorno, forse, potrebbe fare di tutto, anche togliersi la vita: «Ai calpestati a volte non resta altro».
Solo ora capisco, so il significato di quella frase.
E so che i due mariti sono la stessa persona.
Il primo potrebbe essere condannato: o dalla legge o dai sensi di colpa se lei s’ammazza.
Il secondo no.
Ha una moglie che non si fa mortificare in mezzo a tutti, anzi: e poi: non s’ammazzerà, lei, non piangerà, non si vendicherà, non scatenerà sensi di colpa che durano una vita. Solo tanta paura quando la si tradisce, con qualsiasi segretaria piò o meno conseziente, in ufficio.
E tu, professore, eri come uno dei due mariti.
Professore, dicevi che il mobbing invisibile è il male peggiore.
Le ricordo, io, le tue parole.
«Donne e uomini che soccombono, perché quando non ci sono prove non c’è neanche la legge».
«Le leggi non sanno pesare i pesi del cuore».
Le ricordo e le ho scritte tutte le tue parole, io. A casa, quando ti pensavo; e poi a lezione ci dicevi di non prendere appunti.
Professore, non sapevamo, non sapevo io, del peso che ti portavi dentro.
A Milano, poi, c’è tanta nebbia, che avvolge tutto; e tanto smog, che avvelena; e tanti rumori di clacson, che sommergono voci e disperazioni.
La tua, professore: per una figlia forse suicida.
Quando penso a te, ti dipingo. Un grande quadro, tu sei al centro. Attorno a te quattro donne. Tua madre, che guarda in alto, serena e austera. Tua moglie invece è in penombra, sullo sfondo. Poi ci sono loro, le tue due figlie. Ilaria, la più grande, la più bella, quella che ti somiglia. E Nadia, piccola e tozza, che vi guarda. E aspetta di incrociare il tuo sguardo. Ma tu hai occhi solo per Ilaria.
L’abbiamo saputo nella tua lettera d’addio, professore. Una lettera pubblica, per tutti. Hai creato un blog, hai postato una sola volta. Poi ti sei impiccato (e io, lo sai, perché lo sai, te l’avevo fatto capire, io ero innamorata di te).
Tua figlia Nadia si era uccisa, perché l’avevi derisa, pesantemente.
Umiliata.
Era sovrappeso, un po’ strabica.
Era carnevale di un anno prima, quando successe.
Lei che entra nel tuo studio, forse ti dà fastidio, perché stai leggendo, studiando: «Papà ti piaccio vestita da fatina?».
«Sei una palla Nadia. Giuliaaaaaa, ma quand’è che ti decidi di metterla a dieta? Questa vive di Nutella e Mulino Bianco. E ti sembra intelligente mandarla in mezzo a tamarri e coglionazzi conciata in questo modo? Giuliaaaa, me la stai rovinando».
“Invece l’ho rovinata. L’ho distrutta io”, hai scritto nel blog.
Nadia andò alla sfilata di Carnevale insieme a due sue compagne di scuola, che poi la riaccompagnarono ma, accidenti al caso, fino all’altro lato della strada; la salutarono la lasciarono attraversare da sola, o forse fu Nadia che insistette, che disse Andate, che sono arrivata: attraversò, e fu investita da un’auto, sotto i tuoi occhi.
Nel blog, tu, professore, scrivesti.
“Ma non fu un incidente. Mi vide, stavo fumando sul balcone. E mi guardò, con odio. E ho una certezza, anche. Che piangeva. Ho un’altra certezza: Nadia aspettò che arrivasse un’auto, e fu fredda, spietata nella scelta: perché scelse quella che andava più di fretta, merda. Mia moglie Giulia disse che no, non era andata così. Temeva di perdermi, per questo mentì e mente tuttora”.
Professore, nel blog, hai scritto: “Chiedo cinque volte scusa”.
Scusa numero uno: a Nadia, che ti ha trascinato con sé.
Scusa numero due: a Giulia, tua moglie.
Scusa numero tre: a Ilaria, la figlia prediletta, “quella che usavo per mortificare, violentare la sensibilità e la fragilità di Nadia”. “Scusami Ilaria, meritavi un altro padre”, hai scritto.
Scusa numero quattro: Alla tua vecchia mamma; “Perdonami mamma, ma non ho ereditato né la tua dolcezza né la tua forza”.
Poi la scusa numero cinque: “E chiedo scusa a i miei studenti e alle mie studentesse dai capelli in fiore”.
Un messaggio criptato: per me. Per quella volta, al parco.
Mi raccontasti di tua madre, eri orgoglioso di lei. Ti aveva cresciuto con rabbia e con amore, dicesti.
Guardavi il vuoto, mentre parlavi. E la tua borsa da prof. la blandivi come un’arma: tesa, di fronte a te, come qualcosa che si può scagliare, o qualcosa con cui si accusa.
Ti risento, sai?
«Con la tessera del partito comunista in tasca, prima del sessantanove, prima dello Statuto dei lavoratori, dovevi lavorare il doppio se non volevi rischiare di non trovare più la cartolina da timbrare. Quando ti licenziavano non si sprecavano nemmeno a dirtelo, o scrivertelo. Ti toglievano la cartolina, via, espulso. Vai a fare la puttana se vuoi mantenere i tuoi figli, così impari a fare la comunista, a perdere tempo alla Camera del lavoro».
Parlavi in fretta, scuro in volto.
«Certe sere, quando mi addormentavo sentivo la mamma che piangeva. Succedeva solo di sera, tardi, mai e poi mai si sarebbe fatta vedere piangere da me».
Non osai chiederti nulla di tuo padre. Pensai che non c’era.
(Tua madre dovette prostituirsi per mantenerti, farti studiare?)
Poi cambiasti espressione. Arrivò, anzi tornò il tuo bel sorriso, di sempre. Di quando a lezione dicevi “ragazzi”.
Ti avevo proposto io quella passeggiata.
«Hai i capelli in fiore», mi dicesti. E con la mano, frugasti tra i miei capelli. C’era un petalo di magnolia, me lo porgesti.
Mi salutasti, con un saluto diverso.
«Ciao piccola».
(Ciao piccola, era un saluto diverso. Nuovo. Mi dicevi sempre “ciao ragazza”, quando ci salutavamo, dopo aver parlato, io e te, durante l’intervallo).
Subito, ti scrissi un sms: Ti prego, torna, che ti aspetto.
Ma il cuore mi batteva forte, non lo inviai; e così è rimasto in memoria nel mio Nokia, quel messaggio che ogni tanto bacio.
Ti rividi a lezione un’altra volta, e basta. E durante l’intervallo non riuscii a incrociarti, chissà dov’eri (ero gelosa, sai?).
Non ti rividi più perché partii, insieme a mio padre, una settimana a Londra dalla zia. Accidenti ai testamenti, alle zie che non si conoscono.
Da quanto ho saputo, ti sei ucciso mentre il mio aereo stava atterrando a Milano Malpensa. Pensavo a te, sai?
Ti sei ammazzato perché hai trovato il diario di Nadia.
Ti ha ucciso una frase.
“Mio papà vuol bene solo a Ilaria”.
Hai scritto tutto nel blog, due giorni prima.
Sono mesi che vengo qui, sul parco. E cerco tra i miei capelli, petali. Però non piango, no. Scrivo di te. E le tue storie.
Del mobbing per caso. Nelle case.
Sembrava un bel pranzo colorato di primavera, tra amici. Quindici persone. Gente adulta, benestante, i figli ormai…
GIOVANNONE
Pubblicato nel vecchio blog, Appunti, e sul sito Arteinsieme.
Era un solitario diverso. Sorrideva sempre. Ma metteva anche paura.
Due metri d’uomo, e di muscoli.
Più che sorridere dispensava ghigni benefici, da bestione qual era, annuendo. E tutti gli rispondevano allo stesso modo, annuendo.
Perché in fabbrica qualcuno aveva detto – e quel qualcuno era stato preso sul serio – che Giovannone bisognava lasciarlo in pace.
Se invece non lo si lascia in pace – aveva poi specificato quel qualcuno – Giovannone spacca tutto.
E’ un diavolo.
Anche il suo caporeparto non gli diceva mai niente: del resto Giovannone lavorava come un mulo, arrivava mezz’ora in anticipo, e non si perdeva mai in chiacchiere di juventus e fighevarie.
Viveva in un piccolo paese e quelli del suo paese, in fabbrica, dicevano niente di lui.
Era il Giovannone e basta.
Senza moglie e figli. Senza vizi. Non fumava, non andava al bar, niente. Se andava a donne nessuno lo sapeva, se non gli funzionava era affar suo, che gli piacessero i maschi era escluso. Non era il tipo.
Guidava una vecchia fiat 127, la guidava bene e la teneva bene, sempre pulita. Al fiume però andava in bicicletta e, Giovannone, al fiume ci andava spesso, perché una cosa, almeno quello, di lui si sapeva: che gli piaceva pescare, pescava ogni domenica, pescava quando poteva e quando pescava si vedeva, dicevano i suoi compaesani, che si trasformava, ché oltre al ghigno benevolo Giovannone salutava pure.
“Giorno”.
Qualcuno, pare, andò di proposito a veder dove pescava; avrebbe sentito la sua voce, “giorno”, mai sentita, ché quando andava dal panettiere, per esempio, indicava il pane con testa. Senza dire. Ma salutando poi, all’uscita: con l’immancabile, rassicurante ghigno benefico.
Ma non gli si doveva rompere i cosiddetti.
Che poteva saperne di questa regola il nuovo guardiapesca, che veniva dalla città?
Al terzo quarto giorno di servizio si era imbattuto in Giovannone, che pescava, tranquillo. Il giovane guardapesca gli si avvicinò, domandogli di esibire la licenza.
Giovannone non l’aveva, non l’aveva mai avuta e non aveva intenzione di interessarsi per averne una. Non c’erano testimoni ma, sembra, che, non si sa come, fece di tutto per fare capire al giovane guardiapesca che era meglio che andasse da un’altra parte a scassare i marroni.
Non ci fu verso. Il giovane guardiapesca gli disse che avrebbe avuto guai, e che doveva multarlo.
Giovannone, tranquillo come sempre, del resto era tranquillo lui, fu avvistato verso l’ora di cena in paese. Tornava in bicicletta, fischiettando. Andò a casa, si preparò da mangiare, andò a dormire presto, perché avrebbe dovuto svegliasi alle 5 per il turno 6-14 in fabbrica.
Prima di andare in fabbrica, ma dopo aver bevuto il suo tazzone di latte e dato da mangiare al gatto, Giovannone, chissà in che modo, a qualcuno lo disse.
Era estate, quindi non furono riscontrati danni evidenti: ma il guardiapesca fu trovato legato a un albero, vicino al fiume. Legato e imbavagliato, da un fazzoletto lercio abbastanza.
Non aveva un graffio. S’era solo pisciato addosso, essendo sprovvisto di vescica di scorta.
Dormiva, e si spaventò quando lo svegliarono e lo liberarono dai lacci e dal bavaglio. In un primo momento vomitò spropositi e invocò vendette. Lo portarono in municipio. Dove ci fu adunanza. Sindaco e maresciallo dei carabinieri tentarono di rabbonirlo, ma invano.
Insisteva. Fu il vecchio prete a convincerlo. La prossima volta che ti lega magari non avvisa, ne è scomparsa di gente così, stupidamente.
TAMARRI
Pubblicato su SpazioAutori di Stampa Alternativa; su Soda; e sul blog di Assunta Altieri.
Allora ho pensato, almeno uno, almeno uno ce l’ha fatta. Uno dei miei ragazzi non si è spappolato il cervello impasticcandosi, non è finito dentro, non è andato a sfracellarsi in motorino, col cervello fuso dalla coca, o dal Tavor mescolato con grappa ai mirtilli fregata al supermercato.
Ce l’ha fatta proprio Andrea, che fino a poco tempo fa veniva chiamato cazzo-nano, e lui si lasciava sfottere, qui al bar, con un sorriso disarmante, strano. Stava in un angolino, vicino la stufa, a leggere Diabolik, oppure sfogliava Quattroruote. Un’ora, massimo due, poi correva a casa a studiare. Quest’anno fa prima istituto tecnico.
Però quel giorno Vasco, che arrivò con Rosy, esagerò con lui: cazzo-nano, mongolino, scoreggia. Rosy faceva la superiore. Fumava, sorseggiava una Ceres a piccoli sorsi, guardava il soffitto. Da donna annoiata. Per lei, la mia bettolaccia, da quando ha cominciato a puttaneggiare mettendo autoreggenti, reggiseni a balconcino e prendere la pillola di sua madre, è il posto della disperazione: il suo culetto ce lo porta, ma solo se non ha di meglio altro da fare. Una volta, massimo due al mese.
A un certo punto, Vasco, dal momento che Andrea non si decideva a dargli la minima, gli disse: “Quella zoccola di tua madre da chi se lo fa mettere nel culo, sempre dal tabaccaio?”.
Puttana bastarda, era vero: la mamma di Andrea aveva una storia col tabaccaio. Io l’avevo saputo due sere prima: me l’aveva detto, ubriaco e in lacrime, proprio il padre di Andrea, quando nel bar eravamo rimasti soli. Vasco però l’aveva sparata per puro caso. Disse tabaccaio ma avrebbe potuto dire anche panettiere: perché lui mica lo sapeva. Allora Andrea, mai capito dove l’avesse presa, forse dalla tasca forse da terra, tutto rosso, imbestialito come non l’avevo mai visto, si scagliò contro Vasco, che non se l’aspettava, conficcandogli una forchetta nella mano destra. Vasco, strillò come una gatta in calore, perché la ferita era profonda e la mano sanguinava, mentre Rosy continuava, imperterrita, a dimostrarsi distaccata. Fumava come fumano le puttane quando vogliono dimostrare a tutti che sono puttane.
Ero sbalordito. Mai e poi mai mi sarei aspettato di vedere Andrea così, con gli occhi da matto. I suoi occhi sono buoni, non è un tamarro.
Ma mi aspettavo il peggio, perché Vasco è un vero duro, ha paura solo di Rosy lui. Infatti. Dopo essersi fasciato la mano con un fazzoletto più lurido dei cenci che uso per lavare il pavimento, ed esserselo annodato coi denti, con calma – perché i duri accidenti a loro sono freddi e se non lo sono imparano a esserlo – accese una sigaretta, mi chiese un Campari, lo tracannò, quindi, lentamente, si diresse verso Andrea. Io lo sapevo che Vasco ha sempre un coltello in tasca, per questo non intervenni, ho paura del sangue, e non voglio beccarmi l’aids, già soffro di cuore.
“Che cazzo, dovevi accompagnarmi alla Benetton, dài che ho fretta” disse Rosy sbuffando e dimenando la testa. Ma Vasco niente. Era davanti ad Andrea, al centro del bar. Pensai: ora l’accoltella, ora l’accoltella, così mi chiudono il locale, mi portano in questura e magari mi riempiono di cazzotti. Invece Vasco, da vero duro che non ha fretta, che vuol dimostrarti che è calmo perché vuole farti cagare sotto, disse ad Andrea: “Vado via con Rosy, ma stasera ti faccio secco, oppure domani, cazzo-nano”. Fu l’ultima volta che qualcuno disse ad Andrea cazzo-nano. Andrea è un po’ più piccolo di Vasco: ma poco. Andrea, sembra quasi un fungo, perché è mingherlino e ha la testa grossa. E con una testata, improvvisa, tremenda, spaccò il naso a Vasco, che cascò a terra, kappaò, col sangue che gli usciva a getto continuo. Era lui, adesso, che aveva occhi da pazzo. Lui, non più Andrea. Rosy intanto si era girata per non vedere, impressionata da tutto quel sangue: sulla faccia e sulle mani di Vasco, in quella sana e in quella ferita, fasciata. Andrea intanto, coi pugni serrati, teso, fissava Vasco che, seduto in terra, con le mani al viso, senza guardarlo gli diceva “bastardo, bastardo, mi hai staccato il naso, non riesco a respirare, bastardo”.
Nel mio bar, è piccolo, una stanza sola con quattro tavolini, un televisore e due videopoker, succede di rado che la gente si pigli a botte. Anche i marocchini quando sono sbronzi e litigano, fra loro o con gli italiani, vanno fuori a scazzottare. Gli zingari, no, loro non danno problemi, forse perché compro e rivendo la roba che fregano. Vengono, acquistano doppi litri di vino a buon prezzo, si fermano poco. Rubare non rubano, anche perché sto sempre dietro al banco e tengo tutto dietro di me. Quando il bar è aperto non vado nemmeno a pisciare, anche se certe volte la vescica mi scoppia e qualche spruzzata di piscio finisce nelle mutande. Se però avevo un attacco di diarrea, e ogni tanto mi succede specie quando prendo freddo, chiamavo Andrea: mi sostituiva lui al banco. Di lui mi fidavo.
Dopo aver pestato Vasco – e la notizia destò scalpore: mai successo che Vasco avesse preso botte da qualcuno – Andrea, di diritto, entrò a far parte dei duri: e due mesi fa, un sabato sera, quando lo vidi andare via, casco in testa insieme a Fritz e Luca, tutti e tre in motorino, dissi fra me e me: pure lui.
Fritz e Luca sono fratelli, Fritz ha 15 anni, Luca 14. Si fanno le canne, spacciano ecstasy in discoteca, ma mi hanno giurato e spergiurato che al bar non porteranno mai roba. Vorrei che non spacciassero nemmeno, è da 10 anni, da quando sono uscito di galera, che in questo bar sono passati ragazzi che, o sono morti per overdose, o sono finiti ammanettati. Qui tutti mi rispettano, perché sono un ex carcerato, e questo fa impressione, ma a nessuno racconterò mai che mi sono fatto un anno dentro per aver truffato un centinaio di vecchiette travestito da francescano. Riderebbero. Inoltre sono tutti convinti, ho messo io in giro la voce, che nel cassetto ho una pistola.
Solo Rosy, una volta, davanti a tutti, stronzeggiò dicendo che se non la vedeva, lei non ci credeva, perché un ex detenuto non può possedere né pistola né porto d’armi: gliel’aveva spiegato un carabiniere amico di sua madre.
Ce l’ho a morte con Rosy. Ce l’ho a morte, perché le ho voluto bene come a una figlia. L’ho aiutata a studiare, quando doveva preparare l’esame di terza media, l’ho fatta dormire da me, al bar, quando Tanina, sua madre, la sbatteva fuori per farsi fottere in santa pace da qualcuno. Rosy aveva due possibilità: dormire in cantina, oppure nella Panda di sua madre, però senza accendere il motore. Al freddo. Tanina è peggio delle mignotte che battono. Lei è zoccola dentro, perché qualche soldo lo guadagna, fa l’infermiera, inserviente in una clinica privata.
Tanina è bella, madre e figlia lo sono. Tanina, che ha 31 anni e che Rosy l’ha avuta a 16 anni da padre ignoto, è fatta bene: tette sode, a pera, sedere ripieno al punto giusto, faccino coi capelli ricci. Rosy invece sembra una modella. Alta, gambe lunghe, perfette, occhi neri, stupendi. Stupendi ma bastardi: ti provocano. Poi però se ci provi il suo sguardo cambia, diventa cattivo, e tu non ci capisci nulla.
A me non fa effetto perché l’ho vista crescere. Mai attizzato da lei. Ma con Tanina, invece, una sera ci provai. Avevo una voglia matta di ficcarle le mani fra le cosce, ma non volevo scoparla e basta, avevo anche intenzioni serie; lei e Rosy potevano venire da me, nel mio appartamento di tre stanze più servizi. La portai a cena, andando in giro la presi sottobraccio e al cinema mi permise di giocherellare coi suoi capelli. Ma quando le chiesi se voleva venire a vivere da me, brusca, con lo sguardo schifato, disse di no. E io a insistere: vieni a vivere con me, venite da me, staremo bene. “Sei troppo vecchio” rispose. “Che dici, ho solo 9 anni più di te, forse 10”. “Ah sì, credevo avessi 60 anni”.
No, 60 no, però sembro vecchio. Sono grasso, calvo, poi ho un po’ di diabete, ma ancora non devo farmi l’insulina, così non mi curo, e mangio troppo, e poi ho i polmoni che di notte fischiano perché fumo 60 sigarette al giorno, certi giorni 70. Tanina comunque è stronza. Come sua figlia. Che il giorno dopo al bar, approfittando di un attimo di silenzio, per mettermi in imbarazzo di fronte a tutti disse: “Volevi scoparti mia madre ieri sera?”.
Non sapevo che Tanina in quei giorni sbavava dietro a un brigadiere dei carabinieri fresco di nozze. Lui l’aveva scopata, una botta e via, poi l’aveva mandata a stendere. Tanina è velenosa: non le era mai successo che la sua passera avesse subìto il trattamento usa e getta. Volle vendicarsi. E con Rosy andò sotto casa del carabiniere, a tagliargli i copertoni. Però, le videro, e il brigadiere, avvisato da qualcuno, arrivò giusto in tempo per pigliarle a calci e pugni. Rosy in lacrime corse da me: perché sua madre, zoccola e bastarda, era troppo nervosa e non la voleva intorno.
Poi Rosy è cresciuta, ha cominciato ad andare in discoteca, a farsi sbattere, prima da Vasco, poi, dopo averlo lasciato, da un avanzo di galera che spaccia roba pesante ma che gli capita un cazzo perché fa l’informatore della polizia, poi da gente coi soldi, uomini più vecchi, di 30, 40, 50 anni anche, perché Rosy, benché abbia solo 15 anni, è una donna fatta e finita. Dicono che quando fa l’amore urla, suda e trema tutta se gli è piaciuto abbastanza. Ora esce ancora con Vasco, e lui è geloso, perché sa di non essere alla sua altezza. Tante sere, quando vanno in discoteca, Vasco fa a botte con quelli che, dopo aver ballato con Rosy vorrebbero provarci. Per questo porta il coltello. Perché Rosy puttaneggia, facendosi palpare, provocando con gli occhi.
Vasco a 17 anni è già un delinquente. Ha iniziato nei supermercati: mani in tasca quando entrava, tasche piene di roba quando usciva; mai una telecamera che lo beccasse. Poi è andato a scuola dagli zingari, che gli hanno insegnato a rubare macchine e negli appartamenti. Ora spaccia: fumo e coca. Vive con la zia, perché i suoi sono morti in uno scontro stradale. Dentro la macchina, la polizia trovò resti di canne e lattine di birra vuote. La zia di Vasco si arrabatta facendo le pulizie. Lui non la sopporta, le urla dietro se lei, per caso, viene qua al bar.
Ma Vasco, soltanto due anni fa era ancora al confine. Nel senso che poteva salvarsi, perché aveva trovato lavoro, e poi era contento perché aveva Rosy. E lei, anche lei era al confine.
Due anni fa, quando andarono al bar Roma, il bar dei ricchi, Vasco e Rosy non erano incarogniti come lo sono oggi. Erano tamarri, e basta. In tele c’era Juve-Inter, il bar era pieno. Vasco e Rosy stavano in disparte, perché la gente e i camerieri li guardavano male. Ma ecco che l’Inter pareggia, gol, gol, la gente si alza, qualcuno s’incazza, qualcuno applaude, qualcuno si accorge che il Motorola poggiato sul tavolino non c’è più, e che Vasco e Rosy se la sono data a gambe. Hanno un telefonino nuovo. Ultima generazione. Che squilla. Chi è? E’ il derubato: “Per me puoi anche tenerlo, l’importante che tu mi renda la scheda, mi serve per lavoro. Fidati, se me la restituisci ti regalo un centone”. Vasco si fidò e accettò di fare lo scambio alle 10 in punto alla stazione. Non sapeva di aver rubato il telefonino proprio a un commissario di polizia. Un gran cornuto. Li arrestarono, li presero a ceffoni, e poi, va sapere perché, esagerarono. Il giorno dopo convocarono una conferenza stampa. Dissero che il fenomeno dei teppistelli di periferia stava assumendo proporzioni sempre più preoccupanti. E raccontarono del furto del telefonino. Vero, tutto vero. Dissero anche che nelle tasche di uno dei due fermati, il maschio, “un minore scafato come un esperto delinquente” scrisse un giornale, c’era un coltello a serramanico. Vero, purtroppo. Ma inventarono la storia delle tentata estorsione. Falso, tutto falso. Raccontarono ai giornalisti che i “due teppistelli” dopo il furto avevano telefonato al bar Roma e chiesto di poter parlare espressamente col derubato: “Se rivuoi la scheda, vediamoci alla stazione, e porta con te un centone”. Falso, tutto falso.
Vasco però perse il lavoro, licenziato in tronco dall’autofficina dove lavorava come apprendista. Buoni quelli. Vasco e un gommista erano addetti ai tagliandi delle macchine. Mentre l’altro controllava pressione gomme e convergenza, lui cambiava l’olio, quindi andava al computer, premeva i tasti che gli avevano insegnato di premere, così dalla stampante uscivano tutta una serie di controlli che non erano stati eseguiti ma che, l’affezionata clientela, fregata ma soddisfatta, avrebbe pagato profumatamente. Hai capito?
Comunque l’accusa di tentata estorsione cadde. La zia di Vasco, svenandosi, pagò un bravo avvocato, che esibì come unica prova i tabulati del telefono: dimostravano che al bar Roma, quella sera, non era arrivata nessuna chiamata, né dal Motorola rubato né da telefoni pubblici. Viceversa, alle 21 e 47, c’era stata una telefonata dal bar al cellulare rubato. Vasco mi aveva detto la verità.
Ora però non si confida più con me: è un duro, non sopporta sentirsi dire da qualcuno che farà una brutta fine. Non è cattivo: m’hanno riferito che c’è rimasto male quando ha saputo che la mamma di Andrea col tabaccaio ci va per davvero.
Vasco era come sono Luca e Fritz, oggi: se trovano una ragazza per bene, o un lavoro per bene, o qualche santo, magari non fanno una brutta fine. Io li chiamo tamarri, succede spesso che fra loro si chiamino così; sono tamarri, tamarri al confine: per ora non l’hanno oltrepassato, non so ancora per quanto. E poi sono preoccupato: saranno 20 giorni che non vedo più né Andrea né Luca e Fritz.
Poco tempo fa, i due fratelli l’hanno combinata bella. Una notte, sono entrati negli uffici dell’Asl di via Piave. Hanno rubato cazzatine: spiccioli, due ombrelli, 200 biro (che poi gli ho comprato io), e dei detersivi che hanno portato a casa, un regalo alla mamma, che manda avanti la casa facendo la sarta mentre il marito, muratore, dilapida tutto giocando ai videopoker e andando a puttane.
Però in via Piave, Luca e Fritz quella sera, nella scrivania dei veterinario provinciale, notarono anche un mazzo di chiavi. Erano della sua Uno bianca di servizio, con tanto di scritta Asl. Appena usciti, Luca e Fritz hanno individuato la macchina, ci sono saliti, e poi sono andati in giro per ore. Mi hanno raccontato di aver incrociato anche una pattuglia della Stradale, che non ha fatto caso a loro, per via della scritta Asl. Ma poi, invece di tenere la Uno, alle 4 del mattino l’hanno riportata in via Piave, tenendosi però le chiavi. Così la sera dopo, e la sera dopo ancora, per almeno dieci giorni, sono andati in giro fino a quando, una notte, rimasti a secco, hanno pensato bene di abbandonare la Uno e di buttare via le chiavi, impauriti dal fatto che, 100 metri avanti, c’era un comando dei carabinieri. Non sono delinquenti, sono ancora dei ragazzi Luca e Fritz. Quando vennero al bar una sera a far vedere la macchina, uno zingaro gli offrì 500 euro, ma loro niente: volevano continuare a giocarci. Certo che quel veterinario probabilmente si fa di coca: come cazzo ha fatto a non accorgersi che la macchina beveva il doppio della benzina, e che al mattino era posteggiata sempre in posti diversi?
Allora Andrea ce l’ha fatta, sbagliavo a preoccuparmi. Suo padre, due ore fa, è passato qua davanti, mi ha chiamato, invitandomi a uscire; io ero al mio quinto Campari prima di cena, lui era in bicicletta, trafelato e sorridente, sorrideva strano, mi ricordava suo figlio quando gli dicevano cazzo-nano. Aveva in mano un pacco con un vestito per Andrea “che se ne va, si è sistemato”. Gli ho chiesto “dove?” ma è scappato via “ho fretta, ti racconto, gli ho preso proprio un bel vestito”. E io che mi preoccupavo. E quando ho visto Luca e Fritz, mi sono stupito da quanto fossero seri. “Ehilà, da dove sbucate. Dài, venite qua che vi offro una birra. Sapete dove va Andrea? Ha vinto una borsa di studio?”.
S’è impiccato, mi hanno detto, perché sua madre è andata a vivere col tabaccaio, e lui non ha retto, le voleva troppo bene. Così ho pianto, forte, come la prima volta, di notte, in galera.
COSi’ E’ SE SI DICE
Pubblicato sul quindicinale La Tribuna.
L’io narrante di questa storia son’io, io con la minuscola, maschile o femminile unn’importa: io.
E’ piccino qui, ci si conosce, tutti sanno se uno vota comunista, se ha tanti soldi in banca, se avea lo zio coi vizi strani, tipo pecore o cavalle. Quel che si sa è importante: perché è quel che si sa che conta. Quel ch’è vero ma un si sa – uno vota fascita ma un lo dice, ha i debiti ma spende e spande, è tutto casa e lavoro e magari c’ha l’amante di Perugia – unn’importa. Qui sopravvivono, e bene, quelli che un fanno sape’. Quel che si sa è ‘na cicatrice. Brutta. Stampata in faccia. Evviva quelle stampate sul didietro: un si vedono manco spiando dal buco della serratura del bagno.
Scusate ora l’anonimato e il mio linguaggio: umile e maccheronico (si dice così?). E poi. In questa storia ci sono pur’io: potrei essere il prete o il maresciallo o il farmacista o il vicensidaco del paese o tutti e quattro insieme; o magari sono un vecchio analfabeta che sta dettando alla nipote, studentessa universitaria a Firenze. Chi vien da fuori non creda, se leggerà, di leggere cose tipo jack lo squartatore. Un ci sono morti. Macché.
Ma vado al sodo, ora. Ai tre protagonisti.
Sono: Loretta, la moglie del macellaio. Il macellaio. Eppoi Giuseppe, che, diciamolo subito, un’è né normale né anormale. Allora lui ora è sui quaranta, sembran cinquanta e più, ma quaranta sono. Vent’anni fa arrivarono in paese le prime orde di turisti: americani e tedeschi e nordici. Ora successe che americane, tedesche e nordiche, andando in giro pel paese coi loro vestitini avari di stoffa, poppe sballonzolanti e i culi semoventi, belle e abbronzate davano sollievo agli occhi, che s’aguzzavano, dei nostri vecchi seduti, all’ombra di case e taverne. Ma c’è da dì che davano anche scandalo: all’indignata popolazione femminile e pretesca. Po’ c’era lui, Giuseppe che – qui è bene ch’io vada avanti sennò me dimentico – di donne un ne aveva avute mai. Ma mai. E’ piccino, ciccio, goffo, strabico, balbetta e parla gnente. Di bono c’ha che si lava, un puzza e si veste con decoro. Pantalocacci di velluto e camicie colorate, Rosso o blu. Ama la tinta unita, Giuseppe.
Lui tanto ben didio femmineo un l’avea mai visto. Così capitò questo capitò: che un giorno, in mezzo a tutti, Giuseppe un ci vide più: e afferrò ‘na turististina più svestita del’altre, era seduta sulla scalinata della chiesa, il panorama che offrivan le su gambe aperte era ridente, d’ampio respiro direi, la stese, si calò calzoni e mutande tutt’uno e tirò fori l’arnese e mentre la gente urlava, mentre il vigile correva, mentre le amiche della ragazza lo pigliavan a calci come un cane, lui, comunque, ebbe il su’ piacere. Gli bastò l’aria (qui è bona, e si vede), tirarlo fori. Dissero poi che dovettero usare tre cenci per togliere quel lago, schifoso, di colata giuseppina.
Poi però si redense. L’anno dopo, in piscina (e i maldicenti tutti a dì: «Guarda Giuseppe, un tiene più») quando vide due francesine tuffarsi in topless si limitò prima ad applaudire e poi («Va a tirarsi un raspone» i soliti maldicenti) e poi, dicevo, stupendo tutti, andò a pigliare un gelato fragola e cioccolato. Vengo ora ai tre. Parto da Loretta. E’ piccina, ha quarant’anni ma ne mette trenta, ha du’ occhi vogliosi ma la voce del paese diceva che, inspiegabilmente, l’era fedele al marito, Alfredo, cinquantré ben portati ma cinquantatré sono. Alfredo e Loretta un ch’hanno figli. Ma hanno una macelleria che è il fiore all’occhiello del posto. Ci fai la coda ma la carne è bona, come si dice da noi (non mi scoprirete certo se dico è bona, ché lo si dice tutti in tutti i paesi del granducato di Lorena). La carne è bona perché son bestie dell’allevamento di Alfredo, che in campagna le alleva e le macella, le macella e le alleva, mentre Loretta, senza aiutanti – un po’ tiratelli di soldi lo sono – serve. Le voglion bene tutti: omini (ma sì, lascio, qua diciamo tutti così) e donne: ché è una dabbene, lei.
Ora succede, è successo questo. A Loretta un le piaceva di lavà il pavimento. Sicché (sicché: termine lorenico) di concerto (fine eh: di concerto: concertan tutti in Italia. E inciuciano) col su’ marito un sei sette mesi fa decise di piglia’ Giuseppe, che campa co’ la mamma ma un s’è mai capito come fanno a campà, a fa’ pulito. Alle otto, all’apertura, Giuseppe, dentro, ha belle finito. Così Loretta e Alfredo lo chiamano, «oh Giuseppeeeee», e tutti e tre van poi al bar Signoroni, lì di fronte. Vanno, si seggono, piglian cappuccini e bomboloni, e parlano. Macché parlano: Loretta parla e gli altri due, che volete uno è un po’ coglione l’altro capisce solo di vacche a maiali, ascoltano. E Loretta a Giuseppe ha cominciato a di’ ‘na cosa che – pensate male di me ma io ne son convinto – a lui gli ha eccitato l’arnese. Come la turistina. Lei ha cominciato a digli: «Io voglio bene a teee, a teee», col su marito che ridacchiava. Io voglio bene a teee un giorno e va bene, due e va bene, tre, cinque, dieci, sessanta, ma al centoduesimo, complice un’influenza di Alfredo che quel mattino restò a letto, Giuseppe, fece questo fece. Apri la serranda, e invece d’uscire per caffè e bombolone al Signoroni, quando Loretta arrivò, «Giuuseppe, si va?», l’afferrò, richiuse, e la… cavalcò. Ora, che sia successo di preciso un si sa, si sa certo che la Loretta strillò, e certo che strillò, ma i maldicenti dicon prima dal piacere e poi dalla paura (del marito), e poi si sa, da indiscrezioni maresciallesche, che ci fu penetrazione e che, insomma, Giuseppe, ora in attesa di processo, unn’è più vergine. A quaranta e passa se l’è presa a soddisfazione. Ma un si vede più in giro. Loro manco (traduzione: nemmeno). Manco a messa. Tutti e tre scomparsi. Il maniaco, la zoccola, il becco. Un se ne salva uno. Lui, Giuseppe, si dice, avrebbe traforato altre donne, zitte di vergogna e forse di piacere. Lei Loretta, si dice, di sicuro c’ha la coscienza sporca, perché una donna maritata non va senza mutande, anche questa indiscrezione è maresciallesca, Alfredo, invece, poraccio, si dice che oltreché becco c’avrebbe pure una brutta malattia alle parti basse. Vanno in negozio, ora, ma gli affari van male. Van bene al macello Rivaldini, anche se si dice che sia lui l’estensore (è giusto?, poi controllo sul vocabolario: estensore) di certe letteracce anonime contro Loretta, contro il maresciallo, contro il prete che avrebbe violato il segreto del sacramento. Anche questa lettera è anonima, signori compaesani (e turisti). Ci son dentro pur’io. Mi son citato. Scervellatevi. Che magari ho parlato male di me, per depistare (depistare: bello è?). O magari son Giuseppe, o l’amante del prete, chissà. Chiamatemi Pirandello, e se un sapete chi l’era informatevi. Vostro Pirandello.
TU ALLA CASSA 5, IO ALLA SEI
Pubblicato on line, su La Poesia e lo spirito.
Signore, signore, fa 22 e 75, signore… guardi che c’è la coda.
C’era la coda, c’era ressa, c’era che non trovavo la carta di credito; e così ti ho persa di vista. Io ero alla cassa numero 6, tu alla 5.
Lo so, ne sono certo: mi hai visto, ne son certo, ma poi hai abbassato la testa. Non dovevi.
La canzone di Venditti diceva
la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre…
Già: tu eri la più carina. Cretina no, non lo eri.
Bella, intelligente, inavvicinabile. Eri troppo per me. Per la mia timidezza. Mi bastava sognarti.
Quel sabato pomeriggio. Autunno o primavera, chissà. Sono bello, sono giovane. C’è il sole, è triste, sembra malato. Ma è sabato pomeriggio: non si pensa alla scuola, oggi.
Ti vedo, sei con loro. Sei con i Tre e io con i Tre non sono mai riuscito ad andare d’accordo. Addirittura con Uno ho pure fatto a botte. Cazzotti. Ha due anni più di me, ma credo che il match sia finito in parità. Mi spiace vederti con i Tre, mi spiace vederti soprattutto con lui, l’Uno.
Vi incrocio. Saluto distrattamente, Ciao, Ciao mi dite tutti, ma io guardo solo te, che rallenti, che, non ci posso credere, ti fermi. Ti fermi e dici (sorprendedo quei coglioni): Ti aggreghi? Facciamo in giro alla Upim e poi andiamo in cremeria.
No, grazie, rispondo, e proseguo, e, proseguendo, per poco non vado a sbattere contro un palo: non me lo sarei perdonato. Mi sarei suicidato fosse successo.
(Per un attimo vedo i tre che si piegano dalle risate e vedo anche te che ridi mentre io son per terra, e sanguino: lo volete capire o no che può essere una cosa grave, gravissima, anzi, morirò: o mentre mi trasportano in ospedale o quando mi dimettono. Perché so già, pensando a te che ridi, che per me non avrebbe più senso vivere.)
Mi è andata bene, però.
Sono ancora giovane e bello: come gli eroi solitari. Tex Willer o Che Guevara, non importa.
E faccio finta di niente, e continuo a camminare. Penso al palo (che figura di cacca avrei fatto), penso a te, a come sei vestita
bella, col fermaglio tra i capelli a forma di stella…
oppure no, meglio questa
quella tua maglietta fina, tanto stretta che…
penso che forse avrei fatto bene a venire, accettre il tuo invito. E penso anche a come sarà il mio sabato: a camminare, da solo.
Faccio quanti metri?, venti?, cinquanta?, cento? e poi mi giro. Oggesù. Non ti sei mossa, sei ancora lì che mi guardi, mi guardi e mi fai un cenno con la mano come a dire Vieni, Vieni, Vieni e mi sembra che il tuo viso sia serio e al tempo stesso sorridente.
Ti saluto da lontano, e, portando a spasso con me la tua immagine, sono contento: ti ho dimostrato che sono forte, che io
solo me ne vo per la città
Poi ti rividi, certo, in quegli anni. Tante volte. Poi crescendo ti persi di vista. Poi ti rividi e ti persi di vista, ti rividi e ti ripersi di vista. Finché un giorno, all’incirca un anno fa, ti incrocio. In un bar. Io prendo il caffè con un amico, tu sei sola, sei di fretta, sei fuggita via dopo uno ciao di rimando al mio.
Faccio in tempo a vedere.
Il viso deturpato da.
Hai una smorfia, che ti strazia il viso, i lineamenti.
Poi ti ho rivista al supermercato, pochi minuti fa.
Tu alla cassa 5, io alla 6.
Tu, cazzocazzocazzo, hai ANCHE un fazzoletto in testa.
Eri bella, intelligente, inavvicinabile.
Sei ancora bella, sei quella che quel sabato mi facesti sentire un eroe bello e solitario.
Vorrei abbracciarti, ora, vorrei dirti: Sai che sono innamorato ancora di te?
Volevo salutarti, chissenferga se la gente dietro di me, alla casa numero 6, sbuffava.
Ero io stavolta che volevo dirti Vieni, vieni, vieni…
LA GIACCA
Pubblicato su questo e sul vecchio blog.
(Un uomo elegante. Sui quarantacinque anni. Ha, appoggiata sull’avambraccio, una vecchia giacca).
Sono malati, potessero urlerebbero. Guarda che roba, possibile che nessuno si accorga che questi platani sono malati e debbono essere potati? Oddio, passando con la macchina nemmeno io me n’ero accorto.
Penso solo ai miei processi, quando al mattino faccio questo viale. Forse anche quando dormo penso ai processi, di sicuro ci penso quando mangio, ci penso quando parlo con gli altri, ecco forse Tatiana mi distrae un attimo, ma poco, comunque è giusto che sia così; è giusto che il mio chiodo fisso sia l’aula del tribunale: ci penso sempre e vinco sempre, sempre di più, più invecchio e più vinco. Anche oggi:
(guarda la giacca, sembra parlare a lei)
anche oggi il collegio giudicante ha stabilito che i miei due clienti non hanno provocato, nel modo più assoluto, la morte di due operai, assoluzione con formula piena, quella ragazzotta, cos’avrà? Li avrà trent’anni quel pubblico ministero brufolosa? L’ho stritolata. Ma stritolo tutti, io, già. Bella giornata, oggi. Bella, bella, bella. Doveva finire alla grande, con Tatiana, i miei cari colleghi hanno la bava alla bocca quando la vedono, la svestono col pensiero.
Bella giornata, già, bella, bella, bella.
Ma questi platani erano così anche quando venivo qui con Lula? Quand’è che ci venivo?, sei, sette anni fa? Dunque, sei anni fa ho divorziato per la seconda volta, mi pare che…
(gli squilla il cellulare in tasca, lo tira fuori, lo guarda un attimo, lo rimette in tasca lasciandolo squillare)
No Tatiana, stasera niente ristorante, mi spiace.
Tutta colpa sua.
(guarda la vecchia giacca, che sembra uno straccio, ma che l’uomo tiene con delicatezza)
Ricordati chi sei.
Chi sono io? Lo vorrei sapere. Chi diavolo so-no-i-ooo?
Uno importante. Dottore ho in linea il sottosegretario, dottore c’è il prefetto per lei, dottore il presidente del tribunale conferma: verrà con lei a cena, stasera, solito castello. Dottore la giornalista che lei conosce sta per arrivare. Dottore, la stanno aspettando, posso farli accomodare?…
Già, oggi, oggi è stato anche il giorno della delegazione. Profumati e sorridenti, sono arrivati all’ora del tè.
«Giorgio, siamo qui per farti una sorpresa, indovina un po’… la candidatura. Abbiamo pensato a te, sei la persona giusta».
Ma che carini. Dieci anni fa non mi volevate nemmeno come consigliere comunale e oggi belli belli vi presentate e, in offerta speciale, mi proponete di candidarmi alla Camera. Che onore, che piacere, che cazzo. Via via, siete feccia. Ho avuto un orgasmo multiplo quando li ho fatti correre.
«Scusate signori, ma ho un appuntamento urgente con una giornalista del Corsera, e poi scappo che questa sera sono ospite del Rotary di Ferrara»; magari non l’hanno bevuta come balla, so neanche se c’è il Rotary a Ferrara, io, ci sarà, ci sarà, figuriamoci, però hanno abbozzato, hanno abbozzato due volte: «Tatiana, sii gentile, accompagna i signori. La conoscete, vero, la mia assistente? L’ho sottratta a Putin, sta per laurearsi ma è già brava, credetemi, ha me come maestro».
Ohohoh, che sorrisini. Obbligarli e obbligare quelle vecchie befane delle loro mogli a stringere la mano a una che si chiama Tatiana è stato un affronto, ma hanno ingoiato, fatto fitta di niente. Mi temono.
Bella giornata.
…
Ricordati chi sei.
Si papà, mi ricordo chi sono, non l’ho mai nascosto a nessuno che sono un figlio di pastori, i più poveri di Alagna, però veniva gente da Vercelli e da Biella e da Novara a comprare le nostre tome, sì che lo so, io, quanto mi piaceva dirlo ai tempi del movimento studentesco, io sono il nipote di un anarchico mezzo matto che durante il fascismo prendeva ceffoni sul cranio perché non aveva la tessera, e sono il figlio di una donna…
Mamma, per pagarmi l’università ti sfinivi di notte e sfinivi i tuoi occhi miopi sferruzzando, facendo maglie per diecimilalire a una boutique che le rivendeva a duecento.
Sono cresciuto così, tra pecore, merda e l’Unità, che tu papà compravi la domenica perché non c’erano i soldi per un giornale tutti i giorni.
…
Ricordati chi sei… chi cazzo sono? Non-lo-so-non-lo-so. Non… lo… so… più.
Lo sapevo, certo che lo sapevo, quando arrivai a Milano; ero timido e scemo allora, no, e basta,
(squilla ancora il cellulare, lo lascia squillare, in tasca)
no Tatiana non vengo, mi spiace, non insistere, almeno tu non insistere, fa la brava. Che brutta che era Milano all’inizio. A Legge mi chiamavano il montanaro, e certo, avevo maglie, calze e sciarpe fatte con la lana dalla mamma, una lana calda, ma brutta secondo loro, in effetti mi vergognavo, specie con le donne.
Ero un montanaro, già. Avevo nostalgia degli alpeggi, dei bagni al Sesia. E tu vorresti fare il penalista? Tu? Mi sembra di risentirlo il Granvecchio quando mi prese come praticante. Il Granvecchio era grande davvero: non li sopportava i brillanti, così prese me. Gli devo tutto.
Ero spaesato e mi girava la testa quando entravo in aula con lui; lui, il grande avvocato, io, va sapere perché, il prescelto dei suoi praticanti.
Sì certo, quando venne il momento dei miei primi processi mi tremavano le gambe ma cristosanto sapevo chi ero, ero debole ma ero… ero vero.
Ricordati chi sei, fatti forza. Pregavo così, sempre, tutti i giorni.
Ma quando perdi la fede le dimentichi le preghiere.
…
Da quanti anni non vengo più a trovarti, papà? Sai che non ricordo nemmeno bene il colore della tua tomba? A volte penso sia bianca, a volte di granito scuro, come il cielo vicino al Monterosa, quando d’inverno il giorno diventa notte.
Papà ricordi quanto tornai a casa e ti dissi che c’era un procedimento contro di me all’ordine degli avvocati?
Non ti raccontai il perché, del resto tu non mi chiedesti nulla.
Fatti valere, mi dicesti mentre vangavi l’orto. Ti sputasti sulle mani per avere meno male ai calli, com’erano grandi le tue mani papà, e quanto sudavi sulla terra. Ti diedi ascolto e così mi presentai davanti all’ordine, loro erano i grandi avvocati, io il paesano che si era montato la testa solo perché avevo vinto un po’ di cause, anche dopo aver lasciato il Granvecchio. Mi feci valere. Spiegai che l’intercettazione telefonica che mi incastrava, in primo luogo non era ricattatoria, perché parlando si può dir di tutto, (se a tua moglie dici t’ammazzo mica diventi un possibile uxoricida), io a quel testimone avevo solo detto che doveva fare attenzione perché sapevo bene che aveva un conto segreto in Svizzera, e in secondo luogo, spiegai a quei coglioni dell’Ordine, che era tutta una macchinazione di un giovane magistrato comunista, e mentre parlavo, mentre dicevo bugie, «Credetemi, questo non è un attacco a me, è un attacco a tutti noi, a tutti voi», ricordo che pensavo e ripetevo «Ricordati chi sei, Ricordati che sei», ed ero calmo, fui calmo, convincente.
Facevo sempre così, papà, perché Milano mi faceva paura: quando ero in difficoltà, quando mi tremavano le gambe e la voce davanti a un professore, davanti a una ragazza, davanti a un posto di blocco dei carabinieri, io mi dicevo sempre «Ricordati chi sei».
Sentivo la tua voce, papà. Tu che mi dicevi: «Giorgio, ricordati chi sei… Tu sei figlio di queste mani, di questa terra, tu sei figlio del figlio di un uomo che sì è fatto ammazzare dai tedeschi ma la testa non l’ha mai abbassata, neanche tu, Giorgio, neanche tu la devi abbassare».
Papà se esiste Dio e tu mi vedi di sicuro ti stai vergognando di me, lo so.
…
Sai papà, oggi è morta Lula, figlia di Lula, la tua cagna da caccia, «Sarà una buona bestia, vedrai», mi dicesti quando la presi, e da Alagna la portai a Milano. Sai papà, erano giorni che Lula stava male ma io non avevo tempo di prendermi cura di lei. All’inizio ho pensato: telefono a Luca che si è iscritto a veterinaria, ti ricorderai di Luca, papà: il mio primo figlio, l’unico che hai visto; poi però mi sono detto: Niente casini, ci pensano loro, porto Lula in clinica, pago bene, la trattano bene.
Mi hanno telefonato stamattina alle otto, io ero appena salito in macchina, Lula era appena morta e io avevo il processo. Io dovevo avere la testa sgombra, pensare solo a vincere.
Così quando mi hanno detto che era morta, sai papà, devo dirti la verità, sai… ho… provato fastidio, lo stesso identico fastidio che… ma sì te lo dico, lo stesso identico fastidio che provai quando la mamma mi telefonò per dirmi che eri in fin di vita perché eri andato in un fosso con il trattore, che, ribaltandosi, ti aveva spappolato stomaco e fegato.
Chi ero, cazzo, chi ero?
E così oggi son mica andato in clinica. Salgo sul Mercedes, accendo Radio 24, passo a prendere Tatiana e via in tribunale, a raggiungere i miei assistenti. E’ stato solo nel primo pomeriggio, dopo aver visto quei coglioni che mi hanno chiesto di candidarmi, che ho pensato a Lula. Ho pensato che non l’avrei più rivista, come non vedo più te, come non ho visto la mamma, che cazzo di colpa ne ho se ha avuto un embolo mentre ero in Finlandia, del resto sono anni che non vedo i miei figli…
I miei figli, già, che non vedo mai.
Solo Lula mi era rimasta, solo lei. Appena sentiva la sveglia arrivava in camera da letto, saltava sul letto e mi leccava la faccia, Lula, diobono, dammi il tempo di svegliarmi…
Vedi papà io me l’ero dimenticato. Quando lasciai la mia prima moglie lei mi disse «Prenditi il tuo cagnaccio». Cavolo, era un cucciolo, ma mica potevo portarmelo al residence, e mica potevo sospettare che quella se ne sbarazzasse, affidandola a un canile. Papà, avresti dovuto vederla Lula quando andai a prenderla. Era pazza di felicità, papà. Pensa papà, te la ricordi, vero?
(guarda la giacca)
questa giacca, papà? Bene, ce l’avevo addosso quando andai a raccattare Lula. E sai che fece lei? La addentò dalla gioia o forse per paura che io non la portassi via, coi denti mi tirava ed era come se mi dicesse «Non lasciarmi qui, portami via con te», e io papà lasciai che la mordesse, questa giacca.
…
Sai papà, avevo un collega che si ammalò gravemente, ora è morto. Mi diceva: «Pensa Giorgio che non ricordo quand’è l’ultima volta che ho fatto l’amore».
E io, io quand’è che ho smesso di dire, Ricordati che sei?
Sì, lo dissi quella volta, quella volta davanti all’Ordine fui perfetto. Fui forte. Ma erano parole vuote, false. Come i padroni della fabbrica di rubinetti; durante la settimana inquinavano i nostri ruscelli, la domenica erano in prima fila in chiesa.
Non sapevo più chi ero quel giorno, davanti a quel tribunale composto dai miei colleghi.
Ma da allora (e per me quello fu un segno del destino, la svolta) da allora io non ho più avuto nessun tremore, né alla voce né alle gambe. Un giorno, papà, io non ho avuto più paura di niente; son diventato un altro, un adulto, sono diventato grande, pensavo.
Chi sono io papà? Chi sono?
Sono quello che ha lasciato che Lula morisse in una clinica di lusso, sono uno che ha tutto, sono veramente un grande uomo.
…
Stasera, non ci crederai papà, ho preparato degli spaghetti al burro, era una vita che non mi facevo da mangiare da solo, spaghetti, un bicchiere di Gattinara che avevo in cantina, una mela, e poi ho cominciato a cercare le vecchie fotografie. Ne volevo una di Lula, così da farne un poster, ma volevo trovare anche una foto della nostra cascina, io in mezzo alle pecore, quando ero piccolo, oppure della Comunione. Mi ricordo anche di una foto, siamo io te e la mamma sulla lambretta 125. Niente, ho cercato dappertutto in tutti i cassetti, niente, niente, niente. Allora ho provato in cantina, e nemmeno in cantina c’erano, no. Però in cantina, dentro un baule ho trovato la giacca che mi regalasti quando mi laureai, la giacca
(prende la giacca e l’avvicina al viso, respirandola)
la giacca con i segni dei denti di Lula.
«Ti sta bene», mi dicesti appogiandomela sulle spalle.
(si allontana dal viale, poi si volta)
Quanti anni saranno che non venivo più a fare un giro in questo viale di platani?
GUARDANDOLE FINESTRE ILLUMINATE
(Racconti di un attimo)
Pubblicata da Habanera e sul mio vecchio blog
Mi guarda. Ha una faccia buona. Serena. Un uomo buono.
Gli chiedo un caffè e un bicchiere di acqua minerale frizzante. Gradisce una fettina di limone? mi fa. Ne sono certo: è l’uomo ideale per Sara.
L’uomo che si sveglia al mattino, le sorride, magari le prepara il caffè. L’uomo che sa dire cose dolci, regalare un fiore.
L’uomo che non sono io.
Non lo sa, lui, chi sono io. Non ho la minima intenzione di presentarmi. Non voglio che Sara sappia: sappia che ho fatto 400 chilometri solo per vedere la faccia di lui. Dell’uomo che fa l’amore con quella ragazza che, proprio il giorno dell’esame di maturità, felice e con un vestitino a fiori, venne con me al fiume: la prima volta, per tutti e due, sotto un sole cocente.
Un giorno che non dimenticherò mai, sai Sara? (ma io questa cosa non te l’ho mai detta).
Ho impiegato due anni a prendere questa decisione. Ora eccomi qua, nel suo bar. Nella loro città.
Ma il problema non è la sua o la mia faccia. Il problema è la casa, le case. Sono affascinanti la sera. Dall’autostrada, o da altre strade, statali o secondarie, vedo e mi piace, sfrecciando, vedere le finestre illuminate. Intravedere dietro le tende. Immaginare. Mi si stringe il cuore. Ripenso a me, con mamma e papà, da piccolo. Ripenso a Sara. Al calore di una casa.
La salutavo, un bacino sulla porta, poi con le mie stecche da biliardo percorrevo chilometri e chilometri, quasi ogni sera, per gare, allenamenti, incontri.
O solo per assistere ad altre gare. L’importante era respirarlo, il biliardo. E quando uscivo di casa, dopo averla salutata, dopo pochi chilometri ecco che vedevo le prime luci, i primi lampadari, o il bagliore di una televisione. Pensavo, sapevo, che avrei fatto bene a tornare, tornare da Sara, da lei. Che mi aveva salutato dicendomi, Vai non ti preoccupare per me.
Le rivedo oggi quelle luci e provo nostalgia per le mie due case: quella con mamma e papà, quella con Sara. E mi fanno, anche, uno strano effetto: mi fanno, solo per un attimo, odiare il biliardo, che mi ha rovinato la vita. O forse me l’ha resa più bella, non so. Perché di notte io, sempre, oggi come quando dormivo accanto a Sara, sognavo il tavolo, quel colore verde che per me è il più bello di tutti, e il rumore, dolce e secco, della stecca sulla palla che rotola e va, spinta dal pensiero, mentre il cuore, per un piccolo attimo, corre, ma solo un po’: corresse troppo non sarei un campione. Il problema è che quelle luci della case viste dalle autostrade a un certo punto si spegnevano. Si spengono.
Mario, che schifo d’uomo che sei
Quindi Mario… ricapitoliamo.
Quando avevamo saputo che sua moglie Marisa, non paga di cornificarlo, alle amiche dell’aperitivo, bar affollatissimo del centro, ore 19, minuto più minuto meno, e quindi non avevano sentito solo le amiche, aveva raccontato, con dovizie di particolari, delle, come dire, ma sì, basta guardarlo in faccia a Mario, aveva raccontato, dicevo, delle prestazioni barbine del di lei consorte tra le lenzuola, sputtanandolo senza pietà, beh noi, è successo un mese fa mi pare, noi prima che lui arrivasse, trafelato e in ritardo e sudato come sempre, ci facemmo delle grasse risate sul nostro collega, su Mario insomma.
C’era da immaginarselo, comunque, che fosse mal funzionante.
Per la carità: sul lavoro è bravo, puntiglioso e coscienzioso, sempre a testa bassa sulle pratiche oppure naso a due centimetri dal computer, vede un cavolo Mario.
Ma come avrà fatta Marisa a sposarlo?, ci siam sempre chiesti, è grosso e rumoroso: mentre lavora parla da solo, bofonchia, e noi a dirgli «Spegni la radio», ma mica capisce lui, poi è uno di quelli che quando beve, acqua, caffè o succo di frutta che sia, beve da vecchio, facendo rumore con sigla finale, aaahhhh, e poi, se deve aprire un cassetto Mario, sposta tutta la scrivania, per non parlare di quando risponde al telefono, lui non risponde, urla Buongiorno scandendo bene e con quattro “o” finali, così che tutti sentano, per esempio quelli dell’ufficio dirimpetto a noi, sull’altro lato della strada, ma cristo.
E’ rumoroso e puzza, nel senso che le sue puzze sono spaventose.
Quando va in bagno noi tutti, e qualcuno di noi tutti dice «oh nooo», guardiamo l’orologio e prendiamo nota: così da regolarci, perché per un’ora tratteniamo escrementi solidi e liquidi, ché nella camera a gas non ci vuole entrare nessuno, ma cosa mangia cipolle e fagioli tutti i giorni?, ma la Marisa, la Marisa come fa?, hanno un bagno solo, e metti che a lui scappi una puzza tra le lenzuola, che fa la Marisa?, subito la doccia per mandare via il tanfo?
Ma perché non divorzia?
Per non parlare dei suoi starnuti: sono esplosioni seguite dal soffio del naso che sembra un permacchione, su un fazzoletto che sembra un tovagliolo, o magari lo è.
E poi non guarda mai in faccia nessuno, sempre lì a testa bassa, ma cosa fa si guarda l’apparato riproduttore e gli pone quesiti a cui quello, poveraccio, non sa rispondere?
Ah, non vi ho detto il peggio.
Si dice che si scaccoli.
Così – qui vi faccio ridere, lo so – in ufficio quando ci si saluta per le ferie e ci si abbraccia o ci si sitringe la mano, metti un compleanno, le ferie, metti gli auguri pasquali o natalizi, dovreste vedere le fughe quando lui, a testa bassa, tende la mano che nessuno gli stringe mai.
Ciao Mario, stammi bene.
(E comunque, che lui si scaccoli è cosa nota a tutti, forze dell’ordine comprese. Ci siamo sganasciati dal ridere quando, quand’è succcesso?, l’anno scorso mi pare, arrivò un maresciallo da noi in ufficio, andò da Mario per una pratica e poi, quando si salutarono, a Mario che gli tendeva la mano quello, per evitare il contatto, aveva risposto con il saluto militare, mettendosi sull’attenti. Appena quello è uscito, ci siam piegati in due sotto le scrivanie dal ridere, non c’erano clienti, quindi, e lui mica aveva capito, guardandoci da dietro quelle sue lenti da talpone).
Ma come ha fatto Marisa? E’ carina, sapete?
Stamattina Gianna, che è la nuova assunta, quando ha sentito dire da me, sì da me, da me, che il puzzone, come al solito è sempre in ritardo, tanto siamo fessi noi, nessuno che faccia mai la spia col direttore, e la pratiche di Mario, noi che siamo scemi, se sono urgenti ce le dividiamo, beh ecco, Gianna mi ha interrotto, mi ha guardato e mi ha detto, ma hanno sentito tutti, si prendeva il caffè, non era arrivato Mario ma nemmeno il direttore, mi ha detto Gianna che sua sorella infermiera lo vede tutte le mattine, sudato e trafelato, e ti pareva, che va su e giù in ospedale, perché accompagna, e son due anni, sua madre a far la chemio, ma non è tutto, accompagna, e son tre mesi, anche il padre, pure lui a fare la chemio, perché, ci ha detto Gianna, Mario ha raccontato, sempre a sua sorella infermiera, che, purtroppo i suoi di fratelli, ne ha due Mario, più piccoli, hanno altre cose da fare, Poverini.
Ha detto poverini, Mario, chissà con quante iiiii ha detto poverini, che co-glio-neeee che sei, Mario.
Si sta grattando la testa, ora Mario, ma sì dai un po’ di forfora in questo ufficio mica inquina.
Ha sbadigliato, mamma mia che bocca larga che ha, sembra una rana.
Sta camminando vicino alla mia scrivania, ora Mario, col suo passo pesante, in fondo ha tanti pesi, Mario: la ciccia, ma perché non si mette a dieta, le corna, quelle sì che pesano, i pensieri, già i pensieri.
Ha acceso il computer, ora Mario.
bello se l’ anima si sporca. l ‘ integrità, la forza d’animo, la consapevolezza del proprio valore – io leggo questo – e sono temi che mi sono molto vicini e molto cari.
scrivi argomenti intessanti…..tornero’ volenieri a leggerti.Purtroppo io invece mi sono ingessato su un guaio che mi perseguita da 14 anni…anche se dovremmo essere alla fine spero…ciao…..Tato
google:diario di un esattore
Uh, belli. E’ da un pò che volevo conoscerti, e leggerti. Comincio da qui. Ciao Remo.
li leggerò tutti anche io
ciao
Belli. Non li conoscevo tutti. Non li ho letti tutti. Ma un po’ sì. Tornerò :-)
quanto sono legata a quel tuo racconto Tamarri :) ti ho conosciuto proprio grazie “lui”. Grazie per averli messi tutti qui.