“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: La donna di Picche, La suora, la voglia di scrivere che è andata via (puntata 11, l’ultima)

Ultima puntata.

Allora, dopo aver pubblicato un po’ di libri nel 2014 staccai da giornalismo e narrativa. Candidato sindaco, poi consigliere comunale, poi assessore. Nel 2016, però, sbatto la porta e saluto.

In quegli anni avevo letto poco e scritto niente o quasi.

No, qualcosa riscrivevo: un giallo. Gli ultimi amori di un poliziotto per bene.
Però avevo perso i pochi ma importanti contatti che avevo. Ed ero sprofondato nella moltitudine degli scrittori di serie D e C.
E comunque, di quel giallo ambientato a Torino, avevo fatto invii vari. E avevo ricevuto o dinieghi o risposte da case editrici che non mi convincevano.. Nell’arco di una settimana (autunno 2016) si fa viva la mia agente (ora ex: preferisco fare da solo) che mi dice: «Guarda che Fanucci è interessato a pubblicarti.»
Non mi sembrava vero. Fanucci è un ottimo editore. Ben distribuito, paga anche degli anticipi (piccoli anticipi li avevo ricevuti anche da Perdisa). Fanucci vuol dire risalire, vuol dire serie C o anche B (ho visto una graduatoria che lo inserisce tra i primi trenta editori italiani).
Succede questo, però.
Rileggo il libro e non, rileggendolo, vedo che non mi convince. In dieci giorni lo riscrivo e lo rimando a Fanucci, precisando: «Prendete in considerazione questa versione.»
Poi arrivano due giorni folli. La mia agente mi chiama, sconsolata: «Sembra che non siano più interessati», poi, nell’arco di poche ore, mi richiama: «No, ti pubblicano».
Li avevo convinti inviando in extremis la versione riveduta e corretta?
Comunque, vado a Roma, firmo il contratto, conosco la mia editor (bravissima, da lei ho imparato tanto: Rita Feleppa) e scambio due parole con Sergio Fanucci. Che mi dà alcune dritte e mi propone di cambiare titolo: La notte del Santo.
Per me ci sta. È la prima volte che il titolo non lo decido io. Ma mi sembra un buon titolo, pertinente.
Quando sono davanti a Sergio Fanucci vedo il manoscritto: era la seconda versione. Quella inviata in extremis. Avevo fatto bene a riscriverlo in dieci giorni, insomma.
Il libro esce a le vendite vanno anche abbastanza bene. Al punto che, l’anno successivo, Fanucci mi scrive e mi chiede se sto scrivendo qualcosa. La mia risposta è affermativa. Stavolta ho il titolo in mente, e nessuno deve cambiarlo: La donna di picche.
Fanucci è un editore, diciamo, estroso.
Successe questo. Gli invia La donna di picche, versione uno, poi però mi venne in mente di apportare modifiche profonde, partendo dalla frase finale del libro.

Sono la donna di picche, quella che non dimentichi.

Notti e notti insonni per riscrivere il finale, anzi no, i due finali…
Invio così la seconda versione a Fanucci che non la prende bene, e mi dà una rispostaccia. Ma il lavoro definitivo non doveva essere il manoscritto che mi hai già inviato? Non si fa così.
Quando però legge la seconda versione (quella definitiva) però mi scrive una mail da incorniciare. Il libro gli è piaciuto, tanto.

Che La donna di picche sia un buon libro lo penso anche io. Spiego perché. Ne ho scritti quattordici, i tre che rileggerei (non rileggo mai i miei libri), sono Bastardo posto, La donna di picche e La suora, uscito da pochi mesi per Golem.

Il personaggio che invece preferisco è Anna Antichi, protagonista de La donna che parlava con i morti e Vegan. Le città di Dio.

Il libro ottiene alcune ottimi recensioni, lo presento al salone, insomma faccio le solite cose che si fanno quando esce un libro. Per esempio si rompono le scatole al prossimo su facebook. Forse faccio di più, stavolta….
Con La donna di picche, per la presentazione nella mia città, a Vercelli, mando delle mail di invito: mai fatto.
Credevo e credo ancora in quel libro. Che però ha venduto poco. Ci sta, anche se mi spiace, ovvio.
Era sbagliato il titolo, la copertina, cosa? Non lo so.

Intanto (siamo nel 2020) stavo rivedendo un libro scritto in passato: Forse non morirò di giovedì. Un libro che parla di giornalismo, un libro in cui, lo confesso, credevo poco.
E invece lo ha pubblicato Golem, mi sembra che sia andato bene e per la prima volta è anche successo che io abbia vinto un premio. Primo ex equo al Premio internazionale città di Cattolica.
Quando sono salgo sul palco del teatro di Cattolica, settembre dell’anno scorso, il presentatore dice: «Cosa si può dire di un libro che vince su duemila altri libri? Chapeau».
Io dico: «Ho scritto quattordici libri, è la prima volta che ricevo un premio, non credo che accadrà più. E come dice il proverbio… il primo premio non si scorda mai».

Intanto stavo scrivendo La suora, che ho proposto a Golem e che inizia così: Le ossessioni non sono mai belle, eccetto Nora.

Scriverò ancora, non scriverò più? Non lo so.
Anni fa questa domanda non me la sarei posta.
Anni fa non mi sarei mai chiesto “Cosa scrivo?” e “Per Chi scrivo?”, perché, anni fa, avrei scritto a basta.
Anni fa, ogni tanto, mi chiedevo: Sei uno scrittore?
Me lo chiedo ancora. Non mi interessa cosa significhi per gli altri, definirsi scrittore.
Per me significa vivere scrivendo, vivere, insomma, ma aspettando che vengano la notte il silenzio e le parole.
Questa attesa, adesso, mi manca.
Che dipenda dal fatto che non fumo più sigari e pipa ma son passato alla sigaretta elettronica? Scherzi a parte, spero che questo diario sia servito a qualcuno. È un diario che parla e quindi promuove un po’ anche i miei libri: ma vendere qualche copia in più non mi cambia certo la vita…

Un saluto a tutti coloro che passeranno di qui.

Link delle puntate precedenti.
1) Un “quasi scrittore” di serie D: LEGGI QUI
2) “Quasi diario: scrivere per fuggire lontano: LEGGI QUI
3) “Quasi diario”: scrivere sorprendendosi. Il mio primo libro: LEGGI QUI
4): “Quasi diario”: la magia della scrittura e il mio terzo libro: LEGGI QUI
5) “Quasi diario”: Parentesi sui manoscritti da inviare: LEGGI QUI
6) “Quasi diario”: Il terzo libro e un grave errore: LEGGI QUI
7) “Quasi diario” e la potenza di radio e tv: LEGGI QUI
8) “Quasi diario”. Libro annunciato poi bloccato, insomma un pugno allo stomaco che fa ancora male. LEGGI QUI
9) “Quasi diario”: il sogno infranto e la lunga pausa. LEGGI QUI
10) Quasi diario: Leggere e scrivere, sporcandosi la mani LEGGI QUI

“Quasi diario”: leggere (si ma come?) e scrivere: sporcandosi le mani (puntata 10)

C’è modo e modo di leggere. Chi vuole scrivere, io penso, deve leggere con altri occhi.

Meglio… meglio una pagina letta e riletta che un libro al giorno, mi vien da dire. Non è sbagliato. Non ci sono regole, ci sono strade, e ognuno deve cercare la sua, perché io, per esempio, in alcuni periodi della mia vita ho letto anche un libro al giorno. La coscienza di Zeno, per esempio. In una domenica. Dovevo leggerlo per un esame universitario, cosa che dimenticai leggendolo.

Discorso diverso per Calvino. Che a me non piace (come non mi piace King, e qui tutti a dirmi: Ma come, non ti piace King? No, ne ho detti sei o sette, ora basta. Preferisco rileggere Chandler). .Calvino dicevo. Tra gli italiani preferisco Fenoglio, Pavese, Pratolini, Berto, Bassani. Ma la scrittura di Calvino m’insegna. È un sapiente “dosatore” di aggettivi e avverbi, ma non solo. La sua scrittura è come l’acqua di un ruscello: chiara. E la chiarezza non è un dono così diffuso, per esempio tra tanti giallisti contemporanei. Quando una frase ti costringe a una seconda lettura c’è qualcosa che non va.
Ma sto divagando.

Dicevo che c’è modo e modo di leggere.
Ecco, se io leggo solo per il gusto di leggere leggo anche molto. Mi piace. Ma io, dal momento che scrivo, leggo soprattutto per imparare.
E adesso racconto qualcosa di autobiografico.

Ho 22 anni, lavoro in fabbrica. Scelta ideologica, figlia degli anni settanta, ottanta. Ho rinunciato all’università: fabbrica e sindacalismo mi lasciano poco tempo libero. E poi non sto bene. Un volta ogni due mesi ho una crisi epilettica (ora non più: nessuna crisi dal 1991, ma non dimentico…).
Sono anni difficili, per me. Grigi. Da ragazzo avevo due sogni nel cassetto: insegnare lettere, scrivere un libro (uno solo).
La fabbrica e la salute me lo stanno impedendo.
Un giorno, dopo una violenta crisi, mi metto a scrivere. È l’unica cosa che non ho distrutto, perché negli anni a venire scriverò e distruggerò, scriverò e distruggerò, scriverò e distruggerò…. Fino al primo libro, di cui ho detto nella prima o seconda puntata.
Allora, inizia a scrivere. Avevo in mente una storia ambientata in fabbrica. Insomma, conoscevo bene l’argomento (scrivi di ciò che sai, ciò che conosci, primo comandamento) e poi… poi avevo letto un fottio di libri. Tanti e tanti e tanti ancora. Romanzi, poesie, saggi (per esempio Freud, scoperto a vent’anni).

Ma c’è un ma. Avevo letto come legge un lettore, e non come dovrebbe leggere chi vuole scrivere. Insomma, alla mia scrittura mancava qualcosa. Di importante. Chi vuole scrivere non deve scopiazzare. Sarebbe umiliante, poi non serve. Delle scritture altrui – ora cerco un’espressione poetica, forzata – si deve sfiorare l’anima, impossessarsene è impossibile. Pittori e musicisti osservano, studiano altri poeti e musicisti, che utilizzano tecniche diverse.

Ecco, dicevo prima di aggettivi e avverbi. A me piace la scrittura asciutta. Pochissimi avverbi, solo quelli indispensabili, pochi aggettivi, poche anche le similitudini. Prediligo il ritmo, l’essenza. Ma apprezzo altre scritture, diverse. Con aggettivi sapientemente dosati così da rendere una pagina, un passo, una descrizione con più poesia.
Le strade della scrittura son tante, in genere tutte in salita.

Io ho fatto due scelte. Una scrittura secca, per quanto riguarda la forma, una scrittura figlia del mio “sporcarmi le mani con la vita”., per quanto attiene ai contenuti. Insomma, i miel libri sono figli della vita, non ci sono contaminazioni (e se ci sono sono involontarie) di serie tv o ispirate dalla rete. In Vegan, le città di Dio ci sono capitoli ambientati nella città francese di Narbonne. Ne parlo perché ci sono stato.

Tra i quattordici libri pubblicati ce n’è uno brutto per copertina, impaginazione, anche editing. Si intitola Tamarri. Sono racconti tratti dal mio blog (pari pari, quindi scritti di getto, senza editing). Ecco, quel libro è figlio di un anno e più di frequentazioni serali in una bettolaccia di periferia, tra ragazzi tra i quattordici e i vent’anni. Alcuni erano nomadi alcuni erano figli di gente… marchiata. Fumavano canne, non avevano sogni. Qualcuno ogni tanto, per non dire spesso, finiva dentro. Ma se si stringevano la mano quella stretta significava qualcosa.
Un giorno vedo questa scena. Vedo un ragazzo piangere. Dice ai suoi amici. La mia macchina è andata a puttane… come faccio, mi serve per andare a lavorare? Uno dei presenti gli fa: Ti do, la mia, te la regalo. Dammi qualche giorno di tempo. Volevo darla dentro per prenderne un’altra usata, ma mi danno poco, preferisco regalarla a te.
Uno di quei ragazzi, una sera mi disse: Se mi arrestano, mi metti in prima pagina?
Un altro mi chiese: Senti, io un libro non l’ho mai letto: Cosa mi consigli?…non seppi consigliargli nessun libro: era tropo grande per I ragazzi della via Pal o per Salgari, troppo lontano da Moccia. Gli regalai dei fumetti.
Qualcuno di quei ragazzi non ha fatto una bella fine, di tanti non ho saputo più nulla. Ma un paio di loro li rivedo, ogni tanto…
Io in quella bettolaccia non c’ero finito per scrivere un libro: c’ero finito per caso… come per caso ho conosciuto prostitute, facendo il portiere di notte. Una di loro, ha ispirato un personaggio (Aldina) di Dicono di Clelia. I bar di periferia, comunque, sono i miei preferiti. Da sempre. E il corso di scrittura che ho tenuto e che non dimenticherò fu il primo: nel carcere di Vercelli. Insegnai e imparai, anche.

Infine. A volte penso che dovrei scrivere un libro sui miei anni in fabbrica. Si incontra un mondo. Ma sono ricordi troppo sbiaditi, vissi quegli anni in modo disattento. Non deve scrivere quello che vede, no, sarebbe giornalismo quello. Uno scrittore deve prestare attenzione a tutto, a cominciare dai piccoli particolari. Dai colori. Altrimenti la pagina è scadente, grigia.

Volevo chiudere con la storia delle ultime mie quattro pubblicazioni. Ma stamattina ho pensato a questo, messo giù alla “bruttodio”. Posto senza rileggere, ho fretta. Alla prossima.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: il sogno infranto, e la lunga pausa (puntata 9)

Allora, per non annoiare il prossimo.
Sunto veloce della puntate precedenti. Dopo aver pubblicato libri, Dicono di Clelia (Mursia, 2006) e Lo scommettitore (Fernandel 2006), la Newton Compton mi contatta e mi chiede un nuovo libro, che esce nel 2007: La donna che parlava con i morti (ora ristampata da Il vento antico).

2008, con la Newton Compton dovrebbe uscre (c’è tutto: contratto, editing, copertina) anche Bastardo posto, che considero il mio libro più bello (insieme ad altri due, di cui parlerò domani, nell’ultima puntata), ma proprio il giorno in cui libro deve andare in stampa mi avvisano che è tutto bloccato, causa le poche prenotazioni (circa 850). Rompo con la Newton e Bastardo Posto esce con Perdisa Pop nel 2011.

Fine del riassunto.

Quel che accade dal 2010 al 2015 è cosa di poco interesse, soprattutto per chi scrive.

Dopo la morte di Luigi Bernardi, pubblico ancora con Perdisa Pop un libro dedicato al mio paese, Cortona, (titolo: Vicolo del precipizio) e sempre in quegli anni pubblico altri romanzi e racconti con piccoli editori che mi conoscono (Historica, SenzaPatria che non c’è più).
Nel 2016 con la (bella) casa editrice Tlon pubblico un giallo, secondo libro con Anna Antichi protagonista.
Un giallo in cui parlo di medicina alternativa, di buona alimentazione, che è come una medicina. Credo sia un buon giallo, commetto però un errore, grave. Anzi, commettiamo due errori gravi: io sbagliando il titolo (Vegan, Le città di Dio: il Vegan è di troppo, sarebbe stato meglio Le città di Dio) e l’editore sbaglia la copertina e la quarta: la copertina, solo gialla, fa pensare a un saggio, e sulla quarta c’è scritto che il libro si richiama a The China study. In realtà – sia chiaro, sotto forma di giallo – i miei protagonisti parlano di quanto sia importante vivere lontani dallo stress e con un’alimentazione sana. Vegana? Anche, ma non solo. Se il latte fosse quello di una volta (senza ormoni e senza antibiotici) sarebbe un ottimo alimento, stessa cosa per la carne: il montone con cui si cibavano i pellerosse ha poco da spartire con le carni rosse che compriamo al supermercato e fanno male. Ma ripeto, è un giallo. Anche se il cattivo ha un nome e un cognome: è una piccola big pharma di provincia (con diramazioni francesi).
(Sotto, copio e incollo l’incipt del libro).

Sono anni, quelli che vanno dal 2011 al 2014, in cui perdo diversi contatti con l’editoria. Per due motivi.
Il primo: con Bastardo posto non ero riuscito – e ci speravo – a diventare uno scrittore di seria A o B. Cosa significava, per me, diventare uno scrittore di A o B. Significava vivere di scrittura, anche con poco. So vivere con poco, io.

Nel libro Lo scommettitore, che è la storia adi uno 007 politico pentito, racconto che il mio protagonista ricomincia una nuova esistenza in una nuova città e con pochi soldi in tasca. È un’esperienza che ho vissuto quando restai senza lavoro, disoccupato per due anni, dopo la fabbrica. Studiavo lettere e facevo di tutto, per vivere. Pulizie cantine, per esempio. Ecco, quando il protagonista de Lo scommettitore va al supermercato fa quello che facevo io in quegli anni. Acquistavo, calcolando. Ho 5mila lire, allora compro delle ali di pollo perché costano poco, fa 900 lire, mi restano 4100 lire, procediamo.
Fumavo esportazioni senza filtro, in quegli anni. A volte mi succedeva di entrare in un bar con l’intenzione di bere un caffè per poi uscire: avevo dimenticato che in tasca non avevo un soldo.

E comunque, torno alla mia biografia di scrittore.
Secondo motivo che mi fa allentare i rapporti con editori, editor, scrittori. Nel 2014 lascio la direzione del giornale La Sesia per candidarmi a sindaco di due liste, una di sinistra e una civica. Prendiamo il 7 per cento. Divento prima consigliere comunale e poi assessore all’ambiente. Per due anni scrivo poco e niente e leggo anche poco. Ma nel 2015 sbatto la porta, e mi dimetto, e, nauseato, lascio la politica. E torno a scrivere. Libri e su un giornale on line (Infovercelli24).

Dal 2015 a oggi ho pubblicato altri quattro libri, di cui parlerò nell’ultima puntata di questo “Quasi diario”, e grazie a due piccole case editrici pubblico anhe la ristampa di altri due libri, di cui ho già detto.

Prima di chiudere, ancora due cose.
In questi anni a volte ho letto manoscritti di scritttori esordienti. Causa problemi di tempo (lavoro, impegni vari a cominciare da mio figlio Cico, nato nel 2010) non ho mai detto di no a nessuno. Chiedo un primo capitolo, una sinossi, poi mi confronto con l’autore. Non solo. Per anni, su un blog che ho su Il Fatto quotidiano, ho pubblicato estratti di inediti (incipit, un secondo estratto, una ipotesi di quarta di copertina, una breve biografia). Bene, alcuni di queste proposte editoriali sono poi state pubblicate da piccoli ma seri editori.

Perché leggo estratti di inediti? Perché per i miei inzi fu importante la scrittrice ed editor Alessandra Buschi (una scoperta di Tondelli). Non mi conosceva, eppure lesse uno dei miei primi libri, Dicono di Clelia, dandomi dritte preziose e non solo: lei stessa lo propose a qualche editore.

Ho fatto mia questa sua generosità.

Come spero di aver imparato “cose” da Luigi Bernardi. Quello che mi ha insegnato, insieme a quel che appresi negli anni 2003 e 2004 dal blog di Giulio Mozzi (la rete serve), insieme alle puntate radiofoniche (si trovano in rete: sono preziosissime per migliorare la propria scrittura) che ho trascritto e imparate quasi a memorie di Dentro la sera (conversazioni sullo scrivere di Giuseppe Pontiggia) ho tenuto anche dei corsi di scrittura. Sempre gratis.

La gratuità, già. La insegna nei suoi libri don Luisito Bianchi, prete e scrittore di assoluto valore. (La messa dell’uomo disarmato, il suo libro più importante. Ne parlerò). In vita sua, Luisito face il prete rifiutando lo stipendio del sostentamento del clero perché, diceva, Gesù Cristo non è morto in croce in cambio di una paga, e nemmeno i giovani partigiani che andarono a combattere e morire lo fecero per denaro…
Sono contento di averlo conosciuto e di essere stato suo amico. Era del 1927, è morto da qualche anno. Ho scritto diverse volte su di lui e, quando posso, parlo di lui e dei suoi libri.

Insegnare è uno scambio, per me.
E un libro, sempre per me, è un incontro.
Alla prossima.

Da Vegan. Le città di Dio.
Incipit.

Un giorno mio padre mi disse che la voce di dio si sente solo quando la notte è fonda: è l’acqua del fiume che scorre.

La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente.
Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, crocefisso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.
E comunque. Non è da Luca uscire a quest’ora, senza un biglietto. Per essere uscito è uscito: mancano i jeans e le scarpe nere di cuoio, che alterna con quelle da ginnastica. Ha preso l’ombrello verde; diluvia, adesso. Prima pioggia di settembre.
Non sa che fare Andreina. Da tre, quattro mesi, Luca non è più Luca. Si è messo a rincorrere il fantasma del padre, che fino a qualche mese prima era un ricordo da due soldi.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: libro annunciato, poi bloccato, insomma un pugno che fa ancora male / 8

Quando pensavo di essere approdato alla serie A o almeno alla serie B degli scrittori arrivò lo schiaffo, che fece male allora e un po’ fa male ancora adesso.

Ricapitoliamo. È il 2008. Ho pubblicato quattro libri:
Il quaderno delle voci rubate (ristampato col titolo Il bar delle voci rubate da I buoni cugini, Palermo). Dicono di Clelia (Mursia). Lo scommettitore (Fernandel). La donna che parlava con i morti, Newton Compton (ristampato da Il vento antico).

Nel 2008 penso di fare il botto, ma non per quello che avevo pubblicato, tant’è che facevo fatica a definirmi scrittore.
Nel 2008 scrissi il libro che considero il mio mio libro, Bastardo posto.
Bastardo posto doveva uscire ancora con la Newton Compton. C’era tutto: contratto, libro scritto, editing (ottimo editing di Antonella Pappalardo), copertina (bella copertina).

Bene, una mattina di non ricordo quale giorno né quale mese il libro doveva andare in stampa. Doveva essere un bel giorno, da ricordare. Vado a lavorare e mi passano una telefonata. Di una persona che al telefono mi aveva sempre… diciamo detto cose non belle. No, non ce l’aveva con me. Ce l’aveva col mondo. E io mi ero messo in testa che portasse sfortuna. Infatti.
Mentre sono al telefono vedo che arriva una mail della Newton Compton.
Penso. Il libro va in stampa.
No, la stampa era stata bloccata.
Abbiamo troppe poche prenotazioni, mi scrivono.
Quante?, domande. Ottocento e qualcosa…
E quindi?, domando.
Lo facciamo uscire in momenti migliori, mi risposero.

Un mese dopo ci fu il salone del libro. Ci andai col magone. Avrei dovuto presentare il libro, avevo data, spazio, presentatrice (Laura Costantini).
Passano mesi, passa un anno, passano due anni e alla fine, dopo varie mail senza risposta, mi metto d’accordo con la Newton: mi restituiscono il tutto, contratto annullato. Mi restituiscono anche i diritti de La donna che parlava con i morti.

Ancora adesso faccio fatica a crederci.
La Newton aveva annunciato l’uscita di Bastardo posto addirittura nel catalogo pubblicato in italiano e in inglese, in occasione dei suoi primo quarant’anni.

Ma torniamo a quel periodo: mi era crollato il mondo addosso. Facevo il giornalista, anzi no, dirigevo il giornale più importante di Vercelli. Che andava alla grande. Nel 2008 i miei editori mi diedero un premio perché avevo stabilito il recordi di vendite…. ma per me era più importante la scrittura, era più importante Bastardo posto.

La faccio breve.
Nel 2009 propongo Bastardo posto ad alcuni editori. Ho una certezza: che il libro può piacere. Dico a me stesso: al primo che mi dà una risposta positiva dico sì, va bene.
Il primo che mi rispose, leggendolo in un paio di giorni, fu Luigi Bernardi, allora direttore della piccola (ma bella) casa editrice Perdisa. Lui era direttore della collana Perdisa Pop.
Mi rispose affermativamente anche un altro editore, diciamo medio, comunque più grande e importante di Perdisa, ma io ormai avevo detto di sì a Bernardi e quindi Bernardi fu, o meglio Perdisa fu.
Luigi Bernardi è il direttore editoriale che tutti vorrebbero avere.
Mi telefonava al mattino presto, magari alle sette, dimenticandosi che io avevo gli orari sballati e che solitamente mi addormentano alle 4, anche alle 5.
Ciao come va, Remo?

Insomma, persi il treno della Newton ma trovai la persona che più di tutti ha mi lasciato un segno.
Nei ringraziamenti del giallo edito da Fanucci La notte del santo scrissi: Questo libro è dedicato al compianto Luigi Bernardi, scrittore e tante altre cose. Gli debbo molto. Mi mancano le sue telefonate e le sue mail.
In una sua mail mi aveva scritto: cercati un bravo editore, se ci riesci… è un bastardo posto l’editoria.

E comunque. Il ricordo di Bastardo posto è un ricordo che brucia, Ancora.
Spero che prima o poi venga ristampato, dal momento che Perdisa non è più attivo.

Ecco l’incipit del libro (e sotto anche il booktrailer).

Sotto i portici, di notte passate le tre, il manichino nudo e senza sesso del negozio d’abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda.
È una notte di marzo. Sta diluviando.
In questo momento Paolo Limara, fissando la vetrina col manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi. Non l’ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo. Fissando le palpebre di plastica, socchiuse e spente del mani- chino, è successo che Limara ha visto i suoi, di occhi, persi come due monete nel tombino, bersagliato dalla pioggia e che, proprio adesso, è stato scosso violentemente da un’auto in corsa.
Non vuole guardare, Limara, né il tombino traballante né la strada riflessa sul vetro. Preferisce star lì impalato, davanti al manichino senza sesso del negozio, che è chiuso da quattro anni, con l’insegna spenta.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: il quarto libro e la potenza di radio e tv (settima puntata)

Estate del 2006. E’ uscito Lo scommettitore, che a luglio è diventato anche Il libro del mese della trasmissione Fahrenheit, di Radio Rai 3. Sono in Spagna (a Valencia), ospite di amici. Ho dietro il computer. Mi serve per aggiornare questo blog, mi serve per scrivere: ho in mente una storia, che però non decolla.
Il computer si rompe. Ne ho un altro, ma senza connessione. Così la notte, quando gli altri dormono, scrivo; per il blog e la posta elettronica faccio così: appena sveglio, mezz’ora a piedi da dove sono io c’è un bar con alcuni pc: mi collego e scrivo cose varie sul blog, il tempo di un paio di caffè e un paio di sigarette (Gitanes senza filtro).

In un post scrivo che ho in mente di scrivere, anzi no che sono alla prese con la stesura del mio quarto libro, che non ho ancora in mente il titolo, ma che parlerà di una donna che parla con i morti, che ho conosciuto.
A settembre ricevo una telefonata dalla Newton Compton. Sono interessati, mi dicono, al mio nuovo romanzo. Insomma, a differenza del passato, non sono io a proporre un manoscritto a una casa editrice ma è il contrario.
Probabilmente, la Newton Compton vide delle potenzialità nel libro, inoltre sapevano che ero stato “Libro del mese” di Fahreneheit.
Vado così a Roma, a firmare un contratto al buio. Conosco così Raffaello Avanzini, AD della casa editrice. È giovane, di poche parole.
Mi fa una domanda: Cos’è importante per un libro?
Non rispondo, attendo che sia lui a spiegare, a dire.
Mi dice: Tre cose. Uno, la distribuzione. Due, il titolo. Tre, la copertina.
Chiaro: autore e scrittore, per lui, vengono dopo. Affinché un libro venda credo che avesse ragione. Discorso, lungo, comunque.

Torno a casa e da novembre a febbraio scrivo il libro. Allora ero direttore del giornale La Sesia. Andavo a lavorare alle 11 del mattino e restavo in redazione fino alle 22, anche le 23 o 24 se serviva. Scrivevo quindi di notte: da mezzanotte alle cinque, Verso le tre, per evitare di addormentarmi, mangiucchiavo qualcosa. Risultato: in quei mesi ingrassai di quasi 10 chili (che non ho perso).

Il libro all’inizio mi faceva tribolare. Scrivevo e distruggevo. Poi mi compare, come in un sogno, Anna Antichi. È una commessa di libreria, innamorata di un poliziotto vedovo che scompare. È divorata dai sensi di colpa, Anna Antichi: suo padre, Leone l’anarchico, è morto mentre lei stava festeggiando un esame universitario. Non avrebbe dovuto, pensa. Perché sapeva che suo padre soffriva di cuore. La donna che parla con i morti sta sullo sfondo.

In libro è andato bene (4000 copie prima tiratura e 1500 la seconda) e non è andato bene. Un pessimo editing (un anno dopo, sempre con la Newton, mi trovai invece benissimo con Antonella Pappalardo, bravissima e competente editor… una delle migliori incontrate sulla mia strada).
Fu anche recensito, e bene. Per esempio da Famiglia Cristiana, da Repubblica Torino… Addirittura il giornale Liberazione mi dedicò mezza pagina…. che non ho incorniciato: sbagliarono foto. Misero quella di Marino Magliani (candidato allo Strega) al posto della mia. Succede.
Ma è meglio la nuova edizione de Il Vento Antico. Con Lilli Luini editor abbiamo rivisto errori del vecchio libro, anche miei.
Insomma, la radio (Fahrenheit) mi aveva fatto approdare a una casa editrice medio grande. Anche il blog, in parte.

Che la radio e la televisione siano di estrema importanza lo capii anche nell’estate di due anni dopo.

Marino Magliani (allora ci sentivamo spesso, ora ci siam persi di vista) mi invita a una rassegna, a Porto San Maurizio, Imperia. Invita me e altri due scrittori, più quotati di me. C’è da scegliere la data. Due presentazioni a fine luglio, una ad agosto. I due scrittori (più quotati) scelgono fine luglio. A me resta dunque la data d’agosto.

Ma succede questo: che quel giorno d’agosto, mentre sto per partire da Vercelli, squilla il telefono. E’ la Rai, sede ligure di Genova. Evidentemente quel giorno non era successo nulla e quindi mi intervistano su libro e presentazione. Non solo. La sera, quando arrivo a Porto San Maurizio c’è anche una telecamera Rai, per una breve intervista.
Non ricordo il nome del posto, al chiuso, ma c’era il pienone. E il libraio vendette più di trenta copie del libro. Mi pare trentacinque.
C’erano dei vercellesi in ferie da quelle parti. Alcuni vennero. Che io scrivessi libri lo appresero quel giorno, dalla radio.
Insomma, radio e televisione, soprattutto se potenti, aiutano, e non poco.

Infine, altra considerazione. La mia ambizione è scrivere, mi basta un editore piccolo, ma serio. Mi basta e mi bastava. Mentre stavo scrivendo La donna che parla con i morti, un’agenzia letteraria (sulla base dei primi capitoli) mi disse: Perché non proponiamo il libro a un editore più grande? A me Newton Compton bastava e avanzava. E poi volevo essere corretto fino in fondo. Se stavo scrivendo il libro lo dovevo ad Avanzini.
Sbagliai. Nell’editoria ognuno pensa a sé.

La donna che parlava con i morti è un giallo. Il titolo lo scelse Avanzini. Ne parlai con la compianta Tecla Dozio, della Libreria del giallo (Tecla e la Libreria, conoscenze che avevo fatto grazie alla scrittrice Elisabetta Bucciarelli). Mi disse che era un buon titolo, giusto; sebbene la donna che parla con i morti è un personaggio secondario, la vicenda ruota attorno a lei. Al centro di tutto ci sono lei e una moneta, simbolo del senso di colpa… che è il vero colpevole dell’omicidio di cui parla il libro. Ecco l’incipit (edizioni de Il vento Antico).

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano – ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne – che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.
E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.
La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: il terzo libro, e un grave errore (sesta puntata)

Dopo anni di invii di manoscritti e collezione di rifiuti nel 2006 escono due miei libri.
Dicono di Clelia (casa editrice Mursia), di cui ho raccontato, e Lo scommettitore (Fernandel).
Dicono di Clelia passò quasi inosservato o quasi, Lo scommettitore no, tutt’altro. Sembrava fosse il trampolino di lancio per farmi diventare uno scrittore di serie B o addirittura di A.

Lo scommettitore è un giallo politico. Inizia così.

L’origine di tutto si perdeva lontano.
Scommetto che da qui alla scuola riesco a correre senza respirare. Scommetto che se la mamma me le dà col battipanni io non piango. Scommetto che se il maestro mi guarda cattivo io non abbasso gli occhi. Scommetto che se me lo tocco, poi, quando mi piace tanto tanto, riesco a fermarmi.
Scommetto che nessuno ci riesce a fare questo.
Scommetto che se ho sete resisto senza bere. Scommetto che se ho mal di pancia non lo dico a nessuno.
Scommetto che gli altri non sono così bravi…

Lo inviai nell’estate del 2005 a Fernandel, che lo fece uscire a giugno 2006.
Il libro fu recensito da alcuni giornali e blogger, forse per l’argomento che trattava – politica, corruzioni e spioni che lavorano per i politici. Diciamo che il mio personaggio è uno spione pentito.
Non solo.
Nel mese di luglio vengo intervistato dai Radio Rai Tre, trasmissione Fahrenheit.

Ecco l’intervista. CLICCA QUI.

Per chi non lo sapesse, ancora oggi Fahrenheit intervista uno scrittore al giorno e poi i radioascoltatori votano il libro del mese.
Bene, fui votato io. Il premio consisteva in questo: in tutte le librerie Feltrinelli ad agosto 2006 (agosto, mese non felice, ma tant’è) venne esposto un poster: Lo Scommetitore di Remo Bassini, libro del mese Fahrenheit.
Non finì lì. A fine anno, altra votazione per il libro dell’anno Fahreneheit.
Fui rivotato (vedi foto sotto, con l’elenco dei trenta finalisti. Vincerà Saviano).
I finalisti erano convocati a Roma, per la trasmissione finale e la votazione finale (gennaio 2007). Io feci una cosa. Non andai. Dissi a me stesso: Basta che mi citino. Perché non andai? Mettete insieme pigrizia e timidezza e otterrete la risposta. Giustamente non fui citato. Sarebbe stato un buon trampolino di lancio, credo. O almeno: così mi disse gente che di editoria sapeva più di me.

Intanto era successo qualcosa (che forse a me bastava): mi aveva contattato la casa editrice Newton Compton, ma questo lo racconto domani. Anticipo solo una cosa: alla Newton Compton non inviai nessuno manoscritto. Furono loro a cercarmi.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: parentesi sui manoscritti da inviare agli editori / 5

Allora, i miei libri, come sono arrivato alla pubblicazione, eccetera. Sono arrivato al 2006, anno in cui uscì Dicono di Clelia, Mursia, che considero il mio primo libro e di cui ho scritto nel precedente post.

Breve parentesi, ora, sull’invio dei manoscritti.

È vero. Tante case editrici non li leggono. Tante li sfogliano. Alcune, anche grandi, come scrisse Luigi Bernardi, li fanno leggere a giovani inesperti, pagati poco.

Ma non è vero che non serva inviarli, che le case editrici pubblicano solo i raccomandati.
Qua è bene distinguere tra raccomandazione e segnalazione.
Io, diverse volte ho fatto delle segnalazioni (meglio dire facevo, ora ho pochi contatti con l’editoria).
Un editore, specialmente se piccolo, ha poco tempo per leggere tutti i manoscritti che arrivano.
Io ho pubblicato quattordici libri.
Il primo non fa testo, lo pubblicò il giornale in cui lavoravo.
Ma Dicono di Clelia, Lo scommettitore…. per arrivare a Forse non morirò di giovedì, pubblicato da Golem due anni fa, sono diventati libri semplicemente perché io ho inviato dei manoscritti. Posta elettronica e, raramente, cartaceo (odio fare la coda, dovunque).
Su quattordici libri, uno è stato pubblicato grazie a un’agente letteraria (ora non ne ho, preferisco fare da solo). Alcuni, mi sono stati richiesti (racconterò poi quali e perché).

Un consiglio.
Alcune case editrici i manoscritti tendono a perderli o ad archiviarli, altre invece perdono (nel senso che cambiano) direttori editoriali o editor: per questi due motivi non è sbagliato inviare lo stesso manoscritto, magari a debita distanza di tempo, anche due, o tre volte alla stessa casa editrice. Magari cambiandogli titolo.

Poi, secondo consiglio: guai a deprimersi se arriva un rifiuto.
Breve racconto. Prima di conoscere Luigi Bernardi propongo un mio libro, Vicolo del precipizio, ad alcuni editori.
Bene, due case editrici (uno grande e uno piccola ma quotata) mi risposero picche, con queste due motivazioni.
Primo editore: il libro ha diverse pecche, ma il suo punto di forza è il finale.
Editore numero due: il libro ha potenzialità., ma va rivisto. Il finale per esempio non va.
Il finale è il punto di forza del libro, il finale è il punto debole del libro: parere – da rispettare, certo – di due editor… ma comunque un parere. Chi giudica ha parametri suoi, come un lettore, come uno di noi. Non è infallibile.

Vado avanti. E se qualche scrittore o esperto vi dovesse dire che non dovete fare più invii dello stesso manoscritto a una stessa casa editrice, raccontategli quest’altra storiella.

Allora, anni fa sottopongo all’attenzione di un editore “quotato” alcuni manoscritti scritti da altri. Un manoscritto fu pubblicato, un altro ci andò vicino… un terzo fece questa fine. Sembrava dovesse essere pubblicato, ma quando cambiò il direttore editoriale di questa casa editrice il manoscritto sparì. Niente, non si trovava più e poi non fregava un piffero a nessuno, perché l’unico che aveva i contatti con lo scrittore che io avevo segnalato e che aveva anche letto e approvato il manoscritto era uccel di bosco. Per lo scrittore che sperava e pensava di essere pubblicato fu una botta non da poco. Ho deciso che scrivere non fa per me, mi scrisse.
Qualcosa di analogo accadde anche a me, ma fui un po’ più fortunato. Invia un manoscritto e, dopo un paio di mesi, ricevetti la risposta da un editor della casa editrice. “Il suo libro mi interessa, l’ho letto. Ho già letto altro di suo…”. Pensai: è fatta, ma pa quell’editor nono si fece più vivo. Tre quattro mesi dopo gli scrivo io: “Che ne è del mio libro?”. Risposta: “Mi spiace ma… mi hanno licenziato”.
Rispedii il manoscritto. Senza dire che era già stato letto e approvato. Non credo che sarebbe servito.

Infine.
Ci son tanti libri che sono pubblicati e che interrompo presto, anche di autori noti. Se sei un autore noto e attento ai particolari, ma mi fai stare nascosto un uomo di settant’anni e più in un ripostiglio e non ti poni il problema che questo avrà sete, sarà stanco e dovrà fare pipì non ti leggo. Non sei credibile. Altro esempio. Se scrivi che il tuo protagonista va a trovare un suo amico insegnante che sta correggendo i compiti dei suoi alunni, ed è il mese di agosto, qualche domanda me la faccio.
Viceversa, ho letto diversi libri di esordienti di tutte le età che invece mi hanno colpito positivamente. E che, a mio avviso, avrebbero meritato la pubblicazione. Anni fa, sul blog che ho su Il Fatto (dove ora scrivo prevalentemente recensioni) pubblicavo degli estratti di libri mai pubblicati. Un incipit, una sinossi, un secondo estratto del libro, due righe sull’autore. Avrò pubblicato un centinaio di proposte editoriali, bene: cinque, sei o forse sette sono state lette da editori, in genere piccolo ma dignitosi, che poi hanno contattato l’autore e lo hanno pubblicato.
Insomma, mai scoraggiarsi. Insistere, sempre. Non sempre sempre. Luigi Bernardi, prima di morire – e Luigi era un grande scrittore – in una mail mi scrisse: “Cercati un editore, io non ci sono riuscito. L’editoria è un bastardo posto.”
Alcuni libri di Luigi sono stati ripubblicati, ma solo dopo la sua morte.
Cercando in rete si trovano cose che ho scritto (in questo blog oppure in quello de Il Fatto) su di lui.

Lo cito spesso. Scrittore e direttore editoriale di Perdisa Pop, il migliore editore che ho avuto. Ne ho avuti di più grandi, di serie B insomma o forse di serie A, come Newton Compton e Fanucci, ma un editore che crede in te è cosa rara.

Infine, domanda importante a cui bisogna saper rispondere: a quale casa editrice spedire?

Si manda a quelle grandi, in primo luogo. Mondadori eccetera. Poi a quelle medie poi a quelle piccole che abbiano un minimo di distribuzione. Solo quella online va bene? Sarebbe meglio che il libro fosse presente anche in libreria, ma in mancanza d’altro va bene anche la sola distribuzione attraverso determinati canali, Amazon in primis.
E come si fa a sapere se una casa editrice ha un minimo di distribuzione in libreria? Si chiede a un libraio. Magari a un piccolo libraio, di quelli attenti. Oppure si cerca su internet. Cadere nelle grinfie di editori che non ti distribuiscono purtroppo è facile ma va evitato.

Meglio non pubblicare, meglio aspettare. Quanto? Anche anni.
Dal 2006 io pubblico in media un libro ogni due anni. Ma all’inizio ho aspettato. Tanto. Tanti anni, diciamo una decina.
Cosa si fa nell’attesa? Si legge e si scrive. Pubblicare è un obiettivo, ma scrivere è tutto o quasi tutto.

Ho un ultimo racconto da fare. Una cosa già scritta ma che mi piace riscrivere.
Anni fa invio un manoscritto a un editore. Io scrivo e faccio soprattutto di notte (adesso per esempio sono le 4 e 37 minuti, ma domattina posso dormire fino alle 9, anche 9 e 30). Torno a quella notte. Spedisco e poi vado a dormire. Al mattino, appena controllo la posta elettronica, saranno state le 9, vedo che quell’editore mi ha già risposto. Non può averlo letto, magari mi risponde che è interessato, penso, aprendo la mail. Niente affatto. La risposta era questa: “Non mi interessa”. Punto.
Ci restai male, pensai “Vaffanculo, c’è modo e modo di rispondere”.
Mi andò bene, comunque. Quel manoscritto venne poi pubblicato da Fanucci con il titolo La notte del santo.
L’editoria può darti tanto o poco o niente, c’entrano diversi fattori. Chi sa tessere buoni rapporti sul ruffianesco andante avrà qualche carta in più da giocare, gli insistenti in genere raccolgono di più, i timidi come me, invece, partono male e raccolgono meno. Amen.
Ricapitolando. Inviate manoscritti (presentabili e con sinossi), con insistenza. Se avete la fortuna di avere qualche sponsor approfittatene. Ma deve essere uno sponsor sincero. A cui il vostro scritto è piaciuto davvero. Inviare un manoscritto sponsorizzato da qualche persona influente (e che magari non l’ha letto) serve a niente. Un libro che vale poco resterà comunque un libro che vale poco.
E comunque.
Scrivere è come pregare, scrivere è come fuggire, scrivere è.
Ciò che importa – lo dico con convinzione – è scrivere.
Anni fa, in un’intervista dichiarai: “Scrivere per me è come respirare”.
Dal 2021, però, ho praticamente smesso. Dopo La suora mi sono bloccato. Ma questo è un altro discorso.

Puntate precedenti:
1) Un “quasi scrittore” di serie D: LEGGI QUI
2) “Quasi diario: scrivere per fuggire lontano: LEGGI QUI
3) “Quasi diario”: scrivere sorprendendosi. Il mio primo libro: LEGGI QUI
4): “Quasi diario”: la magia della scrittura e il mio terzo libro: LEGGI QUI

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: la magia della scrittura e il mio secondo libro / 4

La scrittura ti permette di fare cose magiche.
Nel libro Dicono di Clelia per esempio ho fatto questo. Allora, Clelia è una prostituta. Come quelle che ho incrociato facendo il portiere di notte, dopo aver lasciato la fabbrica (nel 1983).
Ecco, io a Clelia ho dato l’anima di una mia compagna di università, malata di leucemia. Era grave. Ho un ricordo preciso del giorno in cui la vidi per la prima volta. Ricordo che pensai: “Cazzo ha, questa, da sorridere sempre?” Lottava, a modo suo.
«Questa estate posso andare in Olanda?» aveva domandato questa mia compagna al suo medico.
E lui: «Tu questa estate devi sperare di essere ancora viva…»
Non era una frase dura. C’era un buon rapporto tra loro.
Comunque ci andò in Olanda (e mi portò in dono un aquilone). E oggi sta bene. E per me è un gran bel ricordo
La scrittura dicevo. Ci consente di prendere un brandello di vita vissuta – magari da altri – e di cucirgli sopra qualcosa di pregiato, di trasformare, insomma, un cucito in ricamo.

Facevo il giornalista, allora. Era il 2003.
Un giorno ricevo una telefonata che solo nei giornali locali si può ricevere.
Un tizio, dalla voce antipatica, la voce di un ufficiale che dà ordini, mi racconta una cosa. Questa.
Tutte le domeniche pomeriggio lui va a messa, Stessa chiesa. Con altre dieci, venti persone. E una suiora che aiuta il parroco a riordinare.
Da alcune settimane sta succedendo qualcosa di strano, durante la funzione religiosa. Al primo banco c’è sempre un uomo che nessuno conosce e che prega intensamente, inginocchiato. Ha con sé un mazzo di rose bianche. Terminata la messa, le lascia lì.
Il tipo che mi sta telefonando mi dice che l’ultima volta lui e gli altri fedeli, incuriositi, hanno fatto delle ricerche. Hanno visto che l’uomo misterioso arriva con una vecchia Fiat 500 nera targata Milano. Non solo. Hanno chiesto alla suora che aiuta il parroco di guardare bene il mazzo di rose bianche l’uomo lascia, una volta finita la messa. «C’era un biglietto, domenica scorsa» mi racconta il tipo. Nel biglietto c’era scritto: “Ti ho aspettata, ma anche oggi non sei venuta.”
Solo nei piccoli, insignificanti giornali di provincia arrivano storie come queste.
E comunque, la telefonata finì in questo modo. Il tipo con la voce da ufficiale mi disse: «Approfondisca, cerchi di scoprire cose c’è sotto.»
E io. «Nel modo più assoluto, non lo farò.»
L’altro alzò la voce. Io pure.
No, non fui tentato di andare a vedere l’uomo che arrivava con una 500 nera e con un mazzo di rose bianche.
Una domenica andai a Orta, Da solo. Al sacro monte. In un bloc notes iniziai a scrivere Dicono di Clelia.
C’erano, tra i protagonisti, una prostituta che aveva la voce e la mente della mia compagna di università, c’era l’uomo misterioso.
Dicono di Clelia è un romanzo corale. Più protagonisti che ruotano attorno a Clelia. Con una morale, anche: che siamo collegati a tante persone, come birilli. E se il caso fa cadere dei birilli noi rischaimo di cadere, facendoci male.
(La morale del libro uno la scopre quando il libro è finito).

Scrissi il libro in tre, quattro mesi. Era il 2003, avevo iniziato a seguire internet, alcuni blog.
I siti delle case editrici. Lessi che Mursia chiedeva il primo capitolo e una sinossi. Nel caso di interesse ti avrebbero ricontattato.
Spedii, come da indicazioni.
Ma successe anche questo. Avevo letto due libri di una scrittrice, Alessandra Buschi. Riuscii a contattarla. Scambiammo della mail su vari argomenti (lei era stata scoperta da Tondelli e quindi parlammo di Tondelli. Ad Alessandra dissi che avevo scritto un libro. Si offrì di leggerlo. Le piacque, non solo: lo propose a qualche editore… Mi resterà sempre nel cuore Alessandra Buschi. Le sue parole di incoraggiamento a scrivere significarono tanto.
Ma vado avanti.
Settembre 2003, sono al giornale. La segretaria mi dice che c’è una casa editrice che vuole parlarmi. Penso: Vorranno proporre qualche libro. No. La telefonata arrivava da Mursia. Mi dissero di inviare tutto il libro. Mesi dopo mi richiamano ancora. E mi dicono: «Il suo libro è in seconda lettura.» Nel 2004, era inverno, vado a Milano e firmo il mio primo contratto.
«Quando esce?» domando (sapevo un tubo, allora, di contratti).
«O in primavera, oppure a inizio 2005» mi dicono.
Il libro uscirà solo nel 2006.
Dalla firma del contratto alla pubblicazione, insomma, passarono due anni e più. In quel lasso di tempo io, che non sono invadente, scrissi tre, forse quattro mail per sapere se e quando il libro sarebbe uscito.
Non mi risposero mai. Dopo che il libro fu uscito, fui invitato a partecipare a una cena, insieme ad altri autori che avevano pubblicato con Mursia. Non ci andai.

Per due, tre anni arrivarono un po’ di resoconti sulle vendite: pochi spiccioli, poche copie vendute. Non ricordo quante. Il libro si trova ancora in vendita, su Amazon o IBS. Ma sul sito Mursia non ci siamo, né io né Dicono di Clelia.
Che è un libro che ricordo poco, oggi. Non lo rileggo, so che ci sono refusi. So di aver scritto libri migliori, come Bastardo posto, come La suora.

… In questo momento, però, proprio mentre sto scrivendo (sono le 4 e 21 di notte, venerdì primo aprile, adesso vado a dormire ché alle 7 deve svegliarmi) mi sono ricordato che in Dicono di Clelia c’è una quasi storia d’amore tra un maresciallo dei carabinieri e la moglie di un prefetto. E c’è un bell’incontro, tra loro, nella splendida abbazia di San Nazzaro Sesia, che è in provincia di Novara ma è anche a due passi anche da dove vivo io…

Intanto (nel 2005) aveva scritto Lo scommettitore, il libro che, per una stagione, mi avvicinerà alla serie B dell’editoria.

Precedenti puntate:
1) Un “quasi scrittore” di serie D: LEGGI QUI
2) “Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere per fuggire lontano: LEGGI QUI
3) “Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere sorprendendosi. Il mio primo libro: LEGGI QUI




“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere sorprendendosi (il mio primo libro) /3

Si intitola “Il bar delle voci rubate” il primo libro scritto e pubblicato e, due anni fa, ripubblicato con il titolo “Il bar delle voci rubate”.
C’è una cosa importante che voglio dire su questo libro. Una cosa che racconto sempre durante le mie lezioni di scrittura.

Allora, avevo 39 anni e il sogno di scrive un libro l’avevo ormai accantonato.
Per tre ragioni. La meno importante. Non sapevo a chi rivolgermi, cosa fare. Era il 1995, non c’era internet. Per spedire un manoscritto ci si doveva informare. Poi telefonare agli editori. Posso spedire un manoscritto? Le risposte non incentivavano.
Seconda ragione. Ci tenevo, certo che ci tenevo, a scrivere un libro. Era uno dei sogni della mia vita. Ma un sogno l’avevo già realizzato: laurearmi in lettere viaggiando e lavorando – prima in fabbrica, poi come portiere di notte, poi giornalista – era stato, appunto, un grande sogno inseguito con rabbia e tenacia. Imparando a dormire 4 ore a notte. Rinunciando a cinema, passeggiate, tv. Per anni. Mi fermo.

Ma c’è una terza ragione che aveva bloccato la mia scrittura. Tutto quello che scrivevo – poesie, testi teatrali, inizi di romanzi o racconti – poi, nella rilettura, non mi piacevano. Per niente. Avevo (l’ho scoperto poi) un male comuni a tanti aspiranti scrittori: mi avvitavo su me stesso. Sul mio ombelico.

Finché una sera…
Ho mail di denti. Dopo la laurea ogni sera esco. Vado a giocare a bowling, sport che pratico a livello agonistico. Non sono un campione ma me la cavo. Faccio anche tornei all’estero. Così mi distraggo dal lavoro nelle redazione del giornale La Sesia (dove firmavo le inchieste più scottanti, quelle che mi portarono a conoscere Marco Travaglio, Massimo Novelli…)
Ecco, una sera però ho un mal di denti fortissimo. Così – invece di guardare la tv – prendo lo sdraio e un bloc notes e comincio a dialogare con me stesso.
Mi dico: È da un po’ che non provi a scrivere una storia…
Mi rispondo: Tanto lo sai come andrà a finire. La scrivi e poi, quando la rileggi, non ti piace e e così la distruggerai. Come sempre.

Dico altro a me stesso, però, quella sera, prima di mettermi a scrivere. Qualcosa di importante.
Dico, mi dico: Raccontami una storia.

Scrissi per un paio d’ore. Mesi dopo – era Pasqua, c’era una riunione familiare e io ero fuggito – mi ritrovo da solo in redazione, al giornale. Il bloc notes con la storia abbozzata l’avevo portato con me, ma non l’avevo riletta. Non l’avevo riletta pensando: Tanto poi la distruggerò, come sempre.
E invece leggo e, per la prima volta, mi piace quello che sto leggendo. Ho come la sensazione che non sia stato io a scrivere…
Infatti. Ero uscito da me stesso.
Anni dopo scoprirò Pontiggia, i suoi insegnamenti. Scrivere significa sorprendersi.
Quando avevo scritto l’incipit del libro non avevo la minima idea degli sviluppi che avrebbe avuto quello che stavo scrivendo.
Stavo scrivendo con la mano, non con la testa.

L’incipit.

Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.

Terminai di scrivere “Il quaderno delle voci rubate” prima del mio quarantesimo compleanno. Poi cominciai a spedirlo a editori vari. Non lo feci leggere ad amici o parenti. Non mi fidavo.
Ma vedendo che dagli editori o non arrivavano risposte o arrivavano solo risposte negativo cominciai a vedere nero. Non solo all’altezza, pensai.

Un giorno mi viene in mente di fare una cosa. Di far leggere il manoscritto a una scrittrice di Vercelli ma che lavorava a Milano: Laura Bosio. Non ci conoscevamo personalmente. E comunque. Le inviai il manoscritto scrivendole (più o meno) così: Pensa che posso continuare a scrivere? E questo manoscritto? È da buttare oppure no?
Mesi dopo sono al giornale. La segretaria mi passa una telefonata. È Laura Bosio. Mi dice che il libro le è piaciuto, tanto. Poi mi dà alcuni consigli, c’era qualcosa da rivedere infatti. Infine mi dice che devo spedirlo a qualche piccola ma valida casa editrice (forse Interlinea di Novara).
Ne parlo al giornale. Direttore ed editore mi dicono. Dal momento che c’è il parere favorevole di Laura Bosio possiamo pubblicarlo noi, dal momento che La Sesia è anche una casa editrice…

E così fu. Un migliaio di copie de “Il quaderno delle voci rubate” nel 2002 andarono agli abbonati del giornale La Sesia.
Altre, furono messe in vendita.
L’anno successivo, il 2003, scriverò Dicono di Clelia, inviandolo a Mursia. Che mi pubblicherà (nel 2006, però).

Infine.
“Il quaderno delle voci rubate” è stata ristampato due anni fa da I buoni cugini, casa editrice di Palermo.
L’ho cambiato. Sono diversi i primi due capitoli, diverso il finale e altro. La sento più mia questa seconda edizione.
Due cenni sul libro. Racconta la storia di un uomo che torna al suo paese e riapre la locanda del nonno. Un giorno, nel vecchio bar, una studentessa dimentica un quaderno nero, dalla copertina lucida. Il protagonista – si chiama Luca Baldelli, ha sessant’anni – comincia a scrivere cose. Per esempio, le voci che sente dai suoi clienti e che si confidano senza fare caso a lui…

Ecco un estratto.

Mentì anche quell’uomo, con un solito “Bene grazie” che mi diede lo spunto per scrivere altro. La sua fu la prima voce.
Arrivò solo. Avrà avuto fra i quarantacinque e i cinquant’anni, non di più. Era distinto, eppure avevo la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di strano.
Comunque aveva una faccia simpatica, da persona importante; importante ma cordiale. Oramai ci ho fatto il callo, io: i gasati li annuso subito. Quell’uomo poteva essere un bravo medico, di quelli che pensano a curarti e non alla parcella, o uno scienziato, un pianista, uno scrittore. Esclusi che si potesse trattare di un politico: è una razza, quella, che, difficilmente ha dell’umanità negli occhi. Ordinò una birra bionda, alla spina.
«Se vuole, gliela porto al tavolo.»
«La ringrazio, ma preferisco sgranchirmi le gambe, sono stato seduto per ore al volante.»
Poi, senza che io gli avessi domandato altro disse: «Sto attendendo una persona.»
Aveva l’aria di uno che non vede l’ora.
E in effetti continuava a guardare il vecchio pendolo, vicino alla porta d’ingresso. Dopo un po’ si decise. Ordinò un’altra birra e si accomodò in fondo alla sala, lontano da me, quindi, e da Benito e Francesco, due pensionati che, in un tavolo vicino al banco, concentratissimi giocavano a dama.
Era un afoso pomeriggio di luglio di quattro anni fa, e quell’uomo era madido di sudore. Ricordo che ogni tanto si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco che aveva nella tasca interna della giacca color blu notte, appoggiata sulle spalle.
Arrivò la persona che aspettava. Era una signora piuttosto anziana, poteva avere una settantina d’anni portati molto bene, tutta ingioiellata e profumata. Vestiva un completino viola, il mio colore preferito. Appena la vide le andò incontro. Si abbracciarono e si baciarono con affetto.
«Allora Sandro, come va?» disse lei.
«Bene grazie.»
Si sedettero, sempre nello stesso tavolo.
La signora, dopo aver ordinato un bicchiere di acqua naturale, mi domandò se avevo qualcosa di solido – «e di gustoso» specificò – da mangiare. Proposi della crostata di mele fatta in casa.
«Anche se sono fuori orario, devo ancora pranzare. Che ne direbbe invece di un bel prosciuttino crudo magro, oppure meglio: ha della buona bresaola?»
«Ho una bresaola squisita.»
«Benissimo, mi faccia un bel panino e me la condisca con limone, olio di oliva e tanto pepe; mi raccomando il pepe, ho uno stomaco di ferro, sa?» disse con un bel sorriso.
Quella signora elegante e disinvolta emanava vitalità. L’uomo invece pareva inebetito, stanco. Fissava il vuoto.
«Gradisce un’altra birra?»
«Come scusi? Ah sì, grazie, un’altra alla spina va benissimo.»
Quando tornai dalla cucina con birra e bresaola i due pensionati, che avevano terminato la loro partita a dama, si erano spostati nell’altra sala del bar, la più piccola, che è più ventilata perché dà sull’esterno dove c’è un piccolo spiazzo dove una volta mio nonno coltivava rose e pomodori.
Col vassoio mi avvicinai al tavolo dei due clienti venuti da chissà dove; l’uomo, che stava parlando, mi dava le spalle. Non badò a me. Il tempo di avvicinarmi, di posare il vassoio sul tavolo e di allontanarmi mi fu sufficiente per ascoltare.
«Non mi ha sentito rientrare, non sapeva che io fossi in casa. Per puro caso, sento che dice: Tu almeno hai un padre che è qualcuno, il mio è una nullità. Anzi no, ha detto di peggio; ha detto: Tu hai un padre che è qualcuno, il mio non vale un cazzo. Ho pensato: starà imitando qualche comico, di sicuro non si sta riferendo a me. Però volevo esserne certo. Così, senza fare rumore lo raggiungo. Non stava imitando nessuno: steso nel letto, stava parlando al telefonino con un suo amico, credo. L’ho visto per un attimo, lui non si è accorto di me perché aveva il braccio che gli copriva gli occhi.»
Posai velocemente il vassoio sul tavolo, poi, a testa bassa, con la sensazione di avere addosso lo sguardo della signora, mi allontanai. Ma feci in tempo a sentire un’altra breve frase, sempre di lui: «Sono giorni che ci penso, ci penso e piango.»
Anch’io, come quell’uomo che non vidi mai più, avevo sentito per caso.
Fu la prima “voce” che segnai nel quaderno dopo la pagina bianca dei “Come va?”
Ne capitano poche di “voci” così. Una, massimo due in un anno.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere per fuggire lontano (2)

Prima di parlare di libri miei ed esperienze editoriali e altro, una premessa.

Una donna di 37 anni. Ha due figli. Uno di sette, l’altro è appena morto, aveva solo dieci mesi. Non è mai stata una donna allegra. Sorride per buona creanza. Dopo la perdita del figlio si chiude in se stessa, sempre più.
Un uomo, anche lui di 37 anni. Lavora in fabbrica, ma la odia. Tornerebbe a fare il contadino. È forte, ma il nervoso è più forte di lui, così gli viene l’ulcera, va avanti a pastiglie Roter e riso in bianco, che odia. Non salta mai un giorno di lavoro. Quando torna a casa, si copre con una coperta e si corica sul divano, raggomitolato.
Insomma, i miei genitori quando ho sette anni. Vado a scuola e a scuola vado male, così, per punizione, mamma mi manda all’oratorio solo mezz’ora al giorno. Se tardo di cinque minuti il culo è assicurato. Soldi per comprare i fumetti non ce ne sono, nemmeno la tivù c’è. Però c’è la radio. Gracchia, ma per me è tanta roba.
La tivù la guardiamo al bar, due volte a settimana: il giovedì e il sabato. Nel bar le donne stanno davanti, appunto a guardare la tele, gli uomini in fondo, a giocare a carte. Se fanno baccano le donne li sgridano.
Io mi arrabbio sempre: se c’è un western le signore chiedono al padrone del bar di cambiare canale.
Mi fanno odiare Nilla Pizzi, Morandi e il festival di Sanremo, la mamma e le altre signore.
Ma ho comunque un ancora di salvataggio. Quando fingo di studiare, quando fingo di dormire, la sera. Ho un mondo dentro, tutto mio, inventato. Di cowboy ed eroi. E cavalli. Cani. Praterie. E una casa di legno…. che ricorda tanto la baita di Romolo Strozzi, protagonista del mio ultimo libro, La Suora.
C’è anche un angolo della memoria per Fabrizio, il mio fratellino morto… C’era e c’è, ancora oggi.
Ma torniamo ad allora.
Il poco che vedo in tele oppure al cinema (grande concessione di mia madre, ogni domenica potevo andarci) mi basta per tessere altre trame, altre storie. Che poi mi piace raccontare agli altri. A scuola racconto film che non ho mai visti. Girati nella mia testa. Gli altri mi ascoltavano rapiti. Solo una volta – e ci rimasi male – un mio compagno mi disse: Non ci credo che hai visto questo film.
Anni grigi insomma, però c’era l’estate. Che ad agosto, significava tornare a Cortona. La mamma e il babbo, lì, erano diversi, e io a Cortona stavo all’aria aperta dal mattino alla sera. Sempre in mezzo ai cani. Non avevo bisogno di fughe. Mio zio mi svegliava alla tre di notte per andare a caccia, oppure mi faceva vedere come confezionava le cartucce per il suo sovrapposto calibro 12. Mi piaceva sparare ai barattoli, mi piaceva mio zio cacciatore. Ci rimasi male, però, quando vendette per 100mila lire il cane Battaglia, il mio preferito. Mio zio, a Battaglia, aveva insegnato ad arrampicarsi sugli alberi, come un gatto. Un giorno un signore di Roma, passando con l’auto vide. Accostò, bisbigliò qualcosa allo zio, aprì il portafoglio…

Cortona e i miei libri appaiono spesso sulla mia pagina Facebook. Storia di oggi, storia di ieri, di sempre.
In quegli anni, i miei libri erano le mie fantasie, Cortona era invece il posto più bello al mondo. Bella come Mompracem. Non m’importava se i miei parenti, mezzadri e poveri, non avessero nemmeno il bagno: certo, un po’ di schifo nell’andare a fare la cacca in un fosso e pulirmi il sedere con le foglie l’avevo, come no.
Perché scrivo? Forse cominciai allora… e in effetti i miei libri prima che su carta io li scrivo dentro la mia testa, passeggiando (La donna di picche per esempio è nata così).
Quel periodo nero durò poco. Quattro anni.
Quando avevo undici anni nacque mia sorella Silvia e i miei comprarono la televisione. Mia mamma, rinacque. La vidi allegra, la vidi contenta forse per la prima vera volta. Grazie alla mia sorellina. Non solo. A undici anni entrano nella mia vita i libri. Fino ad allora solo Tex e libri per bambini, come Il gatto con gli stivali, oppure Cuore, letto e riletto, Pinocchio.
Una ricca signora, compaesana dei miei, un giorno dice alla mamma: Ma Remo, legge? Mi sommerse di libri. Salgari. Verne, Dumas. Tom Hill (dieci libri su David Crockett). Dagli undici, dodici anni fino ai diciotto, diciannove ho passato ore e ore e ore a leggere, rinunciando, spesso, a uscire con gli amici.
A 17 anni, faccio la mia prima taglia da scuola. Vado in un bar, il cameriere è un mio amico, Mi rintano in un angolo a leggere L’inverno del nostro scontento, di Steinbeck.
Steinbeck, Remarque, Berto, Pratolini… Poi Marx, Engels, Trotsky soprattutto.
«Mamma, domattina svegliami alle 6 che così ripasso». Mi svegliava, mi portava il caffè a letto e io, mentre ascoltavo una trasmissione radiofonica intitolata “Caffè, canzoni e poche righe” leggevo di tutto, tutto ma non i libri di scuola (fui rimandato due volte: in prima media e quarta agraria. Il mio voto preferito era dal cinque al sei).

Sognavo di scrivere, allora? Forse.
Ricordo una sera. Io e mamma guardavamo un film in bianconero. Lei stirava. Era la storia di uno scrittore. A me non colpì il finale, che nemmeno ricordo (comunque diventò famoso). A me colpiva il quotidiano di questo scrittore. Chino sulla macchina da scrivere fino a notte fonda e poi, al mattino, una corsa alla cassetta delle lettere per vedere se ci fossero risposte positive, oppure no, di qualche editore.
La prima risposta negativa io la ricevetti nel 1997. Fu come un pugno allo stomaco. Dalla casa editrice Frassinelli, a cui avevo mandato il manoscritto del mio primo libro: Il quaderno delle voci rubate, che poi è diventato Il bar delle voci rubate e di cui parlerò nel prossimo post.

E scusatemi se l’ho fatta lunga…

Un “Quasi diario” di uno scrittore di serie D

Non sono uno scrittore di serie A, e nemmeno di B o C. Penso di essere in quarta serie, insieme ad altre centinaia. Ho comunque deciso di fare una cosa. Raccontare tutti i miei libri. Due cenni sulla trama, il racconto di come sono arrivato alla pubblicazione. A quanti editori mi sono rivolto. Editing, vendite, tutto insomma. Qualche aneddoto che può interessare chi vuole pubblicare il libro. Anche la scelta della copertina. Senza dilungarmi troppo. Quattordici libri, quattordici puntate. Alcune saranno brevi brevi, altre no.

Alla prossima: oggi pomeriggio o domattina.

Al termine di una presentazione a Martina Franca, una quindicina di anni fa