Amazon, le recensioni più belle e quelle più brutte

I miei libri su Amazon. Alcune recensioni dei lettori.

La Suora (Golem)

La più bella (di impressionidilettura)
Remo Bassini, con le sue storie malinconiche, con i suoi personaggi mai del tutto vincenti e mai del tutto sconfitti, non mi delude mai.
Romolo Strozzi, protagonista e voce narrante di questa storia di amori non vissuti e di amori possibili ma meno attraenti della solitudine, è di quelli di cui da lettrice mi innamoro.
Un mistero dai cupi risvolti si svela a poco a poco, senza improbabili effetti speciali da serie americana, con il passo lento delle storie vere, in cui la determinazione e la pazienza, se anche la fortuna collabora un po’, arrivano infine alla verità.
La provincia con le sue atmosfere, le sue malinconie, i conflitti sotterranei, le maldicenze e le prepotenze, non è un fondale, è una dei protagonisti della storia.
La più negativa.
Per ora non c’è. Qualcuno, comunque, ha messo le due stellette nelle opzioni di voto (che vanno da 1 a 5).

La donna di picche (Fanucci)

La più bella (di Susanna Raule, scrittrice)
Premetto di non aver letto il titolo precedente (che ora mi procurerò), ma da questo sono rimasta colpita. Bassini usa gli stilemi del giallo per dar vita a una narrazione avvolgente, avvincente, centrata sui rapporti interpersonali e quasi priva di avvenimenti. Detto così non sembra un pregio, lo capisco, ma lo è. Nel libro, all’apparenza, non succede quasi nulla, se uno si aspetta la trama action e adrenalinica di certi gialli americani. Ma in realtà succedono un sacco di cose, che entrano nel cerchio della narrazione in modo naturale, tenendoti avvinto da una narrazione sempre di parte, che non si allontana mai dai personaggi per permetterci di guardare la storia dall’alto. Ed è così che è la vita, no? Non puoi allontanarti e guardare le cose dall’alto, magari. La donna di picche ti rapisce, ti fa venir voglia di continuare a leggere, scorre via e ti trascina nel flusso. Più vai avanti più hai voglia di entrare nell’universo personale di personaggi umanissimi, dolenti, ma anche pieni di una speranza nel futuro quasi recalcitrante. Davvero molto consigliato.
La più negativa (angela)
Romanzo globalmente accettabile, ma non mi ha coinvolto né la vicenda, né i personaggi.

Forse non morirò di giovedì (Golem)

La più bella (annarita)
Sono tornata volentieri a immergermi in uno scritto di Remo Bassini perché oramai lo segue da alcuni anni e attendo sempre con piacere ogni sua nuova creazione. In questo romanzo facciamo la conoscenza di Antonio Sovesci, direttore con la schiena dritta di un piccolo quotidiano di provincia. Ma questa storia nulla ha di provinciale nel senso più vieto del termine; attraverso gli occhi, le parole e i gesti di Sovesci entriamo nel mondo di un piccolo giornale in cui il temperamento del direttore fa la differenza, la notizia è sempre oggetto di attenta analisi e se degli errori si fanno, con Antonio sono sempre e solo in buonafede. Questa vicenda, che si dipana nell’intreccio tra l’intervista che con una certa ritrosia il direttore concede a una sua ex giornalista e i fatti del giornale, viene sviluppata con mano sicura ed esperta da Remo Bassini, forte della sua esperienza di giornalista, ma soprattutto con abile scavo psicologico dei personaggi, che ci conducono per mano fino all’epilogo della vicenda. C’è tutto un mondo in quella redazione in cui ogni giorno Antonio Sovesci lotta contro i tagli al budget dovuti all’ottusità dell’editore e del suo manipolo di azionisti; un mondo di provincia denso e umorale, in cui ogni componente della redazione viene fuori a tutto tondo con pregi e difetti. C’è amore, c’è sofferenza, c’è onestà, ma ci sono anche calcoli e tradimenti, colpi bassi e fughe. Insomma un bel romanzo sul giornalismo onesto e leale come il direttore Sovesci. Una bella lettura.
La più negativa (giuseppe riccardi)
Il titolo mi è stato consigliato da amici, avevo grandi aspettative ma non ho trovato interessante la storia, trita e ritrita, la scrittura e i salti temporali secondo me fuori tempo. Magari riproverò con un altro lavoro dell’autore.

Tornare a Orta: intervista Instagram

È da anni che vado a Orta. Orta, il suo lago con la sua isola. Orta e i suoi vicoli. Orta una sera d’inverno, deserta, senza turisti. Orta, città del poeta maledetto Ernesto Ragazzoni.

È finita. Il giornale è stampato,
la rotativa s’affretta,
me ne vado col bavero alzato,
dietro il fumo della sigaretta.

Quando ero piccolo i miei mi ci portavano poco, le nostre domeniche avevano altre destinazioni che prevedevano un picnic che odiavo (mi vergognavo a mangiare su un prato), ma da trent’anni a questa parte Orta e il suo lago sono una meta ricorrente. Specialmente quando non c’è turismo.

A Orta è ambientato il primo capitolo dell’ultimo libro scritto, La suora.
Un capitolo a cui tengo molto. Lo scrissi durante il primo lockdown, lo scrissi sognando di essere a Orta e di chiamarmi Romolo Strozzi. Volevo fuggire: dal lockdown e anche da me.

L’intervista è a cura di Rosangela Colombo. Che ringrazio per l’intervista.
Ne farà di altre, sempre sul suo canale instagram, roseange.eventi

Poi. Mentre scrivevo La suora sono andato a Orta, una volta. Stavo scrivendo il finale. Ci sono tornato per questa intervista, dopo mesi (maledetto lockdown).

Il video (20 minuti)

Cigliano, il gatto, un estratto de La suora

Ieri sera ho presentato La suora alla Biblioteca civica di Cigliano.

Bella presentazione, grazie a Simona Matraxia che mi ha “interrogato” sul libro, al personale della biblioteca, ai presenti, compreso un gatto (vedi foto sotto) che è apparso mentre parlavo (lo hanno fotografato, io non me ne sono accorto).

Mi piace improvvisare, durante le presentazioni.

Difficilmente leggo pagine dei miei libri. Ieri sera, invece, ho letto un breve estratto da La Suora.

Questo.

È fredda questa notte di primavera del 1945, ma alla ragazza non importa, altrimenti si abbottonerebbe il cappottino nero, che sua mamma ha rivoltato. Una ragazza così giovane non dovrebbe andare in giro di notte. La guerra è finita, ma è ancora tempo dei regolamenti di conti, di bande di falsi partigiani, di caccia al fascista, al delatore, al fiancheggiatore che ora nega tutto. Per le strade deserte si respirano odio e paure. È tutto diverso ora. La folla che un anno addietro faceva a gara nel cercare di stringere la mano al prefetto massacratore di ebrei e partigiani, adesso applaude il Comitato di liberazione nazionale. Viva i partigiani, viva i garibaldini: ciak si gira un nuovo film.
La ragazza, ora, cammina radente al muro, c’è solo lei che si sta aggirando sotto i portici della piazza, deve stare attenta. Non dovrebbe essere lì, lo sa bene. Lo ripetono ogni giorno, con l’altoparlante.

«Per disposizione del Comando Militare Alleato il coprifuoco ha inizio alle ore 23 e avrà termine alle ore 5. Per circolare durante il coprifuoco occorre un permesso rilasciato dal Questore. Fanno eccezione le pattuglie di partigiani e quelle della Polizia.»

Se la fermeranno si inventerà qualcosa, non ha paura di loro. È angustiata da altro. Dicono tutti che lui è morto, ma lei non si vuole arrendere perché sente che non è vero. È appena stata dove c’era l’altalena, è lì che si sono conosciuti, è uno dei loro posti segreti. «Camilla, non dirlo a nessuno che te la facevi con quello là» le ha detto sua madre, ma non c’è stato verso: continuerà a cercarlo di giorno e di notte.

Sulla destra, il gradito ospite

Scrivi, sorprendendoti

Sono tornato a trovare Nora.
O suor Beatrice.
Ieri sera, infatti, era a Orta, per una diretta instagram sul mio libro La suora.
A Rosangelo Colombo (profilo instagram @roseange.eventi) ho raccontato come è nato il personaggio, come è nato il libro.

Una sera di marzo del primo lockdown sono in giro con il cane. Una città morta, come tutte. Camminando, penso che mi vorrei essere a Orta, davanti al lago. Vado spesso a Orta e Orta compare in alcuni miei libri. È il luogo del Piemonte a cui sono maggiormente affezionato. Mi piace andarci nei giorni anonimi, con pochi turisti.
Quella sera, dicevo. Inizio a scrivere e creo il personaggio di Romolo Strozzi.
L’ho chiamato Romolo perché volevo stare lontano da me. Io vico al nord e sogno di vivere in una località di mare, magari in Salento. Romolo Strozzi, invece, è un pugliese che fugge dalla Puglia e dal suo passato per vivere in Alta Valsesia.

Il primo capitolo de La suora – ambientato a Orta – è la storia di un incontro. Mentre scrivevo le prime pagine e scrivevo i dialoghi non sapevo ancora che Nora, alla fine del capitolo, avrebbe sorpreso Romolo.

L’estratto del libro.

Scopro che dietro a quel visino da ragazzina c’è una donna: Nora ha appena compiuto trentasette anni, ha nove mesi più di me.
«Te ne davo ventotto, massimo ventinove…» le dico, e sono sincero.
Arrivò il quinto e ultimo pensiero: adesso ti bacio.
«Anche io sto per cambiare vita» sussurra, abbassando gli occhi. Ma poi la rialza. Il suo viso, adesso, è un volto fiero.
«Tra un mese diventerò una suora dell’ordine benedettino. Andrò a vivere nel monastero dell’isola di San Giulio.»
Mi manca il fiato, «Ah, ho capito» dico. Poi devo avere aggiunto altro, parole inutili che non mi importa di ricordare.
«Ah ho capito» è l’ultima frase di un film con un finale che non ti aspetti.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: La donna di Picche, La suora, la voglia di scrivere che è andata via (puntata 11, l’ultima)

Ultima puntata.

Allora, dopo aver pubblicato un po’ di libri nel 2014 staccai da giornalismo e narrativa. Candidato sindaco, poi consigliere comunale, poi assessore. Nel 2016, però, sbatto la porta e saluto.

In quegli anni avevo letto poco e scritto niente o quasi.

No, qualcosa riscrivevo: un giallo. Gli ultimi amori di un poliziotto per bene.
Però avevo perso i pochi ma importanti contatti che avevo. Ed ero sprofondato nella moltitudine degli scrittori di serie D e C.
E comunque, di quel giallo ambientato a Torino, avevo fatto invii vari. E avevo ricevuto o dinieghi o risposte da case editrici che non mi convincevano.. Nell’arco di una settimana (autunno 2016) si fa viva la mia agente (ora ex: preferisco fare da solo) che mi dice: «Guarda che Fanucci è interessato a pubblicarti.»
Non mi sembrava vero. Fanucci è un ottimo editore. Ben distribuito, paga anche degli anticipi (piccoli anticipi li avevo ricevuti anche da Perdisa). Fanucci vuol dire risalire, vuol dire serie C o anche B (ho visto una graduatoria che lo inserisce tra i primi trenta editori italiani).
Succede questo, però.
Rileggo il libro e non, rileggendolo, vedo che non mi convince. In dieci giorni lo riscrivo e lo rimando a Fanucci, precisando: «Prendete in considerazione questa versione.»
Poi arrivano due giorni folli. La mia agente mi chiama, sconsolata: «Sembra che non siano più interessati», poi, nell’arco di poche ore, mi richiama: «No, ti pubblicano».
Li avevo convinti inviando in extremis la versione riveduta e corretta?
Comunque, vado a Roma, firmo il contratto, conosco la mia editor (bravissima, da lei ho imparato tanto: Rita Feleppa) e scambio due parole con Sergio Fanucci. Che mi dà alcune dritte e mi propone di cambiare titolo: La notte del Santo.
Per me ci sta. È la prima volte che il titolo non lo decido io. Ma mi sembra un buon titolo, pertinente.
Quando sono davanti a Sergio Fanucci vedo il manoscritto: era la seconda versione. Quella inviata in extremis. Avevo fatto bene a riscriverlo in dieci giorni, insomma.
Il libro esce a le vendite vanno anche abbastanza bene. Al punto che, l’anno successivo, Fanucci mi scrive e mi chiede se sto scrivendo qualcosa. La mia risposta è affermativa. Stavolta ho il titolo in mente, e nessuno deve cambiarlo: La donna di picche.
Fanucci è un editore, diciamo, estroso.
Successe questo. Gli invia La donna di picche, versione uno, poi però mi venne in mente di apportare modifiche profonde, partendo dalla frase finale del libro.

Sono la donna di picche, quella che non dimentichi.

Notti e notti insonni per riscrivere il finale, anzi no, i due finali…
Invio così la seconda versione a Fanucci che non la prende bene, e mi dà una rispostaccia. Ma il lavoro definitivo non doveva essere il manoscritto che mi hai già inviato? Non si fa così.
Quando però legge la seconda versione (quella definitiva) però mi scrive una mail da incorniciare. Il libro gli è piaciuto, tanto.

Che La donna di picche sia un buon libro lo penso anche io. Spiego perché. Ne ho scritti quattordici, i tre che rileggerei (non rileggo mai i miei libri), sono Bastardo posto, La donna di picche e La suora, uscito da pochi mesi per Golem.

Il personaggio che invece preferisco è Anna Antichi, protagonista de La donna che parlava con i morti e Vegan. Le città di Dio.

Il libro ottiene alcune ottimi recensioni, lo presento al salone, insomma faccio le solite cose che si fanno quando esce un libro. Per esempio si rompono le scatole al prossimo su facebook. Forse faccio di più, stavolta….
Con La donna di picche, per la presentazione nella mia città, a Vercelli, mando delle mail di invito: mai fatto.
Credevo e credo ancora in quel libro. Che però ha venduto poco. Ci sta, anche se mi spiace, ovvio.
Era sbagliato il titolo, la copertina, cosa? Non lo so.

Intanto (siamo nel 2020) stavo rivedendo un libro scritto in passato: Forse non morirò di giovedì. Un libro che parla di giornalismo, un libro in cui, lo confesso, credevo poco.
E invece lo ha pubblicato Golem, mi sembra che sia andato bene e per la prima volta è anche successo che io abbia vinto un premio. Primo ex equo al Premio internazionale città di Cattolica.
Quando sono salgo sul palco del teatro di Cattolica, settembre dell’anno scorso, il presentatore dice: «Cosa si può dire di un libro che vince su duemila altri libri? Chapeau».
Io dico: «Ho scritto quattordici libri, è la prima volta che ricevo un premio, non credo che accadrà più. E come dice il proverbio… il primo premio non si scorda mai».

Intanto stavo scrivendo La suora, che ho proposto a Golem e che inizia così: Le ossessioni non sono mai belle, eccetto Nora.

Scriverò ancora, non scriverò più? Non lo so.
Anni fa questa domanda non me la sarei posta.
Anni fa non mi sarei mai chiesto “Cosa scrivo?” e “Per Chi scrivo?”, perché, anni fa, avrei scritto a basta.
Anni fa, ogni tanto, mi chiedevo: Sei uno scrittore?
Me lo chiedo ancora. Non mi interessa cosa significhi per gli altri, definirsi scrittore.
Per me significa vivere scrivendo, vivere, insomma, ma aspettando che vengano la notte il silenzio e le parole.
Questa attesa, adesso, mi manca.
Che dipenda dal fatto che non fumo più sigari e pipa ma son passato alla sigaretta elettronica? Scherzi a parte, spero che questo diario sia servito a qualcuno. È un diario che parla e quindi promuove un po’ anche i miei libri: ma vendere qualche copia in più non mi cambia certo la vita…

Un saluto a tutti coloro che passeranno di qui.

Link delle puntate precedenti.
1) Un “quasi scrittore” di serie D: LEGGI QUI
2) “Quasi diario: scrivere per fuggire lontano: LEGGI QUI
3) “Quasi diario”: scrivere sorprendendosi. Il mio primo libro: LEGGI QUI
4): “Quasi diario”: la magia della scrittura e il mio terzo libro: LEGGI QUI
5) “Quasi diario”: Parentesi sui manoscritti da inviare: LEGGI QUI
6) “Quasi diario”: Il terzo libro e un grave errore: LEGGI QUI
7) “Quasi diario” e la potenza di radio e tv: LEGGI QUI
8) “Quasi diario”. Libro annunciato poi bloccato, insomma un pugno allo stomaco che fa ancora male. LEGGI QUI
9) “Quasi diario”: il sogno infranto e la lunga pausa. LEGGI QUI
10) Quasi diario: Leggere e scrivere, sporcandosi la mani LEGGI QUI

Passeggiando per le strade di Orta, di notte (La suora, primo capitolo)

Le ossessioni non sono mai belle, eccetto Nora.
Orta San Giulio, dieci anni fa, una sera di gennaio. Saranno state le dieci, o le undici, che importa? Nelle sere sbagliate il tempo conta poco. Ero davanti all’ingresso dell’albergo dove avrei pernottato, non avevo voglia né di camminare né di salire in camera né di essere altrove.
Risposi con un cenno della testa al suo saluto, mentre mi passava accanto per entrare al Leon d’oro. Prima che la porta si richiudesse alle sue spalle, sgusciai dentro anche io, ma non era mia intenzione seguirla: non ero alla ricerca di nessuna donna, di nessun incontro. Alla ragazza assonnata della reception, Nora domandò la chiave della sua stanza, io una bottiglia di acqua minerale, per poi uscire di nuovo.
Appena fuori, mi accorsi che non ero solo.
Disse «Niente, questa sera il sonno non vuole arrivare».
I tuoi occhi, Nora, vedevano oltre.
La guardai senza voglia di guardarla. Protetto da una cuffia gialla, un viso sottile, che dava l’impressione del già visto: non brutto, ma insignificante; indossava una gonna pudica, sotto il ginocchio, un montgomery a quadrettoni verdi e blu, degli scarponcini.

Le sue caviglie erano nascoste, quindi. Le caviglie di una donna – è una mia fissa – sono rivelatrici. È anche un gioco tutto mio per passare il tempo, anni fa in metropolitana, oggi in qualche trattoria o bar: con lo sguardo ad altezza piedi, provo a indovinare se una sconosciuta ha – secondo i miei parametri – fascino o meno osservandole, appunto, le caviglie. Difficile che mi sbagli. Ma il ricordo delle sue caviglie nascoste venne dopo, quando cercai di ricostruire ogni momento, ogni minuto, insomma ogni cosa di lei.
Nora era a Orta per un motivo preciso, io no; ero a Orta perché conosco bene i volti di questo borgo che profuma d’antico: nei giorni caldi della primavera e dell’estate Orta è un’esplosione di colori e di voci, ma nelle sere di freddo e nebbia è triste, senza vita. Era questo il volto che a me interessava. Il silenzio interrotto dal rumore dei miei passi e dallo sciabordio delle acque del lago.
Ero fuggito da Milano, da un funerale, dalle parole e da tutti. Il cellulare l’avevo lasciato in camera, spento.

Li ho messi in fila e li ho ordinati, poi, i ricordi e i pensieri di quel lunedì sera, 25 gennaio del 2010.
Se cerchi compagnia per questa notte hai sbagliato persona, fu il primo pensiero, anche indigesto però, perché mi provocò un conato di vomito. Non avevo cenato: solo un’alternanza folle di caffè, birre, Campari.
«Lei non sta bene, rientriamo, dovrebbe bere qualcosa di caldo.»
Non le risposi, ma al suo sorriso risposi con un sorriso – era impossibile non essere contagiati dalla sua gentilezza, una gentilezza antica, vera, punto affettata. E poi successe che, senza dire una parola, ci ritrovammo a camminare, piazza Motta, l’antico Broletto, via Olina, poi indietro, ancora in piazza Motta, i portici e le ultime finestre illuminate che, presto, avrebbero ceduto alla notte.
«Chissà quante storie ci sono nascoste là dentro» disse Nora, indicandomi il vecchio, imponente Albergo Orta, chiuso da anni.
Vedendomi sovrappensiero aggiunse «Lei ha un peso dentro».
Non dissi nulla, non volevo dire nulla, stavo un po’ meglio, Milano però continuava a perseguitarmi.
Mezz’ora dopo, forse meno, nella mia testa c’era qualcosa di diverso: Stammi vicino e fammi compagnia tutta la notte. La sua voce, il suo sorriso e qualcosa d’altro – che ancora adesso non so spiegare – mi stavano conquistando. Avrei voluto dirle «mi trovo bene con te, ci diamo del tu?», ma non ne ebbi il tempo.
«Fa freddo, non trova? Sono anche un po’ stanca.»
Aveva ragione, era da un po’ che si scaldava con il fiato le punta delle dita, aveva ragione e glielo dissi. «Sì, rientriamo. Mi scusi, non mi ha detto il suo nome.»
«Nora.»
«Piacere, Romolo.»
Adesso non c’era più anima viva, tutto buio. Aveva ragione, certo, io indossavo solo una giacca, e la sciarpa che avevo al collo non mi avrebbe salvato dal mal di gola e dalla febbre nei giorni successivi, ma non so cosa avrei dato per continuare a provare quei brividi; mi angosciava l’idea di trovarmi, solo con me stesso, in camera d’albergo.
Mentre camminavamo verso il Leone d’oro la mia mano destra cercava di incontrare e quindi sfiorare la sua mano sinistra, ma non accadde. Quando mi dirai buonanotte mi sentirò perduto, fu il terzo pensiero.
Non volevo che la notte me la portasse via. Annetta continuava a seguirmi come un’ombra, era giusto così, era giusto che non se ne andasse. Ma nemmeno Nora doveva. Arrivò il quarto pensiero. Voglio dormire con te.
Rientrammo al Leon d’oro, e mentre salivamo le scale dell’albergo quasi smaniavo affinché quel pensiero, Voglio dormire con te, diventasse parola. Diventasse la notte che non pensavi.

Il ricordo di quel che accadde, poi, è ancor più vivido, come lo sono certi ricordi insistenti, che tornano sempre.
La rivedo, si dirige verso la sua stanza, che è poco distante dalla mia, la seguo ma quando mi dice «Buonanotte Romolo, è stato un piacere conoscerti» mi blocco: sono di pietra. Mi hai dato del tu, bene, mi fa piacere, però aspetta, che ho qualcosa a dirti. La vedo che entra nella sua stanza, ma invece di chiudere completamente la porta si gira verso di me; metà del suo corpo è dentro, l’altra metà – è chiaro – mi sta aspettando. Penso: ci sta. Penso che è arrivato il momento di dirle “Voglio dormire con te”. E invece commetto un errore. Dico a me stesso: No, meglio aspettare qualche minuto. Intanto mi avvicino e parlo, parlo, va bene tutto quello che mi viene in testa, dal riscaldamento che mi sembrava eccessivo alla voglia matta che avevo di un caffè, «Ne sono un bevitore compulsivo, e tu?». Parlo sottovoce per non disturbare la ragazza assonnata della reception, Nora mi osserva. Non può che essere interdetta: prima non dicevo nulla, adesso sparo una cazzata dopo l’altra.
Sono teso, vorrei fumare ma temo di darle fastidio. Una parte di me spera che mi inviti a entrare, l’altra teme un saluto e che la sua porta si chiuda.
Mi viene in soccorso un pensiero diabolico. Dell’impostore che è in me. Adesso le racconto del suicidio di Annetta, così mi consolerà, così parleremo ancora e poi ancora. Non avrei dovuto.
«Sei impallidito, non stai bene?»
“Faccio schifo, non puoi sapere quanto” sono tentato di risponderle. Ho voglia di piangere, vorrei dirle tutto, stavolta senza secondi fini.
Vorrei raccontarle che Annetta si è uccisa due giorni fa. Poche ore prima di impiccarsi mi aveva inviato un sms: ‘Ehi prof, non li trovi dieci minuti per parlare con me?’ Non li avevo trovati. Eppure, lo sapevo che Annetta stava vivendo giorni terribili. Suo padre aveva un’altra donna, e lei non riusciva ad accettarlo.

No, non devo dirle di Annetta, pensai. Smetto di sproloquiare. La mia mente, adesso, rivedeva quel messaggio a cui avrei dovuto rispondere. Annetta stravedeva per me. Mi viene in mente mamma: ci resterà male quando le dirò che abbandono l’insegnamento. Ora però dovevo tornare a Nora, rassicurarla, sedurla. «No, sto bene, se tu parli sto bene. Parlami di te, ti prego.»
Mi sorride. «Ma non ho nulla di interessante da raccontare.»
«Ti prego, parti da lontano lontano, dimmi dei tuoi anni all’asilo, della tua bambola preferita…»

Parla, che poi ho qualcosa da dirti.
Per evitare di ridere, si porta una mano davanti alla bocca e spalanca gli occhi. Che non sono gli occhi di una donna insignificante, penso. «Allora, vediamo…» dice, sussurrando.
«Non amavo le bambole, ma adoravo i carillon, senza la musica del carillon che papà comprò quando nacqui non mi addormentavo. E poi, non so cosa raccontarti, la mia vita non è interessante… Sono nata a Cuneo, ma ci credi che la conosco poco? Non mi piace passeggiare, andare in giro, frequentare persone. Al Liceo ero un orso…»
«Ma qualche volta sarai andata in Piazza Galimberti, avrai mangiato un gelato.»
«Conosci Cuneo? Mah sì, mi piacciono i gelati, menta e nocciola sono i gusti che preferisco, però vedi…»
Tutta casa e chiesa e qualche gelato, allora.
«Il mio mondo era ed è la mia casa, il mio giardino, i miei cani. I miei libri… E poi… fammi pensare. Quando ero bambina, la domenica ci svegliavamo presto, andavamo in giro per le Langhe. Papà le adorava, andavamo sempre dalla stessa famiglia di produttori di vino che ci riforniva di Dolcetto. Chissà se sono ancora vivi… Come vedi ho poco da raccontarti. Ci credi che non sono andata mai all’estero?»
«Nemmeno una gita quando frequentavi il Liceo?»
«Solo una volta, a Firenze, ma all’estero mai, non mi andava. È grave?»
Sorride. Parla volentieri. Bene. Mi racconta che dopo essersi laureata in veterinaria a Torino, per un po’ di tempo ha lavorato nel laboratorio di una sua amica a Pinerolo.
«Poi papà si ammalò, gravemente. Gli avevano dato un anno di vita, ne ha vissuti ancora sei, ed è morto in casa, come desiderava, con me e mamma accanto. Dovevamo restituirgli tutto l’amore che ci aveva donato. Durante la malattia, papà ci invitava a uscire, e un po’ lo abbiamo accontentato. Io ho fatto del volontariato in un canile, mi rendevo utile come veterinaria, mia madre invece dava una mano in una casa di riposo. Vedi Romolo, eravamo una famiglia benestante, ma credimi, anche se fossimo stati poverissimi io e mia madre avremmo fatto di tutto per stargli accanto.»

L’ascolto e penso: hai solo un piccolo mondo che gravita attorno a tua madre Camilla e al ricordo di tuo papà? Non è possibile.
Lei, intanto, sta continuando a parlare. Non sbadiglia, nessun cenno di stanchezza.
Si è tolta solo la cuffia, fa caldo adesso. Che belli i tuoi capelli un po’ mossi, che bello il tuo viso senza trucco…
«Però non va bene Romolo, adesso dimmi di te… no, se hai un peso e non ne vuoi parlare mi sta bene, ma… non so dove vivi, non so che lavoro fai, non so niente di te.»
«Sono pugliese, non ho moglie, figli, vivo a Milano, insegno in una scuola, o meglio insegnavo… Ma questo è un tasto dolente. Nei prossimi giorni mi trasferirò in Valsesia, conosci la Valsesia? Varallo, il Monte Rosa, la storia del popolo Walser, hai mai sentito parlare dei Walser?»
«Perché ti piace così tanto la Valsesia?» mi aveva chiesto Annetta.
«Forse perché mi piace la neve.»
«A me invece piace la primavera, a te no?»
«Amo la primavera e non vedo l’ora che arrivi, così come amo i giorni e le notti insonni di gran caldo d’agosto. Ma la neve, la neve di notte, la neve al risveglio, la neve sui tetti, sugli alberi… la neve insomma ha un fascino tutto suo, solo suo, unico… capisci Annetta?»
«Capisci Nora?»
«Capisco… ma tu… tu da cosa stai fuggendo? Scusa, non volevo…»
«Hai ragione Nora, sto fuggendo e voglio cominciare un’altra vita.»
«Anche tu?»

Quell’“Anche tu?” aveva un significato preciso, ma io, sbadato, non ci feci caso.
«Ah, dimenticavo; ho trentasei anni» dico. Mi sento in graticola: non voglio parlarle di me, parlare di me significava pensare a Milano e ad Annetta.
«Ma pensa, sono più vecchia di te.»
Scopro che dietro a quel visino da ragazzina c’è una donna: Nora ha appena compiuto trentasette anni, ha nove mesi più di me.
«Te ne davo ventotto, massimo ventinove…» le dico, e sono sincero.
Arrivò il quinto e ultimo pensiero: adesso ti bacio.
«Anche io sto per cambiare vita» sussurra, abbassando gli occhi. Ma poi la rialza. Il suo viso, adesso, è un volto fiero.
«Tra un mese diventerò una suora dell’ordine benedettino. Andrò a vivere nel monastero dell’isola di San Giulio.»
Mi manca il fiato, «Ah, ho capito» dico. Poi devo avere aggiunto altro, parole inutili che non mi importa di ricordare.
«Ah ho capito» è l’ultima frase di un film con un finale che non ti aspetti.

Quando mi stesi sul letto erano quasi le due. Annetta, adesso, era un pensiero che si era fatto da parte, in un angolo della stanza, silenzioso. Al posto suo c’erano Nora e una frase non detta.
Non riuscii a prendere sonno, guardavo la porta. Nora era così vicina. Mi alzai, uscii dalla stanza e mi diressi verso la sua. Non bussai, rimasi lì per un po’, indeciso.
La sveglio con un colpo di tosse, con un urlo?
Avrei voluto, invece tornai nella mia camera, sconfitto.

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