Si intitola “Il bar delle voci rubate” il primo libro scritto e pubblicato e, due anni fa, ripubblicato con il titolo “Il bar delle voci rubate”.
C’è una cosa importante che voglio dire su questo libro. Una cosa che racconto sempre durante le mie lezioni di scrittura.
Allora, avevo 39 anni e il sogno di scrive un libro l’avevo ormai accantonato.
Per tre ragioni. La meno importante. Non sapevo a chi rivolgermi, cosa fare. Era il 1995, non c’era internet. Per spedire un manoscritto ci si doveva informare. Poi telefonare agli editori. Posso spedire un manoscritto? Le risposte non incentivavano.
Seconda ragione. Ci tenevo, certo che ci tenevo, a scrivere un libro. Era uno dei sogni della mia vita. Ma un sogno l’avevo già realizzato: laurearmi in lettere viaggiando e lavorando – prima in fabbrica, poi come portiere di notte, poi giornalista – era stato, appunto, un grande sogno inseguito con rabbia e tenacia. Imparando a dormire 4 ore a notte. Rinunciando a cinema, passeggiate, tv. Per anni. Mi fermo.
Ma c’è una terza ragione che aveva bloccato la mia scrittura. Tutto quello che scrivevo – poesie, testi teatrali, inizi di romanzi o racconti – poi, nella rilettura, non mi piacevano. Per niente. Avevo (l’ho scoperto poi) un male comuni a tanti aspiranti scrittori: mi avvitavo su me stesso. Sul mio ombelico.
Finché una sera…
Ho mail di denti. Dopo la laurea ogni sera esco. Vado a giocare a bowling, sport che pratico a livello agonistico. Non sono un campione ma me la cavo. Faccio anche tornei all’estero. Così mi distraggo dal lavoro nelle redazione del giornale La Sesia (dove firmavo le inchieste più scottanti, quelle che mi portarono a conoscere Marco Travaglio, Massimo Novelli…)
Ecco, una sera però ho un mal di denti fortissimo. Così – invece di guardare la tv – prendo lo sdraio e un bloc notes e comincio a dialogare con me stesso.
Mi dico: È da un po’ che non provi a scrivere una storia…
Mi rispondo: Tanto lo sai come andrà a finire. La scrivi e poi, quando la rileggi, non ti piace e e così la distruggerai. Come sempre.
Dico altro a me stesso, però, quella sera, prima di mettermi a scrivere. Qualcosa di importante.
Dico, mi dico: Raccontami una storia.
Scrissi per un paio d’ore. Mesi dopo – era Pasqua, c’era una riunione familiare e io ero fuggito – mi ritrovo da solo in redazione, al giornale. Il bloc notes con la storia abbozzata l’avevo portato con me, ma non l’avevo riletta. Non l’avevo riletta pensando: Tanto poi la distruggerò, come sempre.
E invece leggo e, per la prima volta, mi piace quello che sto leggendo. Ho come la sensazione che non sia stato io a scrivere…
Infatti. Ero uscito da me stesso.
Anni dopo scoprirò Pontiggia, i suoi insegnamenti. Scrivere significa sorprendersi.
Quando avevo scritto l’incipit del libro non avevo la minima idea degli sviluppi che avrebbe avuto quello che stavo scrivendo.
Stavo scrivendo con la mano, non con la testa.
L’incipit.
Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.
Terminai di scrivere “Il quaderno delle voci rubate” prima del mio quarantesimo compleanno. Poi cominciai a spedirlo a editori vari. Non lo feci leggere ad amici o parenti. Non mi fidavo.
Ma vedendo che dagli editori o non arrivavano risposte o arrivavano solo risposte negativo cominciai a vedere nero. Non solo all’altezza, pensai.
Un giorno mi viene in mente di fare una cosa. Di far leggere il manoscritto a una scrittrice di Vercelli ma che lavorava a Milano: Laura Bosio. Non ci conoscevamo personalmente. E comunque. Le inviai il manoscritto scrivendole (più o meno) così: Pensa che posso continuare a scrivere? E questo manoscritto? È da buttare oppure no?
Mesi dopo sono al giornale. La segretaria mi passa una telefonata. È Laura Bosio. Mi dice che il libro le è piaciuto, tanto. Poi mi dà alcuni consigli, c’era qualcosa da rivedere infatti. Infine mi dice che devo spedirlo a qualche piccola ma valida casa editrice (forse Interlinea di Novara).
Ne parlo al giornale. Direttore ed editore mi dicono. Dal momento che c’è il parere favorevole di Laura Bosio possiamo pubblicarlo noi, dal momento che La Sesia è anche una casa editrice…
E così fu. Un migliaio di copie de “Il quaderno delle voci rubate” nel 2002 andarono agli abbonati del giornale La Sesia.
Altre, furono messe in vendita.
L’anno successivo, il 2003, scriverò Dicono di Clelia, inviandolo a Mursia. Che mi pubblicherà (nel 2006, però).
Infine.
“Il quaderno delle voci rubate” è stata ristampato due anni fa da I buoni cugini, casa editrice di Palermo.
L’ho cambiato. Sono diversi i primi due capitoli, diverso il finale e altro. La sento più mia questa seconda edizione.
Due cenni sul libro. Racconta la storia di un uomo che torna al suo paese e riapre la locanda del nonno. Un giorno, nel vecchio bar, una studentessa dimentica un quaderno nero, dalla copertina lucida. Il protagonista – si chiama Luca Baldelli, ha sessant’anni – comincia a scrivere cose. Per esempio, le voci che sente dai suoi clienti e che si confidano senza fare caso a lui…
Ecco un estratto.
Mentì anche quell’uomo, con un solito “Bene grazie” che mi diede lo spunto per scrivere altro. La sua fu la prima voce.
Arrivò solo. Avrà avuto fra i quarantacinque e i cinquant’anni, non di più. Era distinto, eppure avevo la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di strano.
Comunque aveva una faccia simpatica, da persona importante; importante ma cordiale. Oramai ci ho fatto il callo, io: i gasati li annuso subito. Quell’uomo poteva essere un bravo medico, di quelli che pensano a curarti e non alla parcella, o uno scienziato, un pianista, uno scrittore. Esclusi che si potesse trattare di un politico: è una razza, quella, che, difficilmente ha dell’umanità negli occhi. Ordinò una birra bionda, alla spina.
«Se vuole, gliela porto al tavolo.»
«La ringrazio, ma preferisco sgranchirmi le gambe, sono stato seduto per ore al volante.»
Poi, senza che io gli avessi domandato altro disse: «Sto attendendo una persona.»
Aveva l’aria di uno che non vede l’ora.
E in effetti continuava a guardare il vecchio pendolo, vicino alla porta d’ingresso. Dopo un po’ si decise. Ordinò un’altra birra e si accomodò in fondo alla sala, lontano da me, quindi, e da Benito e Francesco, due pensionati che, in un tavolo vicino al banco, concentratissimi giocavano a dama.
Era un afoso pomeriggio di luglio di quattro anni fa, e quell’uomo era madido di sudore. Ricordo che ogni tanto si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco che aveva nella tasca interna della giacca color blu notte, appoggiata sulle spalle.
Arrivò la persona che aspettava. Era una signora piuttosto anziana, poteva avere una settantina d’anni portati molto bene, tutta ingioiellata e profumata. Vestiva un completino viola, il mio colore preferito. Appena la vide le andò incontro. Si abbracciarono e si baciarono con affetto.
«Allora Sandro, come va?» disse lei.
«Bene grazie.»
Si sedettero, sempre nello stesso tavolo.
La signora, dopo aver ordinato un bicchiere di acqua naturale, mi domandò se avevo qualcosa di solido – «e di gustoso» specificò – da mangiare. Proposi della crostata di mele fatta in casa.
«Anche se sono fuori orario, devo ancora pranzare. Che ne direbbe invece di un bel prosciuttino crudo magro, oppure meglio: ha della buona bresaola?»
«Ho una bresaola squisita.»
«Benissimo, mi faccia un bel panino e me la condisca con limone, olio di oliva e tanto pepe; mi raccomando il pepe, ho uno stomaco di ferro, sa?» disse con un bel sorriso.
Quella signora elegante e disinvolta emanava vitalità. L’uomo invece pareva inebetito, stanco. Fissava il vuoto.
«Gradisce un’altra birra?»
«Come scusi? Ah sì, grazie, un’altra alla spina va benissimo.»
Quando tornai dalla cucina con birra e bresaola i due pensionati, che avevano terminato la loro partita a dama, si erano spostati nell’altra sala del bar, la più piccola, che è più ventilata perché dà sull’esterno dove c’è un piccolo spiazzo dove una volta mio nonno coltivava rose e pomodori.
Col vassoio mi avvicinai al tavolo dei due clienti venuti da chissà dove; l’uomo, che stava parlando, mi dava le spalle. Non badò a me. Il tempo di avvicinarmi, di posare il vassoio sul tavolo e di allontanarmi mi fu sufficiente per ascoltare.
«Non mi ha sentito rientrare, non sapeva che io fossi in casa. Per puro caso, sento che dice: Tu almeno hai un padre che è qualcuno, il mio è una nullità. Anzi no, ha detto di peggio; ha detto: Tu hai un padre che è qualcuno, il mio non vale un cazzo. Ho pensato: starà imitando qualche comico, di sicuro non si sta riferendo a me. Però volevo esserne certo. Così, senza fare rumore lo raggiungo. Non stava imitando nessuno: steso nel letto, stava parlando al telefonino con un suo amico, credo. L’ho visto per un attimo, lui non si è accorto di me perché aveva il braccio che gli copriva gli occhi.»
Posai velocemente il vassoio sul tavolo, poi, a testa bassa, con la sensazione di avere addosso lo sguardo della signora, mi allontanai. Ma feci in tempo a sentire un’altra breve frase, sempre di lui: «Sono giorni che ci penso, ci penso e piango.»
Anch’io, come quell’uomo che non vidi mai più, avevo sentito per caso.
Fu la prima “voce” che segnai nel quaderno dopo la pagina bianca dei “Come va?”
Ne capitano poche di “voci” così. Una, massimo due in un anno.