Cigliano, il gatto, un estratto de La suora

Ieri sera ho presentato La suora alla Biblioteca civica di Cigliano.

Bella presentazione, grazie a Simona Matraxia che mi ha “interrogato” sul libro, al personale della biblioteca, ai presenti, compreso un gatto (vedi foto sotto) che è apparso mentre parlavo (lo hanno fotografato, io non me ne sono accorto).

Mi piace improvvisare, durante le presentazioni.

Difficilmente leggo pagine dei miei libri. Ieri sera, invece, ho letto un breve estratto da La Suora.

Questo.

È fredda questa notte di primavera del 1945, ma alla ragazza non importa, altrimenti si abbottonerebbe il cappottino nero, che sua mamma ha rivoltato. Una ragazza così giovane non dovrebbe andare in giro di notte. La guerra è finita, ma è ancora tempo dei regolamenti di conti, di bande di falsi partigiani, di caccia al fascista, al delatore, al fiancheggiatore che ora nega tutto. Per le strade deserte si respirano odio e paure. È tutto diverso ora. La folla che un anno addietro faceva a gara nel cercare di stringere la mano al prefetto massacratore di ebrei e partigiani, adesso applaude il Comitato di liberazione nazionale. Viva i partigiani, viva i garibaldini: ciak si gira un nuovo film.
La ragazza, ora, cammina radente al muro, c’è solo lei che si sta aggirando sotto i portici della piazza, deve stare attenta. Non dovrebbe essere lì, lo sa bene. Lo ripetono ogni giorno, con l’altoparlante.

«Per disposizione del Comando Militare Alleato il coprifuoco ha inizio alle ore 23 e avrà termine alle ore 5. Per circolare durante il coprifuoco occorre un permesso rilasciato dal Questore. Fanno eccezione le pattuglie di partigiani e quelle della Polizia.»

Se la fermeranno si inventerà qualcosa, non ha paura di loro. È angustiata da altro. Dicono tutti che lui è morto, ma lei non si vuole arrendere perché sente che non è vero. È appena stata dove c’era l’altalena, è lì che si sono conosciuti, è uno dei loro posti segreti. «Camilla, non dirlo a nessuno che te la facevi con quello là» le ha detto sua madre, ma non c’è stato verso: continuerà a cercarlo di giorno e di notte.

Sulla destra, il gradito ospite

La ballerina francese: una storia vera che non sembra vera

In un night, io, non sono mai entrato. Quando vedo un’insegna, quando leggo night ripenso a lei. E a una delle mie notti da portiere di notte.

Sembrava una statua greca. Lineamenti bellissimi, occhi e capelli neri. Elegante, anche un po’ austera nel vestire. Dicevano che aveva già cinquant’anni, ma ne dimostrava dieci meno.
Ed era gentile con tutti. Sempre sorridente.
Stentavo a credere che facesse la ballerina nei night.

Che ballasse e si spogliasse, anche.
In più night. Che si erano messi d’accordo e avevano ingaggiato la ballerina francese: una serata per locale., così da divedere i costi.
La ballerina francese era cara. I locali si riempivano per vederla.
Nessuno mai mi raccontò un suo spettacolo. O meglio: non chiesi nulla a chi la vide. Non m’interessava.
Arrivava in albergo verso le due di notte accompagnata da un taxi, mi chiedeva le chiavi della sua stanza, mi salutava con un sorriso e con una mancia.
L’ultima sera che la vidi, era una domenica, però, non mi sorrise.
Verso l’una di notte arrivano due tipi. Mi chiedono della ballerina. Arriverà tra un’ora, rispondo. Avrei avuto un’ora di tempo per studiare un libro di Machiavelli, o per dormire. Il giorno dopo avevo lezione. (Corrado Vivanti, storia delle dottrine politiche; tra i miei compagni c’era Marco Travaglio): Quei due tizi, però, mi dissero: Aspettiamo qua.

Li mandai a quel paese, mentalmente.
Infatti mi chiesero da bere, poi cercarono di attaccare bottone, poi mi chiesero di telefonare… Niente Machiavelli, niente relax che ti concede la notte quando fai il portiere di notte. Alle due, puntuale, la ballerina francese arrivò.
Dopo due minuti arrivò anche un terzo uomo, amico dei due. Più anziano. Cappello in testa. Faccia da leadr, faccia più rassicurante rispetto agli altri due.
Iniziò la contrattazione.
Lultimo arrivato stava in disparte. furono gli altri due a parlare.
– Quanto vuoi? Ti basta un milione e mezzo?

(Mezzo milione per ognuno di voi, pensai…)
(Era l’anno del signore 1986, mi pare che io guadagnassi cinquecentomila lire).
E lei: – Signori ho sonno.
– Dai, non tiriamola per le lunghe, due milioni… ultima offerta, perché sei tu.
Silenzio. Li guardava, inespressiva. Calma.
– Allora, hai sentito? Due milioni.
Ancora silenzio. Il suo volto però era diverso, serio, a un certo punto della notte, con un cenno, mi indicò la chiave della sua stanza.

Volevo dirle: c’entro niente, io, ma non guardava verso di me. A testa alta, fissava i suoi interlocutori.
Mentre il tipo che contrattava,continuava a insistere (due milioni per un’ora, massimo due ore. quando mai li guadagnerai?) lei ticchiettava nervosamente con la chiave della stanza sul balcone.
Si sta facendo tardi. Il cointrattatore tenta l’ultima carta. Si volta, guarda il terzo uomo che gli fa un cenno d’assenso col capo.
– Senti, facciamo una cosa. Saliamo su da te ma prima t diamo tre milioni, te li diamo subito, hai capito?
– Siete voi che non avete capito. Io voglio sole le mie lenzuola, buona notte signori – disse, e poi se na andò, girando le spalle. La osservai mentre aspettava l’ascensore. La ballerina più bella, che non sembrava una ballerina da night.
Non feci caso ai tre che guadagnarono l’uscita.
Erano le tre, mi feci un caffè, fumai una sigaretta, mi accomodai sulla poltrona. Per due ore potevo rilassarmi. Pensando alla ballerina francese.

Ci ripenso ancora, qualche volta. Una storia vera che non sembra vera.

Un ladro che non aveva la faccia da ladro

Storie che non ho mai raccontato in un romanzo: sono vere, sembrerebbero inventate. Da romanzo. Da non credere.
Ne ho due (forse tre).

Il ladro e la ballerina.
Il ladro è un ricordo della mia direzione del giornale La Sesia.
La ballerina (un ricordo della mia esperienza come portiere di notte) la racconto domani.
Poi (sempre epoca portiere di notte) c’è il racconto sulla prostituta: che invece sembrerà qualcosa di già visto.

Parto con il ladro. Ho gli appunti che scrissi il 24 novembre del 2006.
Scrissi.


E successo pochi giorni fa.
Un uomo di mezza età, né alto né basso, né bello né brutto, si presenta in una piccola banca e, arrivato il suo turno, mostra un foglio alla cassiera.
«Questa è una rapina, mi dia l’incasso, sono vittima degli usurai.»

La cassiera lo guarda. Ha un difetto, o un pregio chissà, quell’uomo: ha la faccia di un buono. Non fa paura. Non sembra nemmeno uno fuori di testa. E uno che non sembra niente, ecco.
Così la cassiera gli dice: «Mi spiace la cassa è chiusa.»
Lui allora risponde: «Va bene, allora vado via.»
E scappa.
Ora lo stanno cercando.
Se lo beccano è comunque tentata rapina.
Delle balle, ma tentata rapina è.

(Forse non lo presero. Mai saputo. L’articolo, un trafiletto, è stato pubblicato su La Sesia)

Scrivi, sorprendendoti

Sono tornato a trovare Nora.
O suor Beatrice.
Ieri sera, infatti, era a Orta, per una diretta instagram sul mio libro La suora.
A Rosangelo Colombo (profilo instagram @roseange.eventi) ho raccontato come è nato il personaggio, come è nato il libro.

Una sera di marzo del primo lockdown sono in giro con il cane. Una città morta, come tutte. Camminando, penso che mi vorrei essere a Orta, davanti al lago. Vado spesso a Orta e Orta compare in alcuni miei libri. È il luogo del Piemonte a cui sono maggiormente affezionato. Mi piace andarci nei giorni anonimi, con pochi turisti.
Quella sera, dicevo. Inizio a scrivere e creo il personaggio di Romolo Strozzi.
L’ho chiamato Romolo perché volevo stare lontano da me. Io vico al nord e sogno di vivere in una località di mare, magari in Salento. Romolo Strozzi, invece, è un pugliese che fugge dalla Puglia e dal suo passato per vivere in Alta Valsesia.

Il primo capitolo de La suora – ambientato a Orta – è la storia di un incontro. Mentre scrivevo le prime pagine e scrivevo i dialoghi non sapevo ancora che Nora, alla fine del capitolo, avrebbe sorpreso Romolo.

L’estratto del libro.

Scopro che dietro a quel visino da ragazzina c’è una donna: Nora ha appena compiuto trentasette anni, ha nove mesi più di me.
«Te ne davo ventotto, massimo ventinove…» le dico, e sono sincero.
Arrivò il quinto e ultimo pensiero: adesso ti bacio.
«Anche io sto per cambiare vita» sussurra, abbassando gli occhi. Ma poi la rialza. Il suo viso, adesso, è un volto fiero.
«Tra un mese diventerò una suora dell’ordine benedettino. Andrò a vivere nel monastero dell’isola di San Giulio.»
Mi manca il fiato, «Ah, ho capito» dico. Poi devo avere aggiunto altro, parole inutili che non mi importa di ricordare.
«Ah ho capito» è l’ultima frase di un film con un finale che non ti aspetti.

Da Orta, diretta instagram

Fotografie di Viviana Martoccia

Romolo Strozzi, protagonista de La suora, conosce Nora il 24 gennaio 2010 a Orta. E’ un lunedì, è tarda sera, ci sono loro e la nebbia. Parlano per un paio d’ore, forse di più. Prima di salutarsi perché si è fatta notte, e proprio mentre Romolo Strozzi sogna di passare la notte accanto a Nora, lei gli dice che presto diventerà una suora di clausura…

Oggi martedì 26 aprile sarò a Orta, alle 19, per una diretta instragram con @roseange.eventi.
(Rosangela Colombo).
Sarà un po’ come essere Romolo Strozzi che torna dove ha conosciuto suo Beatrice, che lui si ostina a chiamare Nora.

Libri miei: incipit e un’ultima frase, importante

A proposito di incipit. Miei.
L’ultimo, quello de La suora. C’era l’incipit, ma non mi piacevano le prime frasi. Appena scritta mi son detto, Va bene. Introduce il libro e il personaggio principale.

Le ossessioni non sono mai belle, eccetto Nora.

Penso di averla scritta dopo la prima stesura. Ma l’incipit, che in assoluto, preferisco, è quello di Bastardo posto.

Sotto i portici, di notte passate le tre, il manichino nudo e senza sesso del negozio d’abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda.
È una notte di marzo. Sta diluviando.
In questo momento Paolo Limara, fissando la vetrina col manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi. Non l’ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo. Fissando le palpebre di plastica, socchiuse e spente del manichino, è successo che Limara ha visto i suoi, di occhi, persi come due monete nel tombino, bersagliato dalla pioggia e che, proprio adesso, è stato scosso violentemente da un’auto in corsa.

Non ricordo quando lo scrissi, questo incipit; di sicuro non quando cominciai a scrivere il romanzo.
Fu invece la prima cosa che scrissi l’incipit del mio primo libro, ora ristampato con il titolo: Il bar delle voci rubate).

Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.
È un bar d’altri tempi, questo, con qualche trasgressione: un televisore, un telefono a gettoni, un biliardo e un vecchio flipper. Ma il banco è più vecchio di me, i tavoli e le seggiole son tutti di noce.

Poi c’è La donna di picche. Ha due incipit: del prologo e del primo capitolo. Ma de La donna di picche io ricorderò sempre l’ultima frase. È una frase che mi ha accompagnato nelle notti insonni dell’ultima stesura. Un mantra, quasi.

Sono la donna di picche quella che non dimentichi.

Portiere di notte

Per tre anni, ho fatto il portiere di notte. Un lavoro particolare. A volte ho scritto qualcosa, qualcosa di vero. Per esempio questa cosa qua…

Ha cominciato a lavorare da poche ore, il nuovo portiere di notte. E spaesato nel grande albergo di lusso. Spazi infiniti, ascensori, passaggi che non conosce.
Gli hanno fatto vedere come si registrano i documenti, come funziona il centralino telefonico, come si imposta la sveglia per i clienti, come si fa con chi paga con carte di credito. E altro. E tutto questo in due, tre ore. Poi – lui non se l’aspettava – lo lasciano da solo.
E un po si preoccupa, lui. Di schiacciare qualcosa che non va, di dover parlare in inglese (lo sa, ma andava male a scuola), in francese (dieci, dodici parole), in russo (son cavoli), ha paura di far casini insomma. Per esempio con l’aria condizionata. O con limpianto di filodiffusione. O con la cassaforte.
E tutto un mondo strano. Eppure tanta gente, lì, è di casa.
Come negli aeroporti. Cè chi sa e va spedito, cè chi vaga spaesato.
Lui è spaesato, anche alcuni clienti lo sono. Pochi.
Il portiere di notte ha con sè un libro. Machiavelli. Studia lui. E per questo che ha accettato il lavoro. Gli avevano detto che se vuole, di notte, può dormire. Lui deve studiare. E il lavoro ideale, insomma.
Qualcuno suona, saranno le tre di notte.
Vogliono una stanza.
Un signore sui sessanta, una prostituta con lui, che fa di tutto per farti vedere che è una prostituta: fa ruotare la borsa, canticchia, guarda l’uomo con uno sguardo affatto bello. Come a dirgli: Non vedi l’ora, eh?. E l’uomo, quasi intimorito, ha la testa bassa.
Il portiere di notte, educato, chiede: Desiderano la sveglia?
(Vuol vedere se ha imparato).
L’uomo, però risponde: Facciamo in fretta, noi.

Fanno in fretta. Neanche un’ora.
Scendono, l’uomo paga.
Ma è cambiato tutto.
La borsetta bianca della prostituta sembra che possa cadere da un momento all’altro. La mano della prostituta sembra stanca, sembra trascinarla quella borsetta bianca.
Anche i volti sono diversi. L’uomo ha l’espressione di uno che è soddisfatto, la donna sembra vergognarsi quando, il portiere di notte, educato, saluta.
Li vede uscire. E sente: l’uomo sta fischiettando.

L’acqua, le lucertole volanti, Nora

Parlo con l’acqua e, di notte, anche con Nora, ho la fissa delle caviglie delle donne, la gelatina mi fa vomitare e non ho mai usato un preservativo perché mi ricorda la gelatina, ho scelto di farmi adottare da una Valle che con le mie radici non ha niente ma proprio niente da spartire, e mi è rimasta la paura delle lucertole perché quando ero piccolo avevo una cazzo di zia che mi diceva che dovevo stare bravo altrimenti sarebbero arrivate le lucertole volanti, e a me questa cosa delle lucertole che volano mi è rimasta impressa per anni e ancora adesso che di anni ne ho un bel po’ non se n’è andata del tutto, accidenti a quella zia, che poi era giovane, mica una vecchia acida. Insomma, di stranezze ne ho un vagone. La più grande, la più inspiegabile è lei. Nora.

Perché ho fatto il copia incolla di questo estratto de La Suora.

Perché a gennaio, al Circolo dei lettori (Torino), davanti a una decina di persone, chi mi presentava ha scelto di leggere questo brano. E poi ha detto cose molto belle su La suora, insolite.
Sto parlando di Federico Audisio Di Somma, scrittore. Che questa sera presenterà il suo nuovo libro, “Pan”, a Vercelli.

Ci sono giorni

Ci sono giorni avvolti dal senso di inutilità, e non sai ribellarti.
Così ripensi ai giorni che contano. E ti chiedi: quanti ne ho vissuti?

Così ripensi ad alcune canzoni.
Quasi quasi mi faccio uno shampoo, di Gaber.

No, meglio una frase di Cristina Campo: “I giorni passano così in fretta, così lenti”

Pasqua, pensieri a cavolo

Io comunque preferisco Natale. A Natale mi regalavano libri, quando ero piccolo.
Pellirosse in armi, per esempio.
Non ho ricordi precisi e belli di Pasque passate. Sì, riunioni familiari dalle quali, spesso, fuggivo. Non per altro: a un certo momento sentivo il desiderio, forte, di silenzio.
A volte, nel giorno di Pasqua, ho scritto: per fuggire da tutto, anche da me stesso.
Oggi non so. La giornata, qui a Cortona è una giornata di sole e vento.
Pellirossa in armi e Betty Zane, comunque, sono letture che mi sono rimaste.
Pellirosse in armi mi spiace averlo regalato. A volte regalo libri, libri a cui tengo. Pellirosse in armi però l’ho regalato alla persone sbagliata. Chissà perché, ma oggi mi è tornato in mete sta cosa.
Certi libri restano. Quello che è rimasto più di tutti è Il male oscuro di Berto.
Quando lessi Pellirosse in armi avrà avuto quindici anni e, da grande, pensavo che avrei fatto il cowboy amico degli indiani.
Quando invece ho letto Il male oscuro di anni ne avrò avuti 36, 37. Ricordo che, leggendolo, pensai: se un giorno diventerò uno scrittore la mia storia sarà simile a questa.
Un male oscuro. O un vizio assurdo, anche.
Pensieri in libertà, fumando la sigaretta elettronica (alternata a qualche sigaretta, tre al giorno, massimo quattro. Però rimpiango la pipa…).
Buona Pasqua, comunque.
Nell’uovo ho trovato un po’ di pensieri a cavolo.

Pubblicherò un libro, sorridere, poi piangere

Ero il direttore della testata storia di Vercelli (La Sesia) e scrivevo libri, anche. Un giorno sono al giornale. La segretaria mi dice che c’è un ragazzo che vuole parlarmi (non mi piacciono gli appuntamenti: quando potevo ricevo, se non potevo dicevo di tornare).
Ho tempo, lo ricevo.
Ha stampato sul volto il sorriso di una persona felice. Non dimenticherò mai quella sua espressione da… bambino. Certe espressioni ce le portiamo appresso finché morti non ci separi dal mondo.
Lui era felice.
– Pubblicherò un libro, mi dice.
– E dal momento che so che anche lei è uno scrittore, mi piacerebbe essere intervistato da lei quando il libro esce.
– Volentieri, ma…
Cominciai a fargli domande. Casa editrice, che non avevo mai sentito, Contratto. Candidamente mi dice che pagherà qualcosa «ma il mio professore mi ha detto che si pubblica se si è raccomandati oppure se si paga…».
Un docente universitario gli avevo detto questo.
– Fammi vedere il contratto, gli dissi.
Andò a casa, me lo portò. Solito contratto truffa. In cambio di tanti soldi, tot numero di copie che poi devi vendere tu.
Non aveva ancora pagato, lo convinsi a non farlo.
Giorni dopo sul suo profilo facebook lessi una frase, provo a riportare quel che mi ricordo:
– Mi hanno preso in giro, mi hanno fatto sognare.
Non l’ho più visto né sentito. Non ricordo nemmeno il suo nome.Mi avesse chiesto di leggere il manoscritto l’avrei fatto.
Non lo dimenticherò. Felice nell’annunciarmi che sarebbe diventato uno scrittore, sul punto di piangere quando gli avevo spiegato che l’avevano preso in giro.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: La donna di Picche, La suora, la voglia di scrivere che è andata via (puntata 11, l’ultima)

Ultima puntata.

Allora, dopo aver pubblicato un po’ di libri nel 2014 staccai da giornalismo e narrativa. Candidato sindaco, poi consigliere comunale, poi assessore. Nel 2016, però, sbatto la porta e saluto.

In quegli anni avevo letto poco e scritto niente o quasi.

No, qualcosa riscrivevo: un giallo. Gli ultimi amori di un poliziotto per bene.
Però avevo perso i pochi ma importanti contatti che avevo. Ed ero sprofondato nella moltitudine degli scrittori di serie D e C.
E comunque, di quel giallo ambientato a Torino, avevo fatto invii vari. E avevo ricevuto o dinieghi o risposte da case editrici che non mi convincevano.. Nell’arco di una settimana (autunno 2016) si fa viva la mia agente (ora ex: preferisco fare da solo) che mi dice: «Guarda che Fanucci è interessato a pubblicarti.»
Non mi sembrava vero. Fanucci è un ottimo editore. Ben distribuito, paga anche degli anticipi (piccoli anticipi li avevo ricevuti anche da Perdisa). Fanucci vuol dire risalire, vuol dire serie C o anche B (ho visto una graduatoria che lo inserisce tra i primi trenta editori italiani).
Succede questo, però.
Rileggo il libro e non, rileggendolo, vedo che non mi convince. In dieci giorni lo riscrivo e lo rimando a Fanucci, precisando: «Prendete in considerazione questa versione.»
Poi arrivano due giorni folli. La mia agente mi chiama, sconsolata: «Sembra che non siano più interessati», poi, nell’arco di poche ore, mi richiama: «No, ti pubblicano».
Li avevo convinti inviando in extremis la versione riveduta e corretta?
Comunque, vado a Roma, firmo il contratto, conosco la mia editor (bravissima, da lei ho imparato tanto: Rita Feleppa) e scambio due parole con Sergio Fanucci. Che mi dà alcune dritte e mi propone di cambiare titolo: La notte del Santo.
Per me ci sta. È la prima volte che il titolo non lo decido io. Ma mi sembra un buon titolo, pertinente.
Quando sono davanti a Sergio Fanucci vedo il manoscritto: era la seconda versione. Quella inviata in extremis. Avevo fatto bene a riscriverlo in dieci giorni, insomma.
Il libro esce a le vendite vanno anche abbastanza bene. Al punto che, l’anno successivo, Fanucci mi scrive e mi chiede se sto scrivendo qualcosa. La mia risposta è affermativa. Stavolta ho il titolo in mente, e nessuno deve cambiarlo: La donna di picche.
Fanucci è un editore, diciamo, estroso.
Successe questo. Gli invia La donna di picche, versione uno, poi però mi venne in mente di apportare modifiche profonde, partendo dalla frase finale del libro.

Sono la donna di picche, quella che non dimentichi.

Notti e notti insonni per riscrivere il finale, anzi no, i due finali…
Invio così la seconda versione a Fanucci che non la prende bene, e mi dà una rispostaccia. Ma il lavoro definitivo non doveva essere il manoscritto che mi hai già inviato? Non si fa così.
Quando però legge la seconda versione (quella definitiva) però mi scrive una mail da incorniciare. Il libro gli è piaciuto, tanto.

Che La donna di picche sia un buon libro lo penso anche io. Spiego perché. Ne ho scritti quattordici, i tre che rileggerei (non rileggo mai i miei libri), sono Bastardo posto, La donna di picche e La suora, uscito da pochi mesi per Golem.

Il personaggio che invece preferisco è Anna Antichi, protagonista de La donna che parlava con i morti e Vegan. Le città di Dio.

Il libro ottiene alcune ottimi recensioni, lo presento al salone, insomma faccio le solite cose che si fanno quando esce un libro. Per esempio si rompono le scatole al prossimo su facebook. Forse faccio di più, stavolta….
Con La donna di picche, per la presentazione nella mia città, a Vercelli, mando delle mail di invito: mai fatto.
Credevo e credo ancora in quel libro. Che però ha venduto poco. Ci sta, anche se mi spiace, ovvio.
Era sbagliato il titolo, la copertina, cosa? Non lo so.

Intanto (siamo nel 2020) stavo rivedendo un libro scritto in passato: Forse non morirò di giovedì. Un libro che parla di giornalismo, un libro in cui, lo confesso, credevo poco.
E invece lo ha pubblicato Golem, mi sembra che sia andato bene e per la prima volta è anche successo che io abbia vinto un premio. Primo ex equo al Premio internazionale città di Cattolica.
Quando sono salgo sul palco del teatro di Cattolica, settembre dell’anno scorso, il presentatore dice: «Cosa si può dire di un libro che vince su duemila altri libri? Chapeau».
Io dico: «Ho scritto quattordici libri, è la prima volta che ricevo un premio, non credo che accadrà più. E come dice il proverbio… il primo premio non si scorda mai».

Intanto stavo scrivendo La suora, che ho proposto a Golem e che inizia così: Le ossessioni non sono mai belle, eccetto Nora.

Scriverò ancora, non scriverò più? Non lo so.
Anni fa questa domanda non me la sarei posta.
Anni fa non mi sarei mai chiesto “Cosa scrivo?” e “Per Chi scrivo?”, perché, anni fa, avrei scritto a basta.
Anni fa, ogni tanto, mi chiedevo: Sei uno scrittore?
Me lo chiedo ancora. Non mi interessa cosa significhi per gli altri, definirsi scrittore.
Per me significa vivere scrivendo, vivere, insomma, ma aspettando che vengano la notte il silenzio e le parole.
Questa attesa, adesso, mi manca.
Che dipenda dal fatto che non fumo più sigari e pipa ma son passato alla sigaretta elettronica? Scherzi a parte, spero che questo diario sia servito a qualcuno. È un diario che parla e quindi promuove un po’ anche i miei libri: ma vendere qualche copia in più non mi cambia certo la vita…

Un saluto a tutti coloro che passeranno di qui.

Link delle puntate precedenti.
1) Un “quasi scrittore” di serie D: LEGGI QUI
2) “Quasi diario: scrivere per fuggire lontano: LEGGI QUI
3) “Quasi diario”: scrivere sorprendendosi. Il mio primo libro: LEGGI QUI
4): “Quasi diario”: la magia della scrittura e il mio terzo libro: LEGGI QUI
5) “Quasi diario”: Parentesi sui manoscritti da inviare: LEGGI QUI
6) “Quasi diario”: Il terzo libro e un grave errore: LEGGI QUI
7) “Quasi diario” e la potenza di radio e tv: LEGGI QUI
8) “Quasi diario”. Libro annunciato poi bloccato, insomma un pugno allo stomaco che fa ancora male. LEGGI QUI
9) “Quasi diario”: il sogno infranto e la lunga pausa. LEGGI QUI
10) Quasi diario: Leggere e scrivere, sporcandosi la mani LEGGI QUI