Non dissi niente. Niente


C’è un libro di Boll che s’intitola E non disse nemmeno una parola…
Allora.
Il 18 agosto 2005 morì mio fratello Moreno. Da poco aveva compiuto trent’anni, era il più piccolo (19 anni meno di me, 10 meno di mia sorella Silvia).
Da pochi mesi dirigevo La Sesia.
Scrissi una lettera, per ricordarlo e, anche, per spiegare come era andata (vedi sotto, alla fine del post).

Il giorno in cui esce la lettera su Moreno, quando finisco di lavorare vado in pizzeria. C’è poca gente, son giorni di ferie, ancora.

Accanto a me c’è una tavolata di cinque, sei persone. A un certo punto sento che parlano del mio giornale. Una donna dice che non ci sono notizie, non c’è niente da leggere… Non posso non ascoltare: ogni critica, pensavo e penso, va sempre ascoltata, soppesata.
A un certo punto sento che ce l’ha con me. Dice.
«E’ morto tuo fratello, e a noi che cazzo ce ne frega se è morto tuo fratello…»

Non mi voltai a guardarla, non mi interessava.
Anche se quella lettera l’aveva scritta piangendo… non dissi nemmeno una parola.

(La lettera che scrissi e che ogni anno, il 18 di agosto, ripubblico: Clicca qui)

Ricordi di estati diverse

Ricordi d’estate, dai colori diversi.

Ho diciotto vent’anni, ho la patente ma non ho la macchina, mi piace leggere e fumare ma non ho soldi per comprare libri e sigarette, passo diverse ore al bar: in cambio di un caffè, e magari di quattro caramelle Sperlari da 5 lire, posso mettermi in coda per leggere La Stampa e Tuttosport e magari dare un’occhiata anche ai giornali locali, che però mi interessano poco.

Voglio finire le superiori, e poi trovare un lavoro che mi consenta di studiare, di andare al cinema anche due tre volte la settimana, di non chiedere soldi ai miei.

Sono anche stufo da passare le mie giornate chiuso in casa a leggere e le mie serate a tirar tardi parlando di niente – dagli amori impossibili al Cile di Allende che non s’arrende – con alcuni miei coetanei…

(Che poi, i coetanei, mai andato d’accordo: quando ero giovane li consideravo troppo coglioni, invecchiando i più li trovo rincoglioniti, vecchi, certo vecchio lo sono, anche io, ma me ne accorgo solo o quando mi guardo allo specchio o quando non riesco a correre perché ho la schiena a pezzi, cazzo, e comunque: torniamo alle estati e ai suoi ricordi.)

Poi ne ricordo altre, di estati. Ho la macchina nuova, non so mai quanti soldi ho nel portafoglio: per una vita li ho contati e memorizzati, doveva farmeli bastare, ora se il portafoglio è vuoto vado al bancomat, che è generoso con me. Mai guadagnato così tanto, dirigo un giornale, scrivo libri…

Un’estate mi ritrovo in casa di amici, in realtà non è una casa è una villa, una gran bella villa, e io sono ospite in una dépandance, e il mare è vicino, e nella villa c’è pure la piscina, così succede che una sera si mangi e si beva tra un tuffo e l’altro, con gente bella che sorride e ride e si diverte, e tutto va bene, anche perché il vino è buono e il cibo anche, ma c’è una voce che mi dice: Tu cos’hai da spartire con questo mondo e con questa gente?

Storie da raccontare, scrivendo

Do poco ascolto a critici es esperti vari che danno giudizi su libri e autori.
Ma in passato seguivo con attenzione cosa diceva di libri e autori Beniamino Placido, leggendo i suoi articoli su Repubblica.
Penso d’averlo letto tutti i giorni o quasi.
Parlava anche della tv che non guardavo. Lo leggevo in treno, andando in università. Di tempo per guardare la tv, io, non l’avevo allora (anni 80-90)
Ho bene in mente un suo articolo, che cercherò di riassumere. Un articolo in cui Placido parlò di televisione per arrivare poi alla scrittura.
Raccontò di una puntata di una trasmissione di cui ricordo solo che era condotta da Enza Sampò.
Succedeva questo in queste trasmissioni.
Un ospite si confessava, ma non lo faceva come ci abituerà poi la televisione spazzatura: si raccontava dietro un vetro da cui si vedeva solo un’ombra, e la voce, inoltre, era storpiata, irriconoscibile.

L’ospite della Sampò raccontato da Placido e che io lessi su Repubblica era un ex prete.
Raccontò di essersi spretato per amore di una donna. Punto.
Succede.
Anni dopo, l’ex prete comincia ad avere nostalgia della sua vecchia vita. Un giorno decide di fare un tuffo nel passato.
Sale su un treno, va in bagno, si veste con il vecchio abito da prete, poi esce, attende che il treno si fermi in qualche piccolo centro, scende e va in giro vestito da prete, lui, che prete non è più e che ha una moglie che l’aspetta a casa. E si ferma volentieri a parlare con chi lo ferma e si rivolge a lui come se fosse un prete. Dopo un po’, risale sul treno, dopo qualche minuto va in bagno e si riveste da laico.
In Italia, scriveva Placido, mancano gli scrittori che raccontino o traggano ispirazione da queste storie.
Mi servì leggere quell’articolo (che dovrebbe essere consultabile sull’archivio di Repubblica). Mi servì soprattutto quando scrissi il primo libro, ma mi serve ancora adesso ripensarci – insieme a cento altre cose.
E penso che tanti somigliano a quel prete spretato. Solo che non arrivano al punto di salire su un treno eccetera eccetera eccetera.

Il cane, i libri, le bollette e le albicocche

Porto a spasso il cane, così fumo mezzo toscano dopo il terzo caffè di giornata, sta invecchiando il cane (si chiama Blu), a novembre compie nove anni, lo presi in canile, lo scelsi perché aveva un occhio azzurro e un occhio marrone, non abbaiava mai, bene, ora abbaia in continuazione, ha paura del mondo, sta invecchiando ed è geloso del gatto, che è arrivato da un anno e un mese e che è rosso, rosso mal pelo, dispettosissimo quando arrivò, di notte faceva volare i libri della libreria, oppure scardinava quadri dai ganci, ora invece si è calmato, passa la sua giornata a guardare fuori, vorrebbe uscire, in giardino ci sono i merli…

Porto a spasso il cane e penso che devo tornare a casa a scrivere uno o meglio due pezzi di sport, penso anche che vorrei andare in libreria, l’ultima volta che ci sono andato ero indeciso, questo, oppure questo, oppure quest’altro oppure tutti e tre? Facciamo tutti e tre, poi, mentre andavo alla cassa ho pensato a due cose due: uno, ai tanti libri comperati e non ancora letti, due, alla bolletta gas, luce e acqua che è peggio di un brutto libro, perché sta qui, vicino a me e mi guarda: anno scorso, prime 3 bollette ho pagato 2; quest’anni prime 2 bollette, ho pagato 2. Da 2 diviso 3 a 2 diviso 2: che botta.
Insomma: i 55 euro che avrei speso in libri son rimasti sul portafoglio, destinazione fondo-bollette.

Cè un altro motivo perché compro pochi libri nella mia città.

Anni fa c’era una libraia che, quando uscivano, leggeva i miei libri e poi li esponeva in vetrina. Ora ho un estimatore librario, ma sta a un’ora di macchina da me, ma non dove vivo (Vercelli) ma ad Alessandria, ed è un casino per me: a me piace andare in libreria quando capita, passarci del tempo, leggere degli estratti, l’incipit? Non è poi così importante…

Ah lo volevo dire, lei dunque un uomo pacifico è? Ha perduto il treno?

Inizia così – e lo ricorderò sempre perché l’ho amato e recitato – L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Ma se ci ripenso, mica penso all’incipit: penso alle albicocche.

Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche: come le mangia lei? Con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà, si premono con due dita come due labbra succhiose… Ah che delizia.

Su Limina Mundi: Una vita in scrittura. Remo Bassini

Una vita in scrittura sul blog cultural/letterario Limina Mundi.

L’invito diceva questo: L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una biobibliografia, ma in libertà, l’ingresso della scrittura dentro la propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò di cui lo scrittore è “fatto

Ecco il mio intervento.


Scrivere, un atto di rivolta contro la realtà

Per me queste parole hanno un chiaro significato.

La letteratura ha una radice sovversiva, sempre, anche se l’autore lo ignora. Questo lo capì l’Inquisizione spagnola: per trecento anni furono proibiti i romanzi in tutte le colonie spagnole. Gli inquisitori dicevano che per gli indigeni i romanzi erano pericolosi, generavano inquietudine.
Una narrazione funziona quando a poco a poco scopri connessioni misteriose, che non sapevi esistessero. O quando certi personaggi secondari crescono e quelli che credevi importanti impallidiscono. Bisogna sapere ubbidire ai demoni che evochiamo (se riusciamo a evocarli).
Anche quando scrivo romanzi c’è la presenza della ragione, dell’idea, ma io faccio partecipare altri aspetti, i demoni che tutti abbiamo, i mostri, le passioni, i deliri.
Mario Vargas Llosa

PS: Da IlSole24 ore, 8 ottobre 2010: lo scrittore e giornalista Bruno Arpaia scriveva

anche adesso che le sue posizioni politiche sono passate dall’antico castrismo a un liberalismo a oltranza, lo scrittore di Arequipa continua ad affermare che «la letteratura ha una radice sovversiva, sempre, anche se l’autore lo ignora», che «lo scrittore è un dissidente che crea vita illusoria perché non accetta la vita e il mondo così come sono», che «la sua opera è sempre un deicidio segreto, un atto di rivolta contro la realtà».

In chiesa: Uno sconosciuto, un mazzo di rose, un biglietto

Era il 2003, io ero caporedattore al giornale La Sesia.
Un giorno arriva una strana telefonata.
Un uomo piuttosto anziano si presenta, mi dice che ogni domenica pomeriggio va a messa in Duomo e poi mi racconta che lui e un gruppo di una dozzina di fedeli, da un paio di mesi, durante la funzione assistono a un fuori programma, .
Arriva un uomo, anche lui avanti con gli anni, che nessuno conosce. Si accomoda davanti, vicino all’altare, durante la messa prega intensamente, inginocchiato, poi, alla fine, se ne va lasciando un mazzo di rose.
Succede una volta, due volte, tre volte, poi il mio interlocutore e il gruppetto di fedeli decidono di vedere dove va, quando esce. Va alla macchina, una vecchia Fiat 500 nera targata Milano.
Mistero.
Alla quarta volta – mi racconta il mio interlocutore – lui e gli altri vanno ancora più a fondo. E prendono quel mazzo di rose. Dentro c’è un biglietto.
“Anche oggi ti ho aspettata…”.
Voi che siete il giornale locale più importante perché non indagate su quell’uomo?, mi dice il tipo.
Pensai: Saranno cazzi suoi, no?
Gli risposi: Quell’uomo è libero di sentire messa, pregare, lasciare un mazzo di rose con un biglietto. Un giornalista non si fa i fatti del altri.
Il tipo ebbe da ridire (tutti ne parlano, perché non approfondisce?), lo salutai.
Non seppi più nulla e non andai mai a vedere.
Ma è come se l’avessi visto, quell’uomo. Ogni tanto lo rivedo…
Quel racconto mi diede lo spunto per scrivere Dicono di Clelia.
Clelia è una giovane donna che diventa prostituta per caso.
Aveva da tempo in mente di scrivere una storia con, protagonista, una prostituta. Una di quelle conosciute durante gli anni in cui feci il portiere di notte in un albero. Una che incontro ancora adesso, per strada. Mi saluta, non ci siamo mai parlati. Non sa di essere… Clelia. E non sa che un uomo, ogni domenica, l’aspettava, pregando e con un mazzo di rose blu.

Una macchia di sangue sull’asfalto, e un gatto

Domenica 27 aprile 2008, in auto, da Vercelli a Montemagno (andavo a trovare un amico). Il cielo era grigio, c’era traffico in quelle strade del Monferrato astigiano.
Lo vidi, stava morendo. Con la dignità che solo i gatti hanno. Avevo un bloc notes, con me.

Per strada un gatto, bianco e rosso.
Accanto a lui, sull’asfalto, una grande macchia, di sangue.
Parrebbe adagiato, come usano fare i gatti quando dormono, ma la testa è eretta, pare staccata, non appartenere al corpo.
Fissa il vuoto, maestoso.
Sembra irreale, scolpito, di pietra.
Aspetta.
Piove, appena appena.

La ragazza che piangeva

Lo spunto.
Seduto a un tavolino di un bar di Alessandria, vide un giornale locale. Lui non era di Alessandria, lo prese forse per abitudine, per passare il tempo.
Cominciò a sfogliarlo.
L’occhio cadde su un trafiletto. Una prostituta, tornando a casa, era scivolata sul fiume, ed era morta annegata.
Una prostituta che muore così non è una gran notizia: basta un trafiletto.
che scivolò sul fiume a primavera
e il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra una stella…

La canzone di Marinella. De André raccontò come nacque l’idea. Uno spunto. In un bar di Alessandria (non citò mai il giornale, né il fiume: forse non li ricordava.)
Lui scriveva canzoni, lesse quel trafiletto con gli occhi di un cantautore.
Gli occhi dello scrittore devono fare lo stesso: guardare la vita, le persone, con occhi da scrittore. Per poi elaborare, scrivendo e riscrivendo.
E come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno
come le rose.

Si vede, si pensa a ciò che si è visto e poi, quello che si è visto, possiamo farlo accomodare in un angolo della memoria per anni.
Il mio giallo La donna di picche è la storia di un grande dolore. Ed è ambientato a Vercelli (addirittura in alcuni vie accanto a dove vivo).
Anni prima, mi era successo questo.
Sono a Firenze, ho cenato, devo tornare a casa. Per raggiungere l’auto passo sul Lungarno. E’ una sera di primavera, ormai è buio, ma il cielo è illuminato da luna e stelle, e poi c’è tanta gente che cammina e chiacchiera, e poi c’è la magia di Firenze e dell’Arno…
Ma ecco che incrocio una ragazza. Piange, incurante del cielo e dei passanti. Un pianto disperato, da piangere da soli, in una stanza. Oppure no: talmente disperato che degli altri non t’importa niente.
La vidi pochi secondi. Camminava veloce, piangendo. Disperata.
L’ho incontrata anni dopo, una mattina: era nella mia testa, eravamo a Vercelli. C’era nessuno in giro. C’ero io, c’era il mio cane, c’era il ricordo di lei.

Sono la donna di picche, quella che non dimentichi.

Ma gli spunti, da soli, non bastano. Flannery O’ Connor diceva che i migliori scrittori dipingono. Voleva dire che i migliori scrittori riescono, con la parola scritta, a colorare la pagina con immagini potenti e precise. L’attenzione per il particolare è di estrema importanza, poi, quando si scrive: solo chi ha osservato a fondo, con attenzione, riuscirà a spiegare e a spiegare bene.
Quando a vent’anni lavoravo in fabbrica volevo fare lo scrittore ma non avevo gli “occhi giusti”.
Se li ho, adesso, è cosa su cui mi interrogo.

A proposito di manoscritti

Al Salone del libro – non vado quest’anno, non ne voglia, ma un po’, confesso, mi spiace di non esserci – c’è anche un gran traffico di manoscritti.
Scrittori e agenti che parlano e propongono manoscritti o a piccoli editori (in genere, gli scrittori) o agli editor di grandi case editrici (in genere, gli agenti).
Si preferisce, insomma, parlare e spiegare, anziché inviare solo una mail.
Io non ho mai proposto un mio manoscritto al Salone, una mia agente, in passato, sì: a grandi editori, o a editori stranieri. È sempre andata buca.

I manoscritti sono un bel tema da affrontare.
Ci si potrebbe scrivere una raccolta di racconti.
Hai scritto per anni e anni un libro, ti dicono che quel libro non ha mercato, ha pecche, e tu ti senti morire, perché eri convinto di aver scritto un capolavoro.
Oppure. Un manoscritto così così, tanto così così, di uno scrittore così così che tu conosci bene e sai che è bravo nelle pubbliche relazioni, diventa libro…
Comunque non è vero che gli editori pubblicano soprattutto i raccomandati… Certo, se sono un editore che pubblica 100 libri all’anno ci sta che una decina siano così così. E tra un così così scritto da un idraulico e uno scritto da un giornalista magari scelgo il giornalista, a meno che non abbia urgenza di un idraulico che, guarda caso, sia anche scrittore.

Questa dove l’ho letta almeno vent’anni fa? Tuttolibri? Millelibri?
Storiella di un manoscritto.
Sottotitolo: l’abito fa il monaco, perlomeno nell’editoria.
Una scrittrice inglese di gialli un giorno viene a sapere che anche il suo giardiniere ne scrive, di gialli, ma dagli editori riceve sempre la stessa risposta: picche.
La scrittrice, che è anche un po’ birbona, allora fa un esperimento con il suo editore.
Una doppia spedizione.
Invia un suo manoscritto, ma con la firma del giardiniere, e invia il manoscritto del giardiniere con la sua firma.
Vince la firma.
(Magari aveva scritto un bel giallo lo scrittore-giornaliere, o forse no: forse era un giallo così così…)

Infine.
Quando iniziai a scrivere mi servì leggere questa frase: se hai scritto un buon libro insisti, prima o poi qualche editore ti pubblicherà. Magari non sempre succede (ci sono grandi autori che non sono stati pubblicati, basta pensare a Svevo che pubblicò, ma a pagamento, La coscienza di Zeno) ma a questa frase, chi scrive, ha l’obbligo di crederci.

Pensiero finale. Sui manoscritti la maggior parte della case editrici non fa un lavoro serio. Aumentano quelle che accettano solo le proposte di agenti. Si sa. Ma è anche vero che le case editrici vengono inondate di robaccia: gente che non legge, che non si confronta con autori contemporanei e del passato, che scrive senza la minima umiltà e che, in pratica, danneggia quei manoscritti che invece meriterebbero attenzioni.

Un grande giallista dimenticato

Nel 1978 esce Il caso Kodra, primo giallo di Renato Olivieri. Il protagonista è il Commissario Ambrosio (per la verità nel libro d’esordio è solo vicecommissario; poi Olivieri lo…promuoverà).
Ne usciranno altri e Olivieri riscuoterà un certo successo, soprattutto dopo il film “I giorni del commissario Ambrosio” con Tognazzi (ricordo però che Olivieri, quando creò il personaggio Ambrosio, pensava a Lino Ventura. Un Lino Ventura dai modi eleganti, un po’ inglese, ecco).
Negli anni 90 (anno più anno meno) i libri di Renato Olivieri, però, diventano introvabili.
Io lo conobbi scovandone due (Largo Richini e Maledetto Ferragosto) sulle bancarelle dei libri usati. Penso di averli letti tutti, poi, i suoi gialli. I miei preferiti sono L’indagine interrotta e Il caso Kodra.
Ritengo che Il dio danaro sia invece uno dei meno felici.
Il critico e scrittore Gian Paolo Serino, il 9 febbraio 2013, sulla sua pagina facebook scrisse:
Il grande scrittore Renato Olivieri, il padre del Commissario Ambrosio, è morto ieri pomeriggio a Milano. Un grande uomo. Quando anni fa per Repubblica gli chiesi come mai i suoi libri fossero tutti fuori catalogo mi rispose: “Non ho molto da dire. Quello che penso lo trovate nei miei libri. Che poi non si trovino è un giallo. Di questi tempi è più facile trovare un assassino che parlare con i capi di una casa editrice”
Oggi lo ricordo con una pagina su “Libero”.

Olivieri, infatti, è uno scrittore da ricordare. Sebbene i suoi libri, da qualche anno, siano stati ristampati, Olivieri continua a restare nell’ombra. Avete in mente o sapete di scrittori che ne parlino? Che ricordino i suoi libri? Sempre Serino scrisse (quando Olivieri morì, praticamente ignorato): e’ stato l’unico capace davvero di raccontare la Milano in giallo: i suoi romanzi sono quadri emotivi con atmosfere alla Sironi. Dei capolavori assoluti che nulla hanno a che vedere con la prosa scialba di Scerbanenco.

Un estratto de Il caso Kodra.

«Bonelli!» gridò. «Senti, esco per un paio d’ore, se mi cercano dì che torno alle cinque. Ciao».
Accese una Muratti, scese lo scalone della questura, in cortile aveva la sua Volkswagen Golf color erba (gli piaceva perché era una macchinetta di moda, come una volta la Mini, la R5). Faceva freddo, tre sottozzero secondo il Gazzettino Padano. Alzò il collo della canadese, poi salì in macchina.
“Sono anni che non vedo via Porpora” pensò.
Posteggiò di fronte a un bar, aveva voglia di un caffè.
«Lungo» disse. Era un uomo robusto, col viso segnato, i capelli folti tagliati corti, un’aria svagata,come se si portasse dietro un problema da risolvere, e pensasse a quello soltanto senza trovare la soluzione.
Uscì sulla strada.
Via Catalani non era cambiata, da come la ricordava. Camminava adagio guardando le case di un piano, colorate una diversa dall’altra. Un piccolo hotel (per fare l’amore al pomeriggio), una clinica (qui tolsero le tonsille a Guenzati, compagno di quarta ginnasio), la targa di un tosatore di cani.
Superò il numero 12 bis. Una cosa alla volta.
Guardò gli alberi neri di un giardino. In via Vallazze la nebbia era più fitta.
“Ci passavo in bicicletta” si disse.
Da quando Francesca l’aveva lasciato si raccontava le cose, da solo.

Renato Olivieri su Wikipedia (LEGGI QUI).

I giorni del commissario Ambrosio (LEGGI QUI)


Il giudice, il medium e la suora (dimenticata)

A Vercelli “forse” accadde (il “forse”è motivato dal fatto che non tutti sono d’accordo su come si svolsero i fatti) questo: nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, un gruppo di partigiani prelevò dal campo sportivo di Novara, dove si trovavano centinaia di fascisti, 75 persone, e le portarono a Vercelli, quindi le rinchiusero nel locale ospedale Psichiatrico e quindi, senza processo, le uccisero.
Le indagini furono affidare al giudice istruttore Gaspare Turco, che aveva la fissa per il paranormale. Per risolvere dunque il caso, si affidò a un tale che organizzò sedute spiritiche. Quando la notizia divenne di pubblico dominio, il Presidente del tribunale chiese a Turco di piantarla lì coi medium.

Nei giorni successivi però arrivò un rapporto della Questura. Stando al documento, una suora dell’Ospedale psichiatrico aveva assistito all’eccidio. Il giudice Turco la convocò immediatamente, per interrogarla. La suora però, tremante e impaurita, negò di aver assistito all’eccidio, e questo fece infuriare Turco, che decise di rinchiuderla in uno sgabuzzino, invitandola a rinfrescarsi la memoria.
Turco, poi, si assentò per sostituire un collega, dimenticandosi bellamente della suora.
Quando se ne rammentò, fu troppo tardi. Lui liberò la suora e il tribunale si liberò di lui.

(La vicenda è raccontata in un libro introvabile, Un gradino più su (storia di un giudice), di Giuseppe Rosco; sopra, c’è un estratto delle recensione che scrissi, a puntate, di Un gradino più su. Una recensione-racconto, o comunque spunto).

Aggiungo questo. Il libro Un gradino più su fu autoprodotto dal giudice, prima di morire. Andrebbe rivisto, certo, ma è un libro di grande interesse.