Like come fossero fiori

Obbligati a vivere tra password e collegamenti online.
Sempre più.
Tra like e faccine sorridenti, ogni giorno conosciamo gente.
A volte postiamo foto di sentieri in collina o di una spiaggia al tramonto.
Sono parentesi, solo parentesi. Il nostro smartphone comunque è nello zaino.
O in tasca.
Postiamo almeno una foto, una…
Ormai siamo tutti in trappola nella grande rete.
Generosa rete: foto, parole, poesie, complimenti, baci, abbracci, litigi, alleanze.
Sappiamo tanto.
Diciamo tanto.
Io penso questo: bravo, posso condividere?
FacebookTwitterInstagramWhatsappAppMail…. social alternativi.
La Dad. Telelavoro, telemedicina, telecazzate dovunque ti volti..
Certo. Non ci fosse stata la rete tante cose non le avremmo sapute mai.
Sappiamo tutto, forse. Di sicuro qualcuno sa tutto su di noi (non ci fosse stata la rete non saprebbero).
Comunque siamo liberi di postare selfie mettendo like come fossero fiori.
No, non profumano.
Sanno d’inganno.
E non sappiamo più scappare.
Per scappare ci vorrebbe una app.
Che mondo sarebbe senza le app?..
La rete.
La-re-te.
Le app.
Dai, colleghiamoci su zoom, è comodo, veloce, fa risparmiare tempo.
Intanto la vita scorre come l’acqua del fiume. Sempre più lontana.

“La notte del santo”: il mio libro dedicato a Torino e, appunto, al suo Santo

Oggi e domani a Torino si festeggia San Giovanni, patrono della città Il mio giallo “La notte del santo” (Fanucci editore) è appunto ambientato a Torino e il Santo è lui, San Giovanni Battista.
(Torino, dopo Vercelli, è la città del Piemonte che conosco meglio. È anche un libro-omaggio a questa città che ho “respirato” per anni, ai tempi dell’università e dove, ogni tanto, torno).

Un estratto.

Tutto iniziò la notte di san Giovanni Battista, patrono di Torino, tra il 23 e il 24 giugno.
Dopo la sfilata storica, la giornata si era conclusa con l’accensione, in piazza Castello, di una catasta di legna, con in cima il Toro, simbolo della città. Il grande falò, o Farò, si era spento nella direzione di Porta Nuova. Un buon auspicio per i successivi dodici mesi, secondo la tradizione. Ma quando la città si assopì, successe questo.
Alle quattro di notte, davanti a una palazzina di tre piani in corso Giulio Cesare e non lontano dal bowling De Agostini, una pattuglia della polizia stradale vide passeggiare una vecchia conoscenza: Augusto Labrocca, che gli agenti conoscevano come Augusto il cieco.
L’uomo, un barbone sulla settantina, non vedente ma sveglio e svelto di lingua, fu notato dai due poliziotti che pensarono di fermarsi, offrirgli una sigaretta, scambiare due chiacchiere. Non potevano certo immaginare che Augusto il cieco li stesse aspettando.
O meglio: non si aspettava che arrivassero così presto. Per questo rise, quando i poliziotti lo salutarono. Cieco, che cazzo hai da ridere?»
Rispose: «Dire alla polizia di avvisare la polizia fa ridere, no?»
«Ma sei sbronzo o che? Dì un po’, Augusto: quella bottiglia te la sei scolata adesso?»
No, la bottiglia ai suoi piedi aveva ancora il tappo. Non era ubriaco. Fece comunque fatica a convincere i poliziotti che, alle sue spalle, al primo piano, c’erano i corpi di due giovani, morti sgozzati.
«Non dovete nemmeno sfondare la porta, hanno lasciato aperto per voi.»

Novecento

Mi piacerebbe scrivere una storia sugli inizi del 1900.
Mi sento attratto da un passato che, in fondo, non è poi così lontano: mio padre e mia madre sarebbero nati 27 anni dopo, mio nonno paterno, invece, nel 1900 aveva vent’anni.
E a Vercelli, terra in cui son cresciuto, ci sono le nipoti delle mondine che nel 1906, dopo scioperi e scontri con i carabinieri a cavallo, dopo processi, dopo essersi stese sui binari della stazione, ottenere il primo contratto per le otto ore lavorative in Europa: prima, in risaia, si lavorava dall’alba al tramonto (oddio: anche poi, perché i contratti non furono rispettati e ci volle ancora tempo).
La vita tipo di una mondina era questa: sveglia alle 4 del mattino, poi a piedi raggiungeva la strada principale dove sarebbe passato un carro che l’avrebbe portata, con altre, sul luogo di lavoro.
Dalla monda alla raccolta del riso: piegate, nell’acqua della risaia, tra umidità e zanzare e, dietro di loro, lo sguardo attento della “capa”, che controllava e dettava i tempi: si inizia, si finisce. Se durante un turno, riusciva a far lavorare cinquanta mondine per un minuto in più erano cinquanta minuti in meno da pagare per il padrone, e così riceva una ricompensa.
La sera, prima che facesse buio, tornavano a casa le mondine. Quel che restava del giorno era dedicato a far da mangiare, badare ai figli, assolvere ai doveri coniungali.
Quando arrivava il periodo della monda c’era anche le mondine che arrivavano da lontano e che a volte rubavano i mariti alle mondine del vercellese.
Come parlavano, nel 1900, le mondine? Sicuramente in dialetto.
Come si vestivano si sa: stracci, ci son le vecchie fotografie.
Ma cosa pensavano le mondine della loro vita, allora?
Cosa pensava, allora, un panettiere, un rigattiere, un muratore, un garzone?
I giornali del tempo non aiutano. Sono zeppi di moralismi.
Più i pensieri che i fatti.
Quando arriva il 1900 in Italia si discute: ma il 1900 fa parte del vecchio secolo (dal momento che niente inizia con lo zero) o è già il nuovo secolo (dal momento che è… novecento)?
Ci si fa una cultura, leggendo i giornali dell’anno del signore 1900: la cultura di chi allora comandava.
Si finiva in manicomio per cretinismo, epilessia, per aver dato in escandescenze, si finiva in manicomio anche “per eccesso di studio”.
La stragrande maggior parte di chi finiva in manicomio era o contadino o operaio, però. Magari i due rinchiusi al manicomio di Vercelli per “eccesso di studio”… no. Ma il resoconto giornalistico non aveva dubbi: il professore che gestiva il manicomio lo faceva con spirito caritatevole, grazie all’arte di studi approfonditi…
La cronaca nera di allora, poi, è, diciamo, bellissima da leggere.
Una signora di 51 anni va dal signor carabiniere e racconta che due giovinastri, di 19 e di 21 anni (non ancora compiuti), dopo averla caricata sul loro carretto, hanno scaricato su di lei le loro voglie, (a turno però), poi alla fine le hanno riconsegnato la borsetta, nella quale borsetta, però, la signora vede che mancano quattro banconote da una lira.
La donna va così da signor brigadiere il quale, insieme al solerte vice brigadiere (niente “signor” per lui: per il giornale è il vicebrigadiere. E basta), sulla base di una sommaria ricostruzione identificano i due giovinastri e li consegnano al procuratore del re.
Ecco, fa invidia il 1900: era sempre tutto così chiaro.
Una donna del popolo che dopo aver partorito uccide la sua creatura viene condannata a 5 anni, 6 mesi e 10 giorni, e va bene, anzi, per essere che siamo nel 1900 la pena inflitta non sembra nemmeno così pesante.
Il giornalismo, allora, era un giornalismo pensante, come dicevo prima, e quindi, oltre al fatto, insinuava commenti: se una donna del popolo uccide la sua creatura lo fa perché si vergogna della propria amoralità.
Insomma, tra le righe si capisce che la dava a tutti.
Scrivevano con eleganza, i giornalisti del 1900.
Servi come o peggio della capa che controllava, dall’argine, le mondine.
Se un valente professore nonché chirurgo nonché cavaliere del regno faceva partorire una donna nana con un cesareo, il giornale (il giornale in cui ho lavorato, ma eran tutti così, allora) gli dedicava un pezzo e tanti complimenti. Nel pezzo si legge che la donna nana versa in gravissime condizioni. Punto. Cosa sia stato di lei al giornale non interessava. I complimenti all’illustre professore erano stati fatti, e tanto bastava.
Restano le mondine e le rivendicazioni dei poveri, dei lavoratori, il ricordo più bello di quegli anni. Che è storia.

Il 18 giugno di 8 anni fa moriva Enrico Barisone

Questo ricordo di Enrico Barisone, generale dei carabinieri che si distinse nella lotta al banditismo sardo e che ho conosciuto quando ero caporedattore al giornale La Sesia (e lui colonnello a Vercelli), lo scrissi quando morì e lo postai su facebook. Preferisco che sia qui (riveduto e corretto), in questo blog.

Enrico Barisone fu comandante del carabinieri a Vercelli negli anni Novanta. Diventammo amici. Era un eroe solitario. Si illuminava quando parlava del banditismo sardo. Amava i suoi avversari. Non amava i giornalisti: coi giornali – mi disse un giorno – pulisco le armi.
Una sera a casa sua, mangiando pecorino sardo stagionato e bevendo whisky (aveva gusti particolari) mi disse: I comunisti come te sono mezze tacche, Che Guevara compreso. . Mesi dopo dalla Sardegna arrivarono dei suoi amici. Organizzò una cena in caserma e mi invitò. Bene. Molti di loro erano sindacalisti comunisti.

Una volta Travaglio mi disse: Fammelo conoscere, Montanelli mi ha chiesto di intervistarlo. Combinai l’appuntamento e Travaglio venne a Vercelli, solo che l’intervista saltò, perché da Il Giornale gli dissero di precipitarsi ad Asti, dove c’erano arresti per Tangentopoli. Peccato.

Una volta domandai a Barisone: «In Sardegna, non avevi paura che qualche bandito potesse prendersela con la tua famiglia?»
Mi rispose: «Sai, un capo del banditismo un giorni mi disse: Capitano, guardi che lo so dove vanno i suoi figli a scuola. Gli risposi: Anche io so dove vanno i tuoi figli al pascolo…».

A Vercelli lasciò il segno lottando contro le organizzazioni criminali che spacciavano droga (e la smistavano in tutto il Piemonte e in tutta la Lombardia), Non serve un cazzo prendersela coi piccoli spacciatori, diceva. Diceva anche: Un carabiniere che alza le mani durante gli interrogatori non è un carabiniere.

A Vercelli si scontrò con un magistrato. Ci fu un processo: lui, Enrico Barisone ed altri tre carabinieri furono accusati di aver regalato una pistola a un informatore che aveva precedenti penali. Seguii il processo, non persi un minuto, ne scrissi su La Sesia; alla fine, tra gli applausi dei carabinieri presenti in aula, Barione e gli altre tre furono assolti, poi però restarono per mesi senza stipendio (intervenne l’onorevole Wilmer Ronzani – un comunista tanto per cambiare – affinché lo riottenessero).

Enrico Barisone, un grande carabiniere che amava la Sardegna e che in Sardegna molti ricordano ancora. Non si sentiva un piemontese. Gli piaceva parlare in sardo, aveva amici solo sardi. Sembrava nato a Lula o a Bitti. Enrico Barisone, per me, è uno dei ricordi più belli che ho vissuto al giornale La Sesia. E sono andato a Bitti due volte, per dire: Ciao colonnello, avevi ragione. Quando passa la camionetta dei carabinieri la gente li guarda con disprezzo, come se fossero degli invasori.

Chi era Barisone lo riassumono queste righe (leggi qui) dell’Unione Sarda.
Non si fa cenno cenno alla sua parentesi vercellese, non si fa cenno al fatto che, una volta in pensione, tornò in Sardegna a fare il pastore.

Scrivere è anche un po’ recitare

Per una breve ma intensa parentesi della mia vita ho recitato.
La passione per il teatro me l’ha trasmessa un grande uomo di teatro, Gian Renzo Morteo, mio docente in università.
Chi ama il teatro veramente non cerca il successo: cerca di rivivere la magia del teatro che si prova durante le prove e ancor più durante uno spettacolo.
Non servono folle oceamiche, applausi, flash dei fotografi. Tu, recitando, trasmetti e ricevio qualcosa.
Nel 1986 un lunedì di non so quale mese mi succede questo: il caporedattore del giornale La Sesia mi chiede se, appunto, da “quel” lunedì sarei disposto a iniziare a correggere le bozze. Ero disoccuapato, studiavo e per campare facevo di tutto. Ma “quel” lunedì avevo un appuntamento, non ricordoi se a Torino e a Milano (mi sembra Milano). Un provino per entrare a far parte di una compoagnia teatrale vera, che avrebbe dovuto portare in tournée l’Amleto.
Mi ero fatto avantio io: avevo spiegato che avevo trent’anni e che avevo interpretato Sigismondo de La vita è sogno di Calderon de La barca e L’uomo dal fiuore in bocca di Piranxdello con un a compagni amatoriale.
Per il provino, avrei dovuto recitare una parte de La vita è sogno.
Non ci dormii, alla fine optai per la decisione più saggia: il giornale.
Non ho nessun rimpianto, ma il teatro me lo porto ancora adesso, appresso, soprattutto quando scrivo: a volte sono regista a volte interprete delle storie che scrivo.
La scelta di una virgola in più o in meno, spesso, mi viene suggerita da questo mio modo di intendere la scrittura come se stessi recitando.

Cosa penso veramente dei miei libri

Questo non dovrebbe essere un post, in effetti sono appunti miei, personali, che ho trasformato in post. Appunti un po’ amari.
Ho dato un voto ai miei 14 libri, con questo criterio: i migliori sono quelli che rileggerei, i peggiori sono quelli che o riscriverei o modificherei. (Seguono alcune considerazioni.)

La suora, La donna di picche, Bastardo posto: 9
Lo scommettitore, Forse non morirò di giovedì: 8
La donna che parlava con i morti, Il bar delle voci rubate: 7
La notte del santo, Buio assoluto, Vegan-Le città di Dio, Vicolo del precipizio: 6
Dicono di Clelia: 5
Tamarri: 4
Il monastero della risaia: non so, dovrei rileggerlo.

Allora.
I libri che hanno ottenuto riconoscimenti sono due: Lo scommettitore, libro del mese Fahrenheit e finalista del libro dell’anno nel 2006 sempre Fahrenheit. E Forse non morirò di giovedì, primo (ex equo) al Premio Città di Cattolica. 

Il libro che ha venduto di più è La donna che parlava con i morti, edito da Newton Compton. Merito esclusivo della distribuzione e anche un po’ di tante recensioni. Il libro è stato ristampato da Il Vento antico, che è l’edizione che consiglio. Un amico mi ha detto: Ho trovato La donna che parlava con i morti della Newton in una bancarella a tre euro, che dici? Gli ho risposto: non prenderlo, troppi refusi.

Vegan Le città di dio è, a mio avviso, un buon giallo. Nel libro tratto anche di alimenti che funzionano più delle medicine. Ecco, di questo argomento vorrei rivedere alcune cose (e poi è sbagliato sia il titolo, colpa mia, bastava “Le città di Dio”, sia quanto riportato dall’editore in quarta di copertina: il libro non si rifà a The China study. Errore dell’editore ma anche mio perché dissi che sì, andava bene).

Ritengo che tra La donna di picche e La suora siano due buoni libri. Il primo nel 2019 è arrivato semifinalista in due premi di un certo spessore (a cui partecipano tanti autori di grandi case editrici). A questi due premi ha partecipato anche La suora, poco tempo fa. Niente. E quindi: o La suora è meno bello de La donna di picche, oppure contra il peso specifico delle case editrici (Fanucci, Golem).

Sono affezionato al libro Tamarri; sono racconti, in gran parte pubblicati sul vecchio blog. Historica (Giubilei) mi chiese un libro, e io gli mandai Tamarri, senza rileggere, senza editing. Peccato.

Quattro considerazioni finali.
Recensioni a parte, in genere i libri che sono stati maggiormente apprezzati non sono gli stessi che apprezzo maggiormente io. Ho ricevuto mail entusiaste soprattutto per Forse non morirò di giovedì e Il bar delle voci rubate.

Sbattersi per scrivere e poi pubblicare nella piccola editoria serve a poco. 

Eppure (terza considerazione) mi piacerebbe trovare un editore anche piccolo che ristampasse Bastardo posto.

Terza, ultima amara considerazione: i tre libri da cui mi aspettavo di più han fatto… acqua. Oddio, La suora è uscita da 6 mesi, ma 6 mesi per il mercato editoriale sono un’eternità.

Aldina

Un estratto da “Dicono di Clelia” che scrissi nel 2003 e che fu pubblicato da Mursia (a cui avevo inviato primo capitolo e sinossi) nella primavera del 2006. In questo estratto parlo di una prostituta, Aldina. Non esiste. Ma esiste la prostituta da cui trassi ispirazione per scriverne, quando facevo il portiere di notte. La conosco da tanti anni, quando ci incontriamo ci salutiamo, lei sa come mi chiamo e viceversa, ma non ci siamo mai fermati a parlare. Accadesse, le direi: leggi…

Fra due ore ho appuntamento con l’avvocato. Posso stare ancora un po’ qui, chiusa in macchina, a guardare l’acqua del fiume che scorre ascoltando la radio. Ci vengo spesso qui. A quest’ora i pescatori e quelli che portano i cani a correre sono andati a casa a mangiare mentre per le coppiette c’è ancora troppa luce.
Ci sto bene qui: questi alberi che ogni tanto il fiume inghiotte mi ricordano chi sono.
A 17 anni, il sabato sera ci venivo con quella che, ora, è la crema di questa città. Un bel gruppo, gente che ha fatto strada: medici, architetti, avvocati, un prete anche. Io ero bella, povera e soprattutto scema: sono andata con tutti, tutti poi mi hanno scaricata. Ora qualcuno di loro mi cerca, vuole qualche mia ragazza. Si fottano quei bastardi, sopporto solo Gianni, che è diventato un povero alcolizzato dopo quella notte che, ubriaco, ha investito e ammazzato una ragazzina in motorino. Pure lui mi ha scopata, però almeno adesso si vergogna del suo passato.
Bastardi, avevano dieci anni più di me, avevano tutti le fidanzate, però si era sparsa la voce che Aldina era disponibile. “Aldina scopatina” ero stata soprannominata, ma questo l’ho saputo solo anni dopo, da Gianni. Allora ero disposta a tutto pur di trovare marito perché non volevo restare con i miei genitori e i miei tre fratelli maschi, in una casa umida dove la sera mio padre, appena finito di mangiare, si metteva davanti alla televisione con un bottiglione di vino, poi beveva, ruttava, si ubriacava e la mamma lì, a stirare, a cucire, a togliergli le scarpe quando lo sentiva russare. Ero stufa della puzza dei calzini di mio padre e delle sue sberle ed ero certa che non sarei diventata una donna delle pulizie come mia madre. Ho cominciato a vivere quando sono scappata di casa per fare la puttana. Quelli ricchi mi avevano presa in giro, quelli poveri come i miei fratelli non li volevo: ero terrorizzata di fare la fine di mia madre che a 40 anni, grassa e sfatta, sembrava già da ricovero.
Sono brava io a far l’amore. Ho 52 anni ma credo che continuerò a essere appetibile per altri dieci. Sono brava a far l’amore e piaccio: certo, col passare del tempo sono stata costretta ad andare due volte dal chirurgo, che però mi ha solo tolto un po’ di doppiomento una volta, e ritoccato il naso, tre mesi fa. Sono brava con gli uomini. La mia pelle è ancora giovane, liscia, forse perché faccio attenzione a cosa mangio, forse perché fumo solo cinque sigarette al giorno, forse perché dormo tanto e bevo acqua in continuazione. Ho imparato a farli impazzire gli uomini, anche perché produco tanto liquido: loro, quando fanno l’amore con me, pensano di essere bravi dal momento che io mi bagno così tanto. Stronzata: mi è sempre successo così, anche andando con qualche cesso.
Con quel ciccione dell’avvocato per esempio: è venuto da me diversi anni fa, perché non sapeva dove sbattere la testa. Sposato da anni, aveva perso la testa per la sua segretaria, poi però, dopo settimane e settimane di tentativi, non era mica riuscito a far l’amore con lei. Sono fragili gli uomini, fragili e stronzi. Anche Mario lo è: licenziò la segretaria e tornò dalla moglie: meglio fottere senza troppo entusiasmo che non fottere per nulla. Solo che il problema gli è rimasto e, allora, disperato si è rivolto a me. Quando ci siamo incontrati la prima volta mi ha raccontato tutto, ma tutto tutto: ero l’ultima spiaggia. Ero anche il suo confessore. Aveva già provato con l’ipnosi, con la respirazione yoga, con vari specialisti. Per non parlare dei soldi che aveva dilapidato nei night, anche in Svizzera. Non gli era servito a niente: l’ansia da prestazione, la paura di non riuscire a fare l’amore li paralizza gli uomini. Sudano freddo, sono disposti a tutto pur di tornare normali. Io con Mario ci sono riuscita. E’ facile. Le prime volte c’è bisogno di tanto tempo. Loro sono lì, incapaci di avere un’erezione solo perché inchiodati dalla paura. Occorre essere brave con le mani: meglio accarezzarli sulle spalle, sulla schiena, sulla testa; guai a toccarli lì, dove loro, stupidamente, sono concentrati. Quello che non funziona è la loro testa: perché è imprigionata nelle loro mutande. Per sbloccarli bisogna parlare, dire cose che possano eccitarli, ma la maggior parte delle volte è meglio parlare di un argomento qualsiasi mentre li si bacia e li si accarezza ripetutamente, con calma, magari ai piedi oppure nel sedere; poi succede che, improvvisamente, dimenticano di essere paralizzati dalla paura e tornano a correre, tornano stronzi appena vedono che il coso funziona ancora. Prima almeno, quando hanno il terrore negli occhi, capisci che stanno toccando con mano cosa vuol dire stare male, maledettamente male.
No avvocato, questa sera non ti racconterò nulla di Clelia. Dì un po’ avvocato, la tua segretaria perché l’hai licenziata? Perché sei come loro, come quelli che trentacinque anni fa se la sono spassata con me, là dietro quegli alberi. Di Clelia meno si sa e meglio è.

Dicono di Clelia, Remo Bassini, Mursia 2006

E poi ci sono i giorni che non sono né pari né dispari

Ci sono i giorni pari, uno rivede le cose belle, anche le sconfitte possono esserlo, anche certi errori, certe scelte azzardate, ma nel complesso in testa c’è un via vai piacevole dove spiccano, soprattutto, ciò di cui si è orgogliosi.

Poi ci sono i giorni dispari, ed è un casino: le cazzate fatte e i rimpianti per non aver fatto questo o quello e anche un po’ di autocommiserazione (che a me ricorda quando, da piccolo, andavo a piangere davanti allo specchio: piangevo di più, piangevo meglio).

Mancano i giorni né pari né dispari, o meglio sono rari. L’accettazione, guardando avanti. Guardare avanti significa sognare, ancora.