Mi piacerebbe scrivere una storia sugli inizi del 1900.
Mi sento attratto da un passato che, in fondo, non è poi così lontano: mio padre e mia madre sarebbero nati 27 anni dopo, mio nonno paterno, invece, nel 1900 aveva vent’anni.
E a Vercelli, terra in cui son cresciuto, ci sono le nipoti delle mondine che nel 1906, dopo scioperi e scontri con i carabinieri a cavallo, dopo processi, dopo essersi stese sui binari della stazione, ottenere il primo contratto per le otto ore lavorative in Europa: prima, in risaia, si lavorava dall’alba al tramonto (oddio: anche poi, perché i contratti non furono rispettati e ci volle ancora tempo).
La vita tipo di una mondina era questa: sveglia alle 4 del mattino, poi a piedi raggiungeva la strada principale dove sarebbe passato un carro che l’avrebbe portata, con altre, sul luogo di lavoro.
Dalla monda alla raccolta del riso: piegate, nell’acqua della risaia, tra umidità e zanzare e, dietro di loro, lo sguardo attento della “capa”, che controllava e dettava i tempi: si inizia, si finisce. Se durante un turno, riusciva a far lavorare cinquanta mondine per un minuto in più erano cinquanta minuti in meno da pagare per il padrone, e così riceva una ricompensa.
La sera, prima che facesse buio, tornavano a casa le mondine. Quel che restava del giorno era dedicato a far da mangiare, badare ai figli, assolvere ai doveri coniungali.
Quando arrivava il periodo della monda c’era anche le mondine che arrivavano da lontano e che a volte rubavano i mariti alle mondine del vercellese.
Come parlavano, nel 1900, le mondine? Sicuramente in dialetto.
Come si vestivano si sa: stracci, ci son le vecchie fotografie.
Ma cosa pensavano le mondine della loro vita, allora?
Cosa pensava, allora, un panettiere, un rigattiere, un muratore, un garzone?
I giornali del tempo non aiutano. Sono zeppi di moralismi.
Più i pensieri che i fatti.
Quando arriva il 1900 in Italia si discute: ma il 1900 fa parte del vecchio secolo (dal momento che niente inizia con lo zero) o è già il nuovo secolo (dal momento che è… novecento)?
Ci si fa una cultura, leggendo i giornali dell’anno del signore 1900: la cultura di chi allora comandava.
Si finiva in manicomio per cretinismo, epilessia, per aver dato in escandescenze, si finiva in manicomio anche “per eccesso di studio”.
La stragrande maggior parte di chi finiva in manicomio era o contadino o operaio, però. Magari i due rinchiusi al manicomio di Vercelli per “eccesso di studio”… no. Ma il resoconto giornalistico non aveva dubbi: il professore che gestiva il manicomio lo faceva con spirito caritatevole, grazie all’arte di studi approfonditi…
La cronaca nera di allora, poi, è, diciamo, bellissima da leggere.
Una signora di 51 anni va dal signor carabiniere e racconta che due giovinastri, di 19 e di 21 anni (non ancora compiuti), dopo averla caricata sul loro carretto, hanno scaricato su di lei le loro voglie, (a turno però), poi alla fine le hanno riconsegnato la borsetta, nella quale borsetta, però, la signora vede che mancano quattro banconote da una lira.
La donna va così da signor brigadiere il quale, insieme al solerte vice brigadiere (niente “signor” per lui: per il giornale è il vicebrigadiere. E basta), sulla base di una sommaria ricostruzione identificano i due giovinastri e li consegnano al procuratore del re.
Ecco, fa invidia il 1900: era sempre tutto così chiaro.
Una donna del popolo che dopo aver partorito uccide la sua creatura viene condannata a 5 anni, 6 mesi e 10 giorni, e va bene, anzi, per essere che siamo nel 1900 la pena inflitta non sembra nemmeno così pesante.
Il giornalismo, allora, era un giornalismo pensante, come dicevo prima, e quindi, oltre al fatto, insinuava commenti: se una donna del popolo uccide la sua creatura lo fa perché si vergogna della propria amoralità.
Insomma, tra le righe si capisce che la dava a tutti.
Scrivevano con eleganza, i giornalisti del 1900.
Servi come o peggio della capa che controllava, dall’argine, le mondine.
Se un valente professore nonché chirurgo nonché cavaliere del regno faceva partorire una donna nana con un cesareo, il giornale (il giornale in cui ho lavorato, ma eran tutti così, allora) gli dedicava un pezzo e tanti complimenti. Nel pezzo si legge che la donna nana versa in gravissime condizioni. Punto. Cosa sia stato di lei al giornale non interessava. I complimenti all’illustre professore erano stati fatti, e tanto bastava.
Restano le mondine e le rivendicazioni dei poveri, dei lavoratori, il ricordo più bello di quegli anni. Che è storia.