L’anno che non dimentichi

Quando mi dissero che sarebbe uscito il mio primo libro, quando, anni prima, superai in fabbrica i dodici giorni di prova, quando, anni dopo, fui assunto come redattore al giornale La Sesia e, ancora dopo, quando fui nominato direttore del giornale furono giorni belli, da ricordare, certo, ma non me ne curo troppo. Più o meno ricordo l’anno, la stagione.

Il 1982 lo ricorderò sempre, e qui spiego perché.
Non ce la farai, mi dissero in tanti. Ce la farai, mi disse mia madre.
Fu l’anno della grande scommessa. Mi iscrivo a lettere e se per caso mi bocciano a un esame smetto e lancio il libretto dal finestrino del treno.

Il libretto è nel cassetto dei ricordi, la storia del 1982 è questa qua.

Farinetti, voce regina del giallo

Per me un buon giallista deve anche scrivere bene. Di sicuro scrivono bene De Cataldo, Varesi, Carlotto e altri, famosi e non.
Del compianto Renato Olivieri, di cui ho scritto (vedi il post) giorni fa, piaceva tutto: le storie, l’ambientazione milanese, il personaggio principale (senza nessuna forzatura: un commissario non deve essere necessariamente un comunista o avere problemi) e, sicuramente, anche la scrittura. Elegante e sobria.
C’è un altro giallista contemporaneo che, a mio avviso, ha una scrittura bella tanto e scrive degli ottimi libri: Gianni Farinetti, nato a Bra nel 1953.
S’incontrano le Langhe di Fenoglio, nei libri di Farinetti, e i riflettori, spesso, sono su personaggi gay.
Ecco un’intervista.
https://www.culturagay.it/intervista/195

Da Il ballo degli amanti perduti, Marsilio.

Potrei ucciderlo, pensa con stupore sapendo che lo ha già immaginato – ma come di sfuggita, senza sostare sul pensiero – altre volte in tanti anni. E corregge fra sé: vorrei ucciderlo, vederlo finalmente morto. Guida piano nel traffico delle sette e mezza di sera. Piove e le auto intorno si muovono lentissime in un’esausta coda in uscita dalla città.
Ucciderlo e liberarmene. Impedirgli di nuocere ancora, di continuare a trasformare ciò che tocca in sofferenza, in sporcizia. Intorno a lui tutto diventa laido, grossolano, volgare. È come se fosse venuto al mondo per far del male. Oh, non è il male impersonificato, macché, non c’è niente di grandioso nel suo essere maligno. Uno stupido giullare, un piccolo prepotente, una semplice merda d’uomo. Che spande dolore, smarrimento, desolazione.
Sarei capace a farlo? E perché no, basterebbe tendergli una trappola – inventare come non sarebbe difficile –, attenderlo di notte, sparare un colpo di pistola e guardarlo morire. Potrei farlo, si dice mentre la coda di automobili si dirada, si smembra opaca. Ancora una rotonda, un viale. Palazzi, portici illuminati, insegne, gente intrappolata in altre macchine.
Dove andranno? A casa, a fare le ultime commissioni prima di preparare cena, al cinema, da un amante che li aspetta, lo smemorarsi di una sera passata insieme in questo tedioso inverno. Ah, le braccia degli amanti che si cercano nel buio. La pioggia si fa nevischio e poi neve.
Sta piangendo? Non lo sa o non se ne cura. Sente freddo come fosse una ferita che non si rimargina mai. Imbocca l’autostrada.