Non sono schiavo di nessuno, io, nemmeno della libertà!
La vita di Augusto Franzoj, da questa celebre frase al cruento, insolito suicidio – premendo contemporaneamente il grilletto di due pistole puntate alle tempie – è tutta all’insegna dell’esagerazione. Tipica di uno scapigliato “maledetto” di fine Ottocento.
Nato a San Germano (Vercelli) nel 1848, appena diciottenne abbandona la famiglia benestante per affrontare una vita spericolata: cospirazioni, prigione militare, un tentativo di suicidio, collaborazioni con giornali rivoluzionari, denunce, processi, duelli, l’esilio in Svizzera, condanne in contumacia, carcerazione, altri duelli, confino, ingenti multe, esplorazioni africane.
Tra gli episodi che delineano il personaggio è sintomatico quello dei cinque duelli in cinque giorni: a Torino alcuni ufficiali in polemica con il giornale rivoluzionario “Il Ficcanaso”, che aveva in Franzoj una delle firme più pungenti, fanno irruzione in tipografia e malmenano un compositore. Franzoj li raggiunge alla birreria Prussia, afferra cinque berretti militari dall’attaccapanni e li sbatte sulla tavola imbandita dove gli ufficiali stanno cenando. Si guadagna così cinque sfide a duello che onorò con successo: «Ebbero tutti il fatto loro» racconterà in seguito. Nella sua esistenza ebbe modo di conoscere e di farsi apprezzare da Emilio Salgari, nel corso di una conferenza a Verona, e Arthur Rimbaud durante una spedizione (1886) verso i laghi equatoriali dell’Africa. Dopo un’esplorazione in Amazzonia (1899) si ritira a San Mauro Torinese, dove si sposa ed è padre di un figlio… misterioso, che Franzoj aveva avuto da un’altra donna. È il figlio che, nel 1911, trova il cadavere del padre, suicida. Un figlio misterioso, già: perché, poi, di lui si è persa ogni traccia.
Il racconto che segue, L’Augusto, l’ho scritto anni fa in dodici minuti. Mi sono immaginato Franzoj che, prima del suicidio, scrive a Salgari. Il racconto è contenuto nel libro “Tamarri”, Historica.
L’Augusto
Manca un’ora. Più dodici minuti.
L’ultima ora sarà tutta per mio figlio, questi 12 minuti, invece, per te caro Emilio.
Ma dimmi, sei ancora vivo?
Io sì, per un’ora, 11 minuti e una manciata di secondi. Poi due rette, uguali e contrarie, si scontreranno: per la grande scintilla.
Non sono schiavo di nessuno, io, nemmeno della libertà.
Gliel’ho detto, sai?, ai socialisti che mi vorrebbero arruolare. Il rosso mi piace, accidenti, ma le loro facce no.
L’Augusto è più libero del vento.
E’ libero come un berbero, l’Augusto.
Ed è più libero di te, caro amico dai piccoli occhi furbi, che sanno immaginare tutto.
Quante cose mi hai rubato. Poi ci salutavamo, dopo cinque, sei, sette bicchieri di vino.
Rubavi le mie storie, e andavi a imprigionarti per scriverle, e sognare la gloria che invece, questi bastardi, hanno regalato a D’Annunzio, facendoti morire di rabbia e povertà.
Povero amico mio, schiavo di soldi e della fama.
Io no, tu lo sai.
Ricordi Rimbaud? Mi scrisse tempo fa, ma a te, di quel giovane, sconosciuto poeta, non importava nulla.
Tu volevi le mie storie d’Africa, i miei mille duelli, le mie donne, che mi hai sempre invidiato.
Ne ho una sola, ora, proprio come te. E un figlio, che non mi somiglia e a cui non so parlare.
Povero amico, che per respirare il profumo che emanano le femmine vogliose hai dovuto, di notte, dare vita alla favorita del Mahdi, alla regina dei Caraibi, alla Perla di Labuan. Marianna, la tua preferita. Il tuo grande amore segreto.
Che io non ho avuto: ho collezionato spedizioni in terra d’Africa, io, duelli, io, e mogli di altri: le più calde erano quelle degli ufficiali torinesi.
Caro amico, mancano, ormai, tre minuti. Tre. Come gli atlanti che ho disegnato, come le spedizioni che mi hanno seccato il cuore, come le mie pistole.
Ne userò solo due, per la grande scintilla.
Ho pensato solo a te, oggi.
Perché tu, come me, sei una grande vittima: di questo secolo. Che sia maledetto il Novecento e che, quando arriverà il Duemila, porti via questa follia chiamata progresso.
Evviva Mompracem, evviva Sambigliong, il tuo eroe più silenzioso.
Caro Emilio, il tuo tempo è scaduto.
Anche il mio.
Devo dire a mio figlio qualcosa, che non so trovare.
Un giorno mi dicesti: Ma nelle carte che hai disegnato la tua firma non c’è, nessuno si ricorderà di te.
Avevi ragione, è bello essere ricordati. Mi pento di non avere lasciato segni.
E’ per questo che scriverò a mio figlio.