Il 28. Luglio.

È il 28 luglio dei miei dodici anni. Sono stato rimandato di Italiano (mai studiate grammatica e analisi logica) e Matematica. Sono a Cortona con i miei e, se ci ripenso, mi sembra di rivedermi nel film Novecento di Bertolucci. C’è la battitura del grano, si lavora sotto il sole, ma poi si mangia e si beve e ci si diverte. Io sono fiero del lavoro fatto col mio forcone: ho lavorato il doppio, a dorso nudo, sotto gli occhi azzurri della ragazza cortonese che mi piace. Lei, quel 28 luglio, alle amiche dirà che “ha un ragazzo di Vercelli”.

È il 28 luglio dei miei 17 anni, a Vercelli; ho comprato il mio primo cinquantino, finita la scuola faccio il cameriere in un bar. È il mio primo lavoro. La sera, con gli amici, frequentiamo un gruppo di ragazzi e ragazze. Una di loro piace a tutti. Quel 28 luglio, quella ragazza, mi prende per mano, sceglie me, insomma, forse perché ero stato l’unico a non averle ronzato attorno, e andiamo a fare un giro da soli. Il primo bacio.

È il 28 luglio dell’anno successivo, ancora a Cortona. C’è una ragazza della capitale che mi piace un sacco (quella del primo bacio di Vercelli non c’è più), ma quello è l’ultimo giorno, non la rivedrò più, penso, anche perché i suoi non la fanno uscire e la controllano. Lei però, quel pomeriggio del 28 luglio, esce lo stesso (mai successo, nei giorni precedenti), e passiamo un bel po’ di tempo insieme. A settembre vengo a trovarti, le dico.

Insomma, il 28. Luglio.
Numero fortunato.
Mese fortunato.

È il 28 luglio del 2013. Il mio cane sta male, non riesce più a camminare, è ricoverato in una clinica veterinaria. Era il cane di mio fratello, era buono, triste. Ma in clinica, per lui, è un inferno. Non posso farlo morire a casa come lui e io vorremmo. Quando vado a trovarlo finisce sempre male. Al momento dei saluti, Ciao Toby, lui mi abbaia cattivo: Non puoi lasciarmi qui. Il 28 luglio mattina è morto felice Toby. Mentre il veterinario gli fa la puntura, l’ultima, lui scodinzola felice, perché siamo lì, con lui, ad accarezzarlo.

Il 28.
Luglio.
2013.
Per Toby, la prima notte di quiete.
Senza sogni.

Una vecchia intervista

Correva l’anno del signore 2008. Su Nazione Indiana apparve questa intervista.
L’ho appena riletta e… non mi è dispiaciuta.
LEGGI QUI

Apparve su Nazione Indiana, ma fu anche pubblicata su Queer, inserto di Liberazione. Mezza pagina.
L’ho già raccontato.
Una domenica mattina mi alzo, mi faccio il primo caffè poi accendo la prima sigaretta e guardo la posta elettronica. Un’amica che non c’è più, si chiamava Terez, mi avvisava che dovevo correre in edicola e prendere, appunto, Liberazione.
Un’intervista di mezza pagina, pensai, la ritaglio e la incornicio, figurati (infatti) se risuccederà.
Così esco, acquisto il giornale, vado al bar, ordino il secondo caffè che però mi va di traverso: quando apro il giornale l’intervista c’è, ed è di mezza pagina, ma quello della foto non sono io, ma è Marino Magliani.
Niente ritaglio, niente da incorniciare. Però il giornale, chissà dove, dovrei averlo conservato.

Leggi James Crumely


La mia scrivania è un gran casino, da sempre. Mia madre mi sgridava, al giornale una volta il mio vecchio direttore disse alle donne delle pulizie: «Non mettete a posto la scrivania di Bassini altrimenti, poi, lui non trova nulla e s’incazza, pure». Ma per anni e anni qualcosa di estremamente ordinato c’era: le mie librerie. Se cercavo un libro sapevo dov’era. Da un po’ di tempo si sono “scrivanizzate” anche loro (forse è colpa di mio figlio, viene nel mio studio e molla cose sue, giocattoli, libri, figurine…). Sta di fatto che ieri sera cercando un libro che vorrei rileggere, L’ultimo vero bacio, e che non ho trovato, mi è tornato in mente questo dialogo, di parecchi anni fa…

«Non capisco tutta questa passione per i giallisti nordici…»
«Luigi, nemmeno Mankell?»
«Nemmeno Mankell»
«A me piace, e tanto anche…»
«Cosa ci trovi?»
«E’ come un Simenon, un Olivieri dei giorni nostri… piuttosto Luigi, se ti chiedessi a bruciapelo: consigliami un autore, un bravo autore, bella scrittura, bella storie»
«Manchette, se non sbaglio, l’hai letto»
«Sì Luigi»
«James Crumley, leggi James Crumley».

Ricordo di una conversazione con Luigi Bernardi a Bologna, in una trattoria

PS. Di Crumley ho poi letto Il caso sbagliato, La cattiva strada e L’ultimo vero bacio, che è quello che mi è piaciuto di più.

Un editore

Più o meno due anni e qualche mese fa.
Un agente letterario mi dice: Devi cambiare stile, alleggerire i tuoi gialli. Un po’ come la “tal autrice” che vende.
L’ho letta la “tal autrice”, non mi è piaciuta e sono distante dalla sua scrittura.
Stesso periodo.
“La donna di picche” al mio (ex) editore era piaciuta un sacco. Me l’avevo scritto, lo aveva detto a Torino, al Salone, davanti ad altra gente (scrittori soprattutto). Ma “La donna di picche” è un libro che ha venduto poco. Eppure, quando gli dico (all’editore) che sto scrivendo un nuovo libro (La suora) lui mi dice: “Che sia bello come la donna di picche, mi raccomando”.
Un editore che ti dice “scrivi un libro bello come il libro che ti ho pubblicato (ma che ha venduto poco” a me colpisce.

Sergio Fanucci io lo conosco poco. Un primo incontro a Roma, quando firmai il contratto per La città del santo, diverse mail e poi un secondo incontro, al Salone, quando presentai La donna di picche. In realtà Fanucci organizzò una presentazione di tre libri e tre autori (gli altri due erano Angelo Marenzana e Corrado Pelagotti). Al termine della presentazione era prevista una cena con i tre autori e Sergio Fanucci, che però diede un’indicazione: sono ammesse anche le signore.
E mio figlio che mi porto sempre appresso?, domandai.
Niente, solo autori e signore, mi confermarono dalla casa editrice.
Allora niente, risposi.
Niente cena con l’editore, insomma, quella sera. Ma Fanucci è un editore che va preso così, e il ricordo di quella mancata cena a me fa solo sorridere, ma benevolmente.
La sue mail, comunque, sono un gran bel ricordo. Perché incontrare un editore che crede in te è cosa rara (che a me è capitata due volte: con Perdisa-Bernardi e con Fanucci, appunto).
E va bene così.

Zena Roncada, di Sermide

Ho scritto un post, alcuni giorni fa.
Gente che ho avuto la fortuna di incontrare.
Sentivo, dopo averlo scritto, che c’era qualcosa che non andava. Mi succede spesso. A me piace scrivere senza pensarci troppo, lasciando libera la mano. Che stavolta, però, mi ha tradito.
Avevo dimenticato una persona: Zena Roncada, di Sermide. Per anni ho letto il suo blog, Colfavoredellenebbie, poi è successo che ci siamo conosciuti, frequentati.
Zena è parte della mia vita. Le più belle presentazioni dei miei libri le ha fatte lei, a Sermide. C’era tanta gente, sempre, che non era lì per me: era lì, in biblioteca, per Zena e per Lino (che non c’è più, ma c’è: eccolo).
Zena è stata anche un editor di alcuni miei libri, soprattutto Bastardo posto (con Stefania Mola, altra persona a cui son legato e che non sento da una vita).
Zena è il ricordo di giorni felici vissuti a Sermide.
Zena è il ricordo di amici che non ci sono più: Terez, anche don Luisito Bianchi (non si sono conosciuti, loro, ma un giorno mi presentai a don Luisito con un barattolo di marmellata che Zena mi aveva detto di donargli…).
Zena è… questa cosa qua: copio e incollo il suo ultimo post, su facebook.

Quando mi chiedono la mia professione mi verrebbe da dire : ‘lettrice’.
Perché, se facessi dei mucchietti con il tempo assegnato alle diverse attività della mia vita, credo che la montagnola delle ore corrispondenti alla lettura sarebbe la più elevata.
Sia considerando il fatto che dall’età di 4/5 anni non c’è stato giorno passato senza leggere qualcosa.
Sia pensando, naturalmente, alla mia ragguardevole età.
Sì, in effetti sono stata una lettrice precoce.
La faccenda è che i libri sono entrati nella mia vita per sostituire la camomilla. Hanno cominciato a leggermeli la sera, i libri, perché io, finalmente, prendessi sonno.
Sempre gli stessi, per altro. Tipo ‘Il gatto con gli stivali’, ‘Pel di carota’ e una bellissima fiaba, di cui non ricordo il nome, con i fiori abitati da piccole fate che come mezzo di trasporto usavano le rondini.
C’è da dire che un giorno il compito di addomesticarmi al sonno lo prese per qualche tempo una vecchia zia, che era molto anziana e stanca, e tirava a far presto: così saltava le pagine…
Ma io, ormai, le sapevo tutte quante a memoria, le storie: mi accorgevo dei salti non autorizzati e mi arrabbiavo molto.
Allora praticamente mi misi in proprio e, non so come, forse facendo corrispondere i segni ai suoni…chissà, imparai a leggere da sola e mi portai avanti col lavoro.
Ci presi gusto.
Prendevo i libri dagli scaffali dove arrivavo: così lasciai le fiabe per altre fiabe, quelle della mitologia, ad esempio, che mi tengono compagnia da una vita, col loro bagaglio di ercoli, ninfe e mercuri, il mio dio preferito…
Quando poi mi accorsi che leggere mi dava pure dei privilegi, cominciai ad approfittarne alla grande. Se leggevo e c’era da aiutare a sparecchiare, bastava dire ‘oh, ma sto leggendo un libro così bello’ che la Rosa miamamma mi lasciava quieta, nella poltrona dell’ingresso, così fresca d’estate da sembrare una succursale del paradiso.
La vorrei, quella poltrona, in queste ore di calura esagerata, insieme col silenzio della mia vecchia casa, addormentata nel primo pomeriggio: oggi mi resta, ad ogni pagina girata, la speranza di incontrare la bellezza, che non risente, dentro al libro, delle intemperanze del termometro.
Mi rileggo Il paese delle nevi di Kawabata.
Meraviglioso

Sensibili al potere

Come definire il suo lavoro?
“Sul nostro mestiere si fanno tante parole, e invece è facile da spiegare. Il nostro mestiere è quello di in- formare, raccontare, dire le cose come stanno. Tutto qui. Sta di fatto che a informare, raccontare e dire le cose come stanno ci riescono in pochi.”
Perché?
“Lei quanti uomini liberi conosce?”
Qualcuno… Le faccio un’altra domanda. L’orientamento politico dei suoi giornalisti interferisce o danneggia la libertà di informazione?
“Guardi, conta poco o niente che un giornalista sia anarchico oppure di destra. Il vero problema sono i giornalisti che sono sensibili al potere, quelli che quando hanno scritto un’intervista sperano di aver
soddisfatto la vanità del politico di turno. I sensibili al potere sono tanti e fanno danni.”
Lei è libero? La sua redazione è composta da persone libere?
“Questa domanda me la pongo ogni giorno.”

da “Forse non morirò di giovedì”, Golem edizioni

L’Augusto: lo scapigliato che piaceva a Salgari

Non sono schiavo di nessuno, io, nemmeno della libertà!
La vita di Augusto Franzoj, da questa celebre frase al cruento, insolito suicidio – premendo contemporaneamente il grilletto di due pistole puntate alle tempie – è tutta all’insegna dell’esagerazione. Tipica di uno scapigliato “maledetto” di fine Ottocento.
Nato a San Germano (Vercelli) nel 1848, appena diciottenne abbandona la famiglia benestante per affrontare una vita spericolata: cospirazioni, prigione militare, un tentativo di suicidio, collaborazioni con giornali rivoluzionari, denunce, processi, duelli, l’esilio in Svizzera, condanne in contumacia, carcerazione, altri duelli, confino, ingenti multe, esplorazioni africane.
Tra gli episodi che delineano il personaggio è sintomatico quello dei cinque duelli in cinque giorni: a Torino alcuni ufficiali in polemica con il giornale rivoluzionario “Il Ficcanaso”, che aveva in Franzoj una delle firme più pungenti, fanno irruzione in tipografia e malmenano un compositore. Franzoj li raggiunge alla birreria Prussia, afferra cinque berretti militari dall’attaccapanni e li sbatte sulla tavola imbandita dove gli ufficiali stanno cenando. Si guadagna così cinque sfide a duello che onorò con successo: «Ebbero tutti il fatto loro» racconterà in seguito. Nella sua esistenza ebbe modo di conoscere e di farsi apprezzare da Emilio Salgari, nel corso di una conferenza a Verona, e Arthur Rimbaud durante una spedizione (1886) verso i laghi equatoriali dell’Africa. Dopo un’esplorazione in Amazzonia (1899) si ritira a San Mauro Torinese, dove si sposa ed è padre di un figlio… misterioso, che Franzoj aveva avuto da un’altra donna. È il figlio che, nel 1911, trova il cadavere del padre, suicida. Un figlio misterioso, già: perché, poi, di lui si è persa ogni traccia.

Il racconto che segue, L’Augusto, l’ho scritto anni fa in dodici minuti. Mi sono immaginato Franzoj che, prima del suicidio, scrive a Salgari. Il racconto è contenuto nel libro “Tamarri”, Historica.

L’Augusto

Manca un’ora. Più dodici minuti.
L’ultima ora sarà tutta per mio figlio, questi 12 minuti, invece, per te caro Emilio.
Ma dimmi, sei ancora vivo?
Io sì, per un’ora, 11 minuti e una manciata di secondi. Poi due rette, uguali e contrarie, si scontreranno: per la grande scintilla.
Non sono schiavo di nessuno, io, nemmeno della libertà.
Gliel’ho detto, sai?, ai socialisti che mi vorrebbero arruolare. Il rosso mi piace, accidenti, ma le loro facce no.
L’Augusto è più libero del vento.
E’ libero come un berbero, l’Augusto.
Ed è più libero di te, caro amico dai piccoli occhi furbi, che sanno immaginare tutto.
Quante cose mi hai rubato. Poi ci salutavamo, dopo cinque, sei, sette bicchieri di vino.
Rubavi le mie storie, e andavi a imprigionarti per scriverle, e sognare la gloria che invece, questi bastardi, hanno regalato a D’Annunzio, facendoti morire di rabbia e povertà.
Povero amico mio, schiavo di soldi e della fama.
Io no, tu lo sai.
Ricordi Rimbaud? Mi scrisse tempo fa, ma a te, di quel giovane, sconosciuto poeta, non importava nulla.
Tu volevi le mie storie d’Africa, i miei mille duelli, le mie donne, che mi hai sempre invidiato.
Ne ho una sola, ora, proprio come te. E un figlio, che non mi somiglia e a cui non so parlare.
Povero amico, che per respirare il profumo che emanano le femmine vogliose hai dovuto, di notte, dare vita alla favorita del Mahdi, alla regina dei Caraibi, alla Perla di Labuan. Marianna, la tua preferita. Il tuo grande amore segreto.
Che io non ho avuto: ho collezionato spedizioni in terra d’Africa, io, duelli, io, e mogli di altri: le più calde erano quelle degli ufficiali torinesi.
Caro amico, mancano, ormai, tre minuti. Tre. Come gli atlanti che ho disegnato, come le spedizioni che mi hanno seccato il cuore, come le mie pistole.
Ne userò solo due, per la grande scintilla.
Ho pensato solo a te, oggi.
Perché tu, come me, sei una grande vittima: di questo secolo. Che sia maledetto il Novecento e che, quando arriverà il Duemila, porti via questa follia chiamata progresso.
Evviva Mompracem, evviva Sambigliong, il tuo eroe più silenzioso.
Caro Emilio, il tuo tempo è scaduto.
Anche il mio.
Devo dire a mio figlio qualcosa, che non so trovare.
Un giorno mi dicesti: Ma nelle carte che hai disegnato la tua firma non c’è, nessuno si ricorderà di te.
Avevi ragione, è bello essere ricordati. Mi pento di non avere lasciato segni.
E’ per questo che scriverò a mio figlio.

La storia più triste, di un piccolo eroe…

Una brutta storia, di dolore e di morte. Vera.
Diciamo che le storie più interessanti, modificate, a volte tanto modificate, le ho usate nei miei libri ma nessuno (tra coloro che me le hanno raccontate) se ne è accorto, poi.
Non tutte, però, non tutte.
Se uno mi dovesse chiedere: qual è la storia più triste e vera che ti hanno raccontato?, io risponderei che è questa.

Sono a cena con un gruppo di amici. Un luglio di alcuni anni fa, basso Monferrato. Tra gli amici c’è una mia amica, che è medico, che è strana, però, silenziosa.
Poi non ce la fa, e racconta.
Poche ore prima ha rivisto un uomo, un suo amico distrutto dal dolore.
Ques’uomo aveva due figli, uno più grandicello e un secondogenito che, fin dalla nascita, aveva avuto seri problemi di salute. E tutta la famiglia, padre, madre, fratella maggiore, si era stretta attorno a questo fratellino sofferente che aveva bisogno continuo di visite, ricoveri anche. Il dolore di una persona che si ama unisce.
Ma poi succede altro. Succede che si ammala il fratello più grande, quello che se la sa cavare da solo perché mamma e papà sono impegnati con il fratellino, quello che è diventato anche lui un po’ adulto, anche se è poco più di un bambino.
Si ammala gravemente, non vivrà.
L’uomo, alla mia amica dottoressa, aveva raccontato che gli ultimi tempi (immagine questa che non dimenticherò) tornava a casa e, appena entrato, trovavo il suo primogenito ad accoglierlo, ma con le lacrime agli occhi perché la malattia gli impediva di parlare…
Quando l’uomo era andato a trovare la sua amica dottoressa il bimbo, quel bimbo, non c’era più. Non posso che essere parole di disperazione le sue.
«Per anni abbiamo pensato solo all’altro, lui… era come se non ci fosse…».
Lo rivedo spesso, io: attende il ritorno del padre per abbracciarlo, sa che non potrà dirgli nemmeno ciao.

Dicono che la vita è bella, dicono.
La vita spesso è bastarda e certe storie fanno male solo a essere ripensate.
Spesso in pensato mi son detto: devo scriverla quella storia. Fa troppo male, rispondevo.
Quel piccolo eroe, però, va raccontato. E mi spiace non conoscere il suo nome (non ebbi il coraggio di interrompere il racconto della mia amica dottoressa: certe storie sono sacre, non vanno disturbate).

Scrivere, per girare al largo da me

Ho le scrivanie in perenne disordine. Quella di legno (un vecchio tavolo trasformato a scrivania) con pipe, tabacco, documenti vari, oggetti vari. Quella del mac: foto, cose scritte, una casino di screenshot.
Ogni tanto (ma tanto) riordino, trovando così anche cose di cui avevo perso memoria.
Stanotte ho trovato un appunto sul mio ultimo libro, La suora.
Prima di cancellarlo lo posto qui.
Non so quando e perché lo scrissi, so che è vero, però.

A volte, e sempre più spesso, sono stufo dei miei pensieri, delle mie frasi ricorrenti (salvo e salverò solo i ricordi, sempre), stufo di me insomma.
Ecco. Ho scritto La suora per girare al largo da me.


PS. Le info sul documento mi dicono 21 dicembre 2021.

Incontri, certe notti, in albergo

Portiere di notte la notte, poche ore di sonno, l’università di giorno, per lo più al pomeriggio.
Portiere di notte, gli incontri: artisti, calciatori che uscivano dalle loro stanze di nascosto, prostitute, quelli che di notte alle tre ti chiedevano un caffè con la scusa di raccontarti qualcosa.
Un giorno tra i clienti arriva Lui. Sorridente, di poche parole. Di notte, però, non dorme: scende dove c’è la reception, ogni tanto va fuori a fumare, ogni tanto mi chiede una birra. Senza dire, raccontare, confidare.
E’ figlio di un uomo d’affari, lavora per lui, settore alimentare. Più o meno ha la mia età.
Una notte, saranno le tre o le quattro, guardiamo la televisione. C’è una cantante che mi piace, si chiama Pat Benatar.
«Mi piace» gli dico, e Lui: «Io l’ho vista una sera, ero a New York».
E poi racconta…
Vive nella grande casa del padre ma un giorno litiga e va in Francia a vendemmiare. Poi, coi soldi guadagnati, si imbarca come clandestino, destinazione, appunto, New York.
Arriva, gira di qua e di là in cerca di un lavoretto, Lui a casa non vuole tornare, e una sera vede un concerto di Pat Benatar in un locale.
I soldi però cominciano a scarseggiare, poi finiscono, e così si ritrova a vivere con altri barboni sotto le griglie della metropolitana di New York.
Conosce così altri fuggitivi. Alcuni di loro, lo capisce con l’intuito, lo capisce da come parlano, erano dei professionisti, dei buoni borghesi, insomma. Adesso no, sono barboni: la sera tardi vanno a cercare cibo e da bere tra i rifiuti dei ristoranti, di notte tornano ai loro giacigli e al mattino «ci addormentavamo guardando la gente che correva a prendere la metropolitana. Quella gente aveva fretta, noi no…».
Gli piaceva quella vita? Non glielo domando, ho la sensazione di sì. Anzi, penso che la rimpianga.
«Un giorno è successo questo…».
Un giorno, camminando per strada si ritrova davanti il padre, che, con le giuste conoscenze, è riuscito a rintracciarlo (fa pensare, questo…). E il padre non si ferma a cercare di convincerlo di tornare a casa, no. Si limita ad allungargli del denaro e a dirgli «se vuoi tornare, questo ti basterà».
Prese così la decisione…
Tornò, era tornato, ma di notte Lui non riusciva a dormire, Lui era ancora là, sotto la griglia, accanto a un uomo «che probabilmente era un avvocato, ma che aveva preferito lasciare tutto. Se trovavamo dei cibo lo dividevamo, ma non ci facevamo domande…. eravamo lì, lontani dal mondo, eravamo io, lui e altri, tanti altri…».
Certe notti, in un albergo, alcuni incontri.
#portieredinotte
#autobiografia

Gente che ho avuto la fortuna di incontrare

Persone che: persone che ho avuto la fortuna di incontrare. Non le avessi incontrate forse non avrei pubblicato o avrei pubblicato di meno.
Penso spesso che c’è gente che non è stata fortunata come me.
Parto da lontano.
Era il 2003, avevo pubblicato un libro, ne stavo scrivendo un altro. Avevo una lettura quotidiana: il blog di Giulio Mozzi, allora consulente della casa editrice Sironi (che pubblicò alcuni ottimi libri e io non so cosa avrei dato per uscire, anche io, con la Sironi di Mozzi). Per anni, mi sono ricordato tante dritte, tante cose scritte da Mozzi nei post e, anche, nei commenti. Mozzi, poi, l’ho incontrato tre volte al Salone del libro. La prima volta allo stand di Fernandel, ricordo che il mio editore (Giorgio Pozzi) regalò a Mozzi una copia del mio terzo romanzo, Lo scommettitore. Poi, due tre quattro anni dopo non ricordo, lo incrociai, mi presentò Leonardo Colombati, dicemmo due cose due, e poi una terza volta, che non dimenticherò (perché mi disse che stava facendo un tentativo, per me, tentativo che non sarebbe andato in porto. Comunque apprezzai).
Poi. Sulle scuole di scrittura creativa ho perplessità. Ma a volte mi taccio, dovrei parlarne se le avessi frequentate. La Bottega di narrazionje di Mozzi, però, è una cosa seria. Non l’ho frequentata, avessi potuto l’avrei fatto.
Mozzi, dunque.
Insieme a lui, in quegli anni, furono di estrema importanza – anzi di più – due scrittrici: Laura Bosio e Alessandra Buschi. Lessero cose mie, mi diedero consigli, mi incoraggiarono a scrivere (la Buschi, addirittura, propose un mio libro a un paio di editori). Ecco, quando sai che qualcuno crede in te acquisisci sicurezza. Con entrambe, poi, è nato un rapporto di amicizia (non dimenticherò mai i racconti della Bosio su Pontiggia) ma quando le contattati (e mi incoraggiarono a scrivere) erano persone che non conoscevo. La Bosio era della mia città ma viveva a Milano (le chiesi di leggere il manoscritto del mio primo libro), alla Buschi scrissi una mail: “sto scrivendo questo”. “Mandamelo, ma ti dirò quello che penso” mi rispose.
Giulio Mozzi, Laura Bosio, Alessandra Buschi, ma non solo.
Luigi Bernardi per alcuni anni è stato una guida per me. Contento di averlo conosciuto e magari di avere imparato qualcosina.
Mail, lunghe telefonate al mattino presto (mi tirava giù dal letto che magari erano le sette, dimenticandosi che io dormivo 4 ore, dalle 5 alle 9…), qualche incontro. Soprattutto le mail sono un gran caro ricordo. Avrei voluto frequentarlo di più, peccato che se ne sia andato troppo presto.
Ecco, Bernardi in una mail mi scrisse “Trovati un bravo editore, Remo, l’editoria è un Bastardo posto (libro che pubblicai con il suo editing). Io non trovo editori, in Italia oggi gli autori tra i cinquantacinque e i sessanta non li pubblica nessuno”.
A me invece andò bene: perché Sergio Fanucci – altra persona che devo ringraziare – mi ha dato fiducia senza badare alla mia carta di identità. Mi pubblicò prima La notte del santo e poi La donna di picche, libro in cui lui credeva e tanto – e quindi io non lo ringrazierò mai abbastanza – ma che non è andato bene come vendite… (son cose strane le vendite: La notte del santo, che per me è un libro da sei e mezzo, ha venduto direi bene; La donna di picche, che per me è da otto o anche più, molto meno).
E poi dovrei ringraziarne altri cento, lettori e lettrici e tutti quelli che hanno recensito i miei libri. Le recensioni più belle sono arrivate da gente sconosciuta, più belle, dicevo, perché inaspettate.
Un esempio.
E dovrei ringraziare anche altri… (In questi giorni mi ha scritto una ragazza, si chiama Sonia. Ha letto La donna che parlava con i morti, ne è entusiasta, ne ha parlato in un gruppo di lettura chiuso, con 60 iscritti, su facebook: E ha subito acquistato La donna di picche, che sta leggendo. Senza dimenticare Marina Taffetani….).
Poi c’è il resto: amarezze, una montagna di amarezze, persone che.
Ma va bene così.
PS. Ho messo il link sulle persone da me citate.

Esperienza ed evidenza scientifica

Un mio caro amico è morto due giorni dopo il vaccino johnson. Non è stata fatto nessun accertamento, i familiari non hanno detto nulla, io dico solo che stava bene, che l’ho visto il giorno prima che morisse.
Poi. Un mio parente, malato di cancro, era un fautore della vaccinazione contro il Covid, «altrimenti non se ne esce» mi diceva. Dopo la terza dose il suo corpo, già debilitato, è andato in tilt: valori sballati del sangue, un’emorragia. «La terza dose mi ha distrutto» mi ha detto a Natale. Due mesi dopo è morto certo, causa cancro (leggo però Crisanti, che dice: non muoiono i no vax, muoiono i fragili vaccinati).
Poi. Ho intervistato una giovane madre, figlia di un medico. Ha fatto il vaccino, convintamente. Ora non vive. Nei mesi passati ha visto l’inferno: dolori lancinanti alla vagina, alla gola. Paresi. Sta meglio, però. Però è incazzata: quando dico che sto così per colpa del vaccino non vengo ascoltata.
Poi ci sono io. Dopo la seconda dose ho avuto spossatezza, giramenti di testa, acufeni più altro (che non è poco: dolori a tre dita, due si sono gonfiate, a un braccio). Spossatezza e giramenti di testa non ci sono quasi più, acufeni e dolori vari (passano con ibuprofene) vanno e vengono.
L’evidenza scientifica – quella ufficiale – non mette in correlazione vaccini ed effetti avversi. Si ignora il problema.
Certo, c’è l’evidenza scientifica, ma non solo.
Primo esame di psicologia dinamica, nel 1983. Cos’è indispensabile per la crescita di un individuo, cos’è che lo guida?, mi domandarono.
Risposi: l’esperienza.
Presi trenta.
E poi. Mi pare che ci sia una scienza ufficiale che va d’accordo con politica e informazione (quasi tutta) e va bene così, ma c’è anche una parte di scienza imbavagliata e questo mi fa pensare: quando si imbavaglia qualcuno significa che di questo qualcuno si ha paura.