I miei incipit

La suora
(Golem, 2020)

Le ossessioni non sono mai belle, eccetto Nora.
Orta San Giulio, dieci anni fa, una sera di gennaio. Saranno state le dieci, o le undici, che importa? Nelle sere sbagliate il tempo conta poco. Ero davanti all’ingresso dell’albergo dove avrei pernottato, non avevo voglia né di camminare né di salire in camera né di essere altrove.
Risposi con un cenno della testa al suo saluto, mentre mi passava accanto per entrare al Leon d’oro. Prima che la porta si richiudesse alle sue spalle, sgusciai dentro anche io, ma non era mia intenzione seguirla: non ero alla ricerca di nessuna donna, di nessun incontro. Alla ragazza assonnata della reception, Nora domandò la chiave della sua stanza, io una bottiglia di acqua minerale, per poi uscire di nuovo.
Appena fuori, mi accorsi che non ero solo.
Disse «Niente, questa sera il sonno non vuole arrivare».
I tuoi occhi, Nora, vedevano oltre.

Forse non morirò di giovedì
(Golem, 2021)

Si sono accomodati sulle sedie blu. Rileggono gli appunti, sorseggiano il caffè della macchinetta, parlottano, qualcuno sba- diglia. Aspettano un cenno o una parola del direttore Antonio Sovesci che è seduto davanti a loro. Ha in mano una penna stilografica verde, gliela regalò sua madre quando venne assunto al giornale, una vita fa; è il suo portafortuna.
È superstizioso Sovesci. Se vede un gatto nero cambia strada, e se potesse abolirebbe dalla sua vita il giovedì: gli capita di tutto quand’è giovedì.
Il suo ufficio, tanto ampio da venir usato anche come sala riunioni, è a forma rettangolare. Davanti alla sua scrivania, disposte a mezzaluna, su tre file, ci sono ventuno sedie.
Sono le quattordici e trenta di un piovoso mercoledì di marzo. La riunione di redazione durerà mezz’ora, massimo quaranta minuti. Con il vecchio direttore duravano almeno un’ora e mezza. Appena insediato, alla sua prima riunione di redazione, Sovesci invitò i giornalisti che prendevano la parola a essere più stringati.
«Cerchiamo di non perdere tempo, il tempo che risparmiamo adesso ci verrà utile per gli approfondimenti.»
Fu fiato sprecato.
Quando constatò che le riunioni continuavano a dilatarsi, ebbe la tentazione di zittire tutti con una manata sul tavolo, da farsi male. No. Per imporre la sua autorevolezza doveva attendere il momento giusto. E il momento giusto arrivò una domenica di fine ottobre. I viali di tigli che Sovesci percorreva a piedi per arrivare in redazione sembravano dipinti dal giallo delle foglie cadute.
Portava con sé l’eco di una frase che da tempo ripeteva a sua moglie Simona «Se non riesco a impormi come dovrei, che direttore sono?».
Fu un fatto curioso a dargli una mano.
Sorseggiando il caffè al bar, un suo giornalista, Dario Salici, aveva sentito un racconto. Ore prima, all’incirca verso le sette, alcune persone avevano visto per strada un noto penalista, l’avvocato Toccani, che pedalava in pieno centro storico tenendo la moglie seminuda – scarpe da ginnastica bianche, mutandine e reggiseno neri e null’altro – al guinzaglio come un cane, costringendola quindi a corrergli dietro.

La donna di picche
(Fanucci, 2019)

Due persone, un uomo e una donna, sono davanti al tempio abbandonato di Saletta, nel Vercellese, ma a due passi è già terra alessandrina.
È una sera di ottobre, sta scurendo. Il tempio ha una forma insolita, è rotondo, ha dodici colonne, un sotterraneo. Prima del tabernacolo eretto a san Sebastiano, poi chiuso, sorgeva un tempio pagano? Sì, secondo gli studi di Giovan Battista Modena, un frate appassionato di storia che visse nel XVI secolo e scrisse d’aver trovato il corpo di uomini giganteschi.
Di sicuro, insieme al tempio che resiste al tempo sono rimasti i racconti che prima la tradizione orale popolare e internet poi hanno tramandato. Centinaia di leggende, invenzioni.
E storie maledette.
Tre bimbi giocano nel tempio, poi escono. Uno di loro si infilza su un cancello che sta scavalcando e muore. Moriranno anche gli altri due, in tragiche circostanze. Ma tornano. I contadini vedono le loro impronte, quando fa neve.
E sostengono di vedere, i vecchi contadini, il fantasma di una bellissima dama bianca che cammina tra i campi circostanti il tempio.
Ma fra tutte, colpisce una storia struggente, forse la più vera. Siamo nell’Ottocento, due giovani si amano: lei appartiene a una famiglia nobile; lui è un servo, uno stalliere. È un amore impossibile il
loro, vietato. Ma i due, che non vogliono lasciarsi, si tolgono la vita proprio lì, a Saletta.
Il tempio di Saletta, che fa parte del centro di Costanzana, con il passare del tempo diventa un luogo che richiama satanisti e gente che ha bisogno di credere in qualcosa.
Stronzate per tanti.
Eppure la gente ha bisogno di credere, Dio, Satana, un fantasma o una bugia, non importa.
Chi sta peggio è chi non crede.
«Andiamo via» dice l’uomo.
«Non c’ero mai stata, fa paura adesso… Chissà come sarà d’inverno con la nebbia» dice la donna; è giovane, potrebbero essere padre e figlia. «Perché mi hai portata qui? Ho capito, forse ho capito: per te io sono un mistero. Scendiamo nel sotterraneo?» dice ancora la giovane.
«No, si è fatto tardi, andiamo.»
«Invece dovremmo scendere. Se avessi una torcia, andrei a vedere.»
L’uomo non l’ascolta. Apre la portiera ed entra nell’auto della donna, una Citroën due cavalli.
Un’auto d’altri tempi.

Il bar delle voci rubate
(I buoni cugini, 2019; revisione de Il quaderno delle voci rubate, La Sesia, 2002. Il mio primo vero libro è questo)

Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.
È un bar d’altri tempi, questo, con qualche trasgressione: un televisore, un telefono a gettoni, un biliardo e un vecchio flipper. Ma il banco è più vecchio di me, i tavoli e le seggiole son tutti di noce.

La donna che parlava con i morti
(Il vento antico. 2019; prima edizione della Newton Compton nel 2007)

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano – ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne – che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.
E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.
La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e altri piaceri, chissà.
Il vecchio marito si accollò le spese del podere e, si disse, non volle vederla più. Lui e i suoi due fratelli, più giovani, facevano paura. Erano i più ricchi, i più fascisti, i più temuti della zona. Quando Nunzia restò vedova, nessuno osò commentarne l’assenza al solenne corteo funebre che partì dal Palazzone.
Tutti sapevano che viveva in fondo al bosco. E qualche ragazzaccio, temerario, in tempo di guerra, scendendo la mulattiera che porta al casolare dei castagni, da lontano, per rispetto e per paura, l’aveva spiata di notte, al lume di luna restando incantato da tanta bellezza.
Quando i tedeschi si ritirarono, e i due cognati se la diedero a gambe ché i partigiani li volevano impiccare, Nunzia riapparve. Era tempo di rastrellamenti, scontri, morti vicino al suo casolare. Tanti morti. E vermi sui morti.
L’eterno riposo dona loro o Signore pregava Nunzia mentre, insieme ad alcuni uomini, posava dei rami di castagno a forma di croce su quei corpi da bruciare col petrolio. Divenne Nunzia dei castagni.

La notte del santo
(Fanucci, 2017)

L’uomo si alza a fatica dalla poltrona, le gambe malferme sembrano cedere, invece, trascinando i piedi, muove qualche passo verso la finestra, scosta la tendina, guarda le poche case ancora illuminate, controlla l’orologio. Ha fissato il niente per ore, senza accorgersi che era sopraggiunta la notte. Finalmente. Perché la notte porta il silenzio e il silenzio può portare le voci.
Torna a sedersi sulla poltrona color cremisi. Nella stanza semibuia arriva un po’ di luce fioca dai lampioni. C’è afa stanotte a Torino, eppure la finestra è chiusa. L’uomo – dalle movenze sembra un vecchio, e invece ha poco più di cinquant’anni – sta sudando, ma sembra non curarsi del caldo. Ha i calzoni grigi un po’ spiegazzati, una camicia bianca con le maniche lunghe tutta abbottonata, fin sotto il pomo d’Adamo; i polsini no, almeno quelli sono slacciati. Sta bevendo whisky a garganella, neanche fosse gazzosa, e sta fumando incessantemente; di tanto in tanto tossisce.
Quando eseguiva i brani di Segovia con la sua chitarra, non beveva e non fumava, e di notte spalancava le finestre, così da poter guardare il cielo e le nuvole, da poter ascoltare i suoni della città. Al tempo, gli succedeva spesso di accarezzare con lo sguardo la cupola della Gran Madre di Dio che s’intravede in lontananza e, da buon cristiano, di farsi anche il segno della croce.
Adesso non prega più e non crede più in alcun dio. Che sia maledetto dio, che siano maledetti i suoi santi! Lui li ha pregati, implorati in ginocchio, e loro, dio e i suoi santi, hanno fatto finta di niente girandosi dall’altra parte.
Nella chiesa della Gran Madre di Dio lui non ci metterà più piede. L’ultima volta lo hanno trasportato fuori privo di sensi. Non ce l’aveva fatta, lui, a caricare in spalla la bara bianca della sua bambina.
E comunque, i rumori – clacson, campane, cani, risate – devono restare chiusi fuori, altrimenti potrebbe confondersi, quando sentirà la voce della bimba, perché ne è certo, lui: prima o poi la sentirà.

Vegan, le città di Dio
(Tlon, 2016)

Un giorno mio padre mi disse che la voce di dio si sente solo quando la notte è fonda: è l’acqua del fiume che scorre.

La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente.
Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, crocefisso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.
E comunque. Non è da Luca uscire a quest’ora, senza un biglietto. Per essere uscito è uscito: mancano i jeans e le scarpe nere di cuoio, che alterna con quelle da ginnastica. Ha preso l’ombrello verde; diluvia, adesso. Prima pioggia di settembre.
Non sa che fare Andreina. Da tre, quattro mesi, Luca non è più Luca. Si è messo a rincorrere il fantasma del padre, che fino a qualche mese prima era un ricordo da due soldi.
Una scrollata di spalle, una smorfia come a dire: che cazzo di padre mi è capitato; e poi parlava d’altro. Ora invece è un padre-chiodo-fisso.

Vicolo del precipizio
(Perdisa Pop, 2011)

La tazza è quella del latte, dei biscotti e della voce spazien- tita della mamma: «Sbrigati, Tiziano, sei sempre l’ultimo, guarda che chiudon la scuola».
Sta sorseggiando il suo caffè forte e amaro, è in piedi, è sul terrazzino. Quando avrà finito di bere, porterà la tazza in cucina, la laverà e la asciugherà con cura, quindi si metterà a scrivere, fino all’alba, fino allo sfinimento. La tazza è sorretta con la sinistra; la destra è sotto, per precauzione, metti che caschi. Non è un gesto di sempre: è di stasera. Stasera, per la prima volta ha pensato che questa vecchia tazza bianca con il manico nero lo ha seguito, sempre. Dovrebbe essere nata prima di lui, dalle mani di un cocciaio.
Fa caldo a Torino. Sono le dieci e venti, ogni tanto arriva qualche brezza di vento. Si è appena lavato la testa. Un rito: se non ha i capelli lavati non riesce a scrivere, né per altri né tanto meno per sé. Stasera e stanotte scriverà di nuovo per sé, dopo anni. Ha tutto quel che gli serve, qui sul terrazzino. Il computer portatile, due sigari Toscani accuratamente tagliati in quattro mezzi, la compagnia discreta e silenziosa di Giada, la gatta che gli si sta strofinando tra le gambe, la fotografia che suo padre il mese scorso ha scattato di nascosto alla mamma che spalancava la finestra della camera da letto, al risveglio.
L’ha fotografata di spalle, babbo Felice. Oltre la vestaglia nera della mamma e i suoi capelli bianchi, s’intravedono alcuni rami dell’ulivo che salgono dal campo, sotto casa, e poderi lontani, verso la pianura della Valdichiana.

Bastardo posto
(Perdisa Pop, 2010)

Sotto i portici, di notte passate le tre, il manichino nudo e senza sesso del negozio d’abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda.
È una notte di marzo. Sta diluviando.
In questo momento Paolo Limara, fissando la vetrina col manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi. Non l’ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo. Fissando le palpebre di plastica, socchiuse e spente del manichino, è successo che Limara ha visto i suoi, di occhi, persi come due monete nel tombino, bersagliato dalla pioggia e che, proprio adesso, è stato scosso violentemente da un’auto in corsa.
Non vuole guardare, Limara, né il tombino traballante né la strada riflessa sul vetro. Preferisce star lì impalato, davanti al manichino senza sesso del negozio, che è chiuso da quattro anni, con l’insegna spenta.

Lo scommettitore
(Fernandel, 2006)

L’origine di tutto si perdeva lontano.
Scommetto che da qui alla scuola riesco a correre senza respirare. Scommetto che se la mamma me le dà col battipanni io non piango. Scommetto che se il maestro mi guarda cattivo io non abbasso gli occhi. Scommetto che se me lo tocco, poi, quando mi piace tanto tanto, riesco a fermarmi.
Scommetto che nessuno ci riesce a fare questo.
Scommetto che se ho sete resisto senza bere. Scommetto che se ho mal di pancia non lo dico a nessuno.
Scommetto che gli altri non sono così bravi…

Dieci euro, neanche tanto tempo fa, li aveva regalati alla bambina che aveva aiutato i nonni a portare le posate in tavola. Aveva arrotolato, piegato e pigiato la banconota così da farla sembrare un bastoncino, in modo da ritardare la sorpresa: Guarda, ho un bigliettino per te.
In quella trattoria di un paesino isolato, di bassa collina, lambito dalla nebbia della vicina pianura, aveva incontrato per la prima volta Carmen Severi, la candidata. Un anno e quanti mesi prima? Preferiva non pensarci, lui, meglio perdere il conto del tempo che ti separa da un ricordo che fa male, quasi un incubo.

Dicono di Clelia
(Mursia, 2006)

Credo di aver premuto talmente tanto i tasti del telecomando da aver rischiato di romperlo. Di sicuro mi sono fatto male alle dite, e alla mano tutta.
Da due ore ero davanti alla televisione. Due di notte. Carla mi aveva dato il bacio della buonanotte verso le undici, le bambine un’ora prima. Dovevo correggere i temi dei miei studenti dell’istituto commerciale; poi mi ero stufato e, coi piedi sul tavolino, dove avevo appoggiato i restanti compiti in classe ancora da correggere, avevo cominnciato a bere una, poi due, poi tre birre olandesi, forti (dieci gradi) e saporite (al luppolo) guardando la tele. Un po’ di telegiornale, un po’ di Bonanza che mi faceva tornare ragazzo quando sognavo di andare nel West e diventare come Tex Willer, qualche spogliarello.