La scrittura ti permette di fare cose magiche.
Nel libro Dicono di Clelia per esempio ho fatto questo. Allora, Clelia è una prostituta. Come quelle che ho incrociato facendo il portiere di notte, dopo aver lasciato la fabbrica (nel 1983).
Ecco, io a Clelia ho dato l’anima di una mia compagna di università, malata di leucemia. Era grave. Ho un ricordo preciso del giorno in cui la vidi per la prima volta. Ricordo che pensai: “Cazzo ha, questa, da sorridere sempre?” Lottava, a modo suo.
«Questa estate posso andare in Olanda?» aveva domandato questa mia compagna al suo medico.
E lui: «Tu questa estate devi sperare di essere ancora viva…»
Non era una frase dura. C’era un buon rapporto tra loro.
Comunque ci andò in Olanda (e mi portò in dono un aquilone). E oggi sta bene. E per me è un gran bel ricordo
La scrittura dicevo. Ci consente di prendere un brandello di vita vissuta – magari da altri – e di cucirgli sopra qualcosa di pregiato, di trasformare, insomma, un cucito in ricamo.
Facevo il giornalista, allora. Era il 2003.
Un giorno ricevo una telefonata che solo nei giornali locali si può ricevere.
Un tizio, dalla voce antipatica, la voce di un ufficiale che dà ordini, mi racconta una cosa. Questa.
Tutte le domeniche pomeriggio lui va a messa, Stessa chiesa. Con altre dieci, venti persone. E una suiora che aiuta il parroco a riordinare.
Da alcune settimane sta succedendo qualcosa di strano, durante la funzione religiosa. Al primo banco c’è sempre un uomo che nessuno conosce e che prega intensamente, inginocchiato. Ha con sé un mazzo di rose bianche. Terminata la messa, le lascia lì.
Il tipo che mi sta telefonando mi dice che l’ultima volta lui e gli altri fedeli, incuriositi, hanno fatto delle ricerche. Hanno visto che l’uomo misterioso arriva con una vecchia Fiat 500 nera targata Milano. Non solo. Hanno chiesto alla suora che aiuta il parroco di guardare bene il mazzo di rose bianche l’uomo lascia, una volta finita la messa. «C’era un biglietto, domenica scorsa» mi racconta il tipo. Nel biglietto c’era scritto: “Ti ho aspettata, ma anche oggi non sei venuta.”
Solo nei piccoli, insignificanti giornali di provincia arrivano storie come queste.
E comunque, la telefonata finì in questo modo. Il tipo con la voce da ufficiale mi disse: «Approfondisca, cerchi di scoprire cose c’è sotto.»
E io. «Nel modo più assoluto, non lo farò.»
L’altro alzò la voce. Io pure.
No, non fui tentato di andare a vedere l’uomo che arrivava con una 500 nera e con un mazzo di rose bianche.
Una domenica andai a Orta, Da solo. Al sacro monte. In un bloc notes iniziai a scrivere Dicono di Clelia.
C’erano, tra i protagonisti, una prostituta che aveva la voce e la mente della mia compagna di università, c’era l’uomo misterioso.
Dicono di Clelia è un romanzo corale. Più protagonisti che ruotano attorno a Clelia. Con una morale, anche: che siamo collegati a tante persone, come birilli. E se il caso fa cadere dei birilli noi rischaimo di cadere, facendoci male.
(La morale del libro uno la scopre quando il libro è finito).
Scrissi il libro in tre, quattro mesi. Era il 2003, avevo iniziato a seguire internet, alcuni blog.
I siti delle case editrici. Lessi che Mursia chiedeva il primo capitolo e una sinossi. Nel caso di interesse ti avrebbero ricontattato.
Spedii, come da indicazioni.
Ma successe anche questo. Avevo letto due libri di una scrittrice, Alessandra Buschi. Riuscii a contattarla. Scambiammo della mail su vari argomenti (lei era stata scoperta da Tondelli e quindi parlammo di Tondelli. Ad Alessandra dissi che avevo scritto un libro. Si offrì di leggerlo. Le piacque, non solo: lo propose a qualche editore… Mi resterà sempre nel cuore Alessandra Buschi. Le sue parole di incoraggiamento a scrivere significarono tanto.
Ma vado avanti.
Settembre 2003, sono al giornale. La segretaria mi dice che c’è una casa editrice che vuole parlarmi. Penso: Vorranno proporre qualche libro. No. La telefonata arrivava da Mursia. Mi dissero di inviare tutto il libro. Mesi dopo mi richiamano ancora. E mi dicono: «Il suo libro è in seconda lettura.» Nel 2004, era inverno, vado a Milano e firmo il mio primo contratto.
«Quando esce?» domando (sapevo un tubo, allora, di contratti).
«O in primavera, oppure a inizio 2005» mi dicono.
Il libro uscirà solo nel 2006.
Dalla firma del contratto alla pubblicazione, insomma, passarono due anni e più. In quel lasso di tempo io, che non sono invadente, scrissi tre, forse quattro mail per sapere se e quando il libro sarebbe uscito.
Non mi risposero mai. Dopo che il libro fu uscito, fui invitato a partecipare a una cena, insieme ad altri autori che avevano pubblicato con Mursia. Non ci andai.
Per due, tre anni arrivarono un po’ di resoconti sulle vendite: pochi spiccioli, poche copie vendute. Non ricordo quante. Il libro si trova ancora in vendita, su Amazon o IBS. Ma sul sito Mursia non ci siamo, né io né Dicono di Clelia.
Che è un libro che ricordo poco, oggi. Non lo rileggo, so che ci sono refusi. So di aver scritto libri migliori, come Bastardo posto, come La suora.
… In questo momento, però, proprio mentre sto scrivendo (sono le 4 e 21 di notte, venerdì primo aprile, adesso vado a dormire ché alle 7 deve svegliarmi) mi sono ricordato che in Dicono di Clelia c’è una quasi storia d’amore tra un maresciallo dei carabinieri e la moglie di un prefetto. E c’è un bell’incontro, tra loro, nella splendida abbazia di San Nazzaro Sesia, che è in provincia di Novara ma è anche a due passi anche da dove vivo io…
Intanto (nel 2005) aveva scritto Lo scommettitore, il libro che, per una stagione, mi avvicinerà alla serie B dell’editoria.
Precedenti puntate:
1) Un “quasi scrittore” di serie D: LEGGI QUI
2) “Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere per fuggire lontano: LEGGI QUI
3) “Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere sorprendendosi. Il mio primo libro: LEGGI QUI