“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere sorprendendosi (il mio primo libro) /3

Si intitola “Il bar delle voci rubate” il primo libro scritto e pubblicato e, due anni fa, ripubblicato con il titolo “Il bar delle voci rubate”.
C’è una cosa importante che voglio dire su questo libro. Una cosa che racconto sempre durante le mie lezioni di scrittura.

Allora, avevo 39 anni e il sogno di scrive un libro l’avevo ormai accantonato.
Per tre ragioni. La meno importante. Non sapevo a chi rivolgermi, cosa fare. Era il 1995, non c’era internet. Per spedire un manoscritto ci si doveva informare. Poi telefonare agli editori. Posso spedire un manoscritto? Le risposte non incentivavano.
Seconda ragione. Ci tenevo, certo che ci tenevo, a scrivere un libro. Era uno dei sogni della mia vita. Ma un sogno l’avevo già realizzato: laurearmi in lettere viaggiando e lavorando – prima in fabbrica, poi come portiere di notte, poi giornalista – era stato, appunto, un grande sogno inseguito con rabbia e tenacia. Imparando a dormire 4 ore a notte. Rinunciando a cinema, passeggiate, tv. Per anni. Mi fermo.

Ma c’è una terza ragione che aveva bloccato la mia scrittura. Tutto quello che scrivevo – poesie, testi teatrali, inizi di romanzi o racconti – poi, nella rilettura, non mi piacevano. Per niente. Avevo (l’ho scoperto poi) un male comuni a tanti aspiranti scrittori: mi avvitavo su me stesso. Sul mio ombelico.

Finché una sera…
Ho mail di denti. Dopo la laurea ogni sera esco. Vado a giocare a bowling, sport che pratico a livello agonistico. Non sono un campione ma me la cavo. Faccio anche tornei all’estero. Così mi distraggo dal lavoro nelle redazione del giornale La Sesia (dove firmavo le inchieste più scottanti, quelle che mi portarono a conoscere Marco Travaglio, Massimo Novelli…)
Ecco, una sera però ho un mal di denti fortissimo. Così – invece di guardare la tv – prendo lo sdraio e un bloc notes e comincio a dialogare con me stesso.
Mi dico: È da un po’ che non provi a scrivere una storia…
Mi rispondo: Tanto lo sai come andrà a finire. La scrivi e poi, quando la rileggi, non ti piace e e così la distruggerai. Come sempre.

Dico altro a me stesso, però, quella sera, prima di mettermi a scrivere. Qualcosa di importante.
Dico, mi dico: Raccontami una storia.

Scrissi per un paio d’ore. Mesi dopo – era Pasqua, c’era una riunione familiare e io ero fuggito – mi ritrovo da solo in redazione, al giornale. Il bloc notes con la storia abbozzata l’avevo portato con me, ma non l’avevo riletta. Non l’avevo riletta pensando: Tanto poi la distruggerò, come sempre.
E invece leggo e, per la prima volta, mi piace quello che sto leggendo. Ho come la sensazione che non sia stato io a scrivere…
Infatti. Ero uscito da me stesso.
Anni dopo scoprirò Pontiggia, i suoi insegnamenti. Scrivere significa sorprendersi.
Quando avevo scritto l’incipit del libro non avevo la minima idea degli sviluppi che avrebbe avuto quello che stavo scrivendo.
Stavo scrivendo con la mano, non con la testa.

L’incipit.

Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.

Terminai di scrivere “Il quaderno delle voci rubate” prima del mio quarantesimo compleanno. Poi cominciai a spedirlo a editori vari. Non lo feci leggere ad amici o parenti. Non mi fidavo.
Ma vedendo che dagli editori o non arrivavano risposte o arrivavano solo risposte negativo cominciai a vedere nero. Non solo all’altezza, pensai.

Un giorno mi viene in mente di fare una cosa. Di far leggere il manoscritto a una scrittrice di Vercelli ma che lavorava a Milano: Laura Bosio. Non ci conoscevamo personalmente. E comunque. Le inviai il manoscritto scrivendole (più o meno) così: Pensa che posso continuare a scrivere? E questo manoscritto? È da buttare oppure no?
Mesi dopo sono al giornale. La segretaria mi passa una telefonata. È Laura Bosio. Mi dice che il libro le è piaciuto, tanto. Poi mi dà alcuni consigli, c’era qualcosa da rivedere infatti. Infine mi dice che devo spedirlo a qualche piccola ma valida casa editrice (forse Interlinea di Novara).
Ne parlo al giornale. Direttore ed editore mi dicono. Dal momento che c’è il parere favorevole di Laura Bosio possiamo pubblicarlo noi, dal momento che La Sesia è anche una casa editrice…

E così fu. Un migliaio di copie de “Il quaderno delle voci rubate” nel 2002 andarono agli abbonati del giornale La Sesia.
Altre, furono messe in vendita.
L’anno successivo, il 2003, scriverò Dicono di Clelia, inviandolo a Mursia. Che mi pubblicherà (nel 2006, però).

Infine.
“Il quaderno delle voci rubate” è stata ristampato due anni fa da I buoni cugini, casa editrice di Palermo.
L’ho cambiato. Sono diversi i primi due capitoli, diverso il finale e altro. La sento più mia questa seconda edizione.
Due cenni sul libro. Racconta la storia di un uomo che torna al suo paese e riapre la locanda del nonno. Un giorno, nel vecchio bar, una studentessa dimentica un quaderno nero, dalla copertina lucida. Il protagonista – si chiama Luca Baldelli, ha sessant’anni – comincia a scrivere cose. Per esempio, le voci che sente dai suoi clienti e che si confidano senza fare caso a lui…

Ecco un estratto.

Mentì anche quell’uomo, con un solito “Bene grazie” che mi diede lo spunto per scrivere altro. La sua fu la prima voce.
Arrivò solo. Avrà avuto fra i quarantacinque e i cinquant’anni, non di più. Era distinto, eppure avevo la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di strano.
Comunque aveva una faccia simpatica, da persona importante; importante ma cordiale. Oramai ci ho fatto il callo, io: i gasati li annuso subito. Quell’uomo poteva essere un bravo medico, di quelli che pensano a curarti e non alla parcella, o uno scienziato, un pianista, uno scrittore. Esclusi che si potesse trattare di un politico: è una razza, quella, che, difficilmente ha dell’umanità negli occhi. Ordinò una birra bionda, alla spina.
«Se vuole, gliela porto al tavolo.»
«La ringrazio, ma preferisco sgranchirmi le gambe, sono stato seduto per ore al volante.»
Poi, senza che io gli avessi domandato altro disse: «Sto attendendo una persona.»
Aveva l’aria di uno che non vede l’ora.
E in effetti continuava a guardare il vecchio pendolo, vicino alla porta d’ingresso. Dopo un po’ si decise. Ordinò un’altra birra e si accomodò in fondo alla sala, lontano da me, quindi, e da Benito e Francesco, due pensionati che, in un tavolo vicino al banco, concentratissimi giocavano a dama.
Era un afoso pomeriggio di luglio di quattro anni fa, e quell’uomo era madido di sudore. Ricordo che ogni tanto si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco che aveva nella tasca interna della giacca color blu notte, appoggiata sulle spalle.
Arrivò la persona che aspettava. Era una signora piuttosto anziana, poteva avere una settantina d’anni portati molto bene, tutta ingioiellata e profumata. Vestiva un completino viola, il mio colore preferito. Appena la vide le andò incontro. Si abbracciarono e si baciarono con affetto.
«Allora Sandro, come va?» disse lei.
«Bene grazie.»
Si sedettero, sempre nello stesso tavolo.
La signora, dopo aver ordinato un bicchiere di acqua naturale, mi domandò se avevo qualcosa di solido – «e di gustoso» specificò – da mangiare. Proposi della crostata di mele fatta in casa.
«Anche se sono fuori orario, devo ancora pranzare. Che ne direbbe invece di un bel prosciuttino crudo magro, oppure meglio: ha della buona bresaola?»
«Ho una bresaola squisita.»
«Benissimo, mi faccia un bel panino e me la condisca con limone, olio di oliva e tanto pepe; mi raccomando il pepe, ho uno stomaco di ferro, sa?» disse con un bel sorriso.
Quella signora elegante e disinvolta emanava vitalità. L’uomo invece pareva inebetito, stanco. Fissava il vuoto.
«Gradisce un’altra birra?»
«Come scusi? Ah sì, grazie, un’altra alla spina va benissimo.»
Quando tornai dalla cucina con birra e bresaola i due pensionati, che avevano terminato la loro partita a dama, si erano spostati nell’altra sala del bar, la più piccola, che è più ventilata perché dà sull’esterno dove c’è un piccolo spiazzo dove una volta mio nonno coltivava rose e pomodori.
Col vassoio mi avvicinai al tavolo dei due clienti venuti da chissà dove; l’uomo, che stava parlando, mi dava le spalle. Non badò a me. Il tempo di avvicinarmi, di posare il vassoio sul tavolo e di allontanarmi mi fu sufficiente per ascoltare.
«Non mi ha sentito rientrare, non sapeva che io fossi in casa. Per puro caso, sento che dice: Tu almeno hai un padre che è qualcuno, il mio è una nullità. Anzi no, ha detto di peggio; ha detto: Tu hai un padre che è qualcuno, il mio non vale un cazzo. Ho pensato: starà imitando qualche comico, di sicuro non si sta riferendo a me. Però volevo esserne certo. Così, senza fare rumore lo raggiungo. Non stava imitando nessuno: steso nel letto, stava parlando al telefonino con un suo amico, credo. L’ho visto per un attimo, lui non si è accorto di me perché aveva il braccio che gli copriva gli occhi.»
Posai velocemente il vassoio sul tavolo, poi, a testa bassa, con la sensazione di avere addosso lo sguardo della signora, mi allontanai. Ma feci in tempo a sentire un’altra breve frase, sempre di lui: «Sono giorni che ci penso, ci penso e piango.»
Anch’io, come quell’uomo che non vidi mai più, avevo sentito per caso.
Fu la prima “voce” che segnai nel quaderno dopo la pagina bianca dei “Come va?”
Ne capitano poche di “voci” così. Una, massimo due in un anno.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: scrivere per fuggire lontano (2)

Prima di parlare di libri miei ed esperienze editoriali e altro, una premessa.

Una donna di 37 anni. Ha due figli. Uno di sette, l’altro è appena morto, aveva solo dieci mesi. Non è mai stata una donna allegra. Sorride per buona creanza. Dopo la perdita del figlio si chiude in se stessa, sempre più.
Un uomo, anche lui di 37 anni. Lavora in fabbrica, ma la odia. Tornerebbe a fare il contadino. È forte, ma il nervoso è più forte di lui, così gli viene l’ulcera, va avanti a pastiglie Roter e riso in bianco, che odia. Non salta mai un giorno di lavoro. Quando torna a casa, si copre con una coperta e si corica sul divano, raggomitolato.
Insomma, i miei genitori quando ho sette anni. Vado a scuola e a scuola vado male, così, per punizione, mamma mi manda all’oratorio solo mezz’ora al giorno. Se tardo di cinque minuti il culo è assicurato. Soldi per comprare i fumetti non ce ne sono, nemmeno la tivù c’è. Però c’è la radio. Gracchia, ma per me è tanta roba.
La tivù la guardiamo al bar, due volte a settimana: il giovedì e il sabato. Nel bar le donne stanno davanti, appunto a guardare la tele, gli uomini in fondo, a giocare a carte. Se fanno baccano le donne li sgridano.
Io mi arrabbio sempre: se c’è un western le signore chiedono al padrone del bar di cambiare canale.
Mi fanno odiare Nilla Pizzi, Morandi e il festival di Sanremo, la mamma e le altre signore.
Ma ho comunque un ancora di salvataggio. Quando fingo di studiare, quando fingo di dormire, la sera. Ho un mondo dentro, tutto mio, inventato. Di cowboy ed eroi. E cavalli. Cani. Praterie. E una casa di legno…. che ricorda tanto la baita di Romolo Strozzi, protagonista del mio ultimo libro, La Suora.
C’è anche un angolo della memoria per Fabrizio, il mio fratellino morto… C’era e c’è, ancora oggi.
Ma torniamo ad allora.
Il poco che vedo in tele oppure al cinema (grande concessione di mia madre, ogni domenica potevo andarci) mi basta per tessere altre trame, altre storie. Che poi mi piace raccontare agli altri. A scuola racconto film che non ho mai visti. Girati nella mia testa. Gli altri mi ascoltavano rapiti. Solo una volta – e ci rimasi male – un mio compagno mi disse: Non ci credo che hai visto questo film.
Anni grigi insomma, però c’era l’estate. Che ad agosto, significava tornare a Cortona. La mamma e il babbo, lì, erano diversi, e io a Cortona stavo all’aria aperta dal mattino alla sera. Sempre in mezzo ai cani. Non avevo bisogno di fughe. Mio zio mi svegliava alla tre di notte per andare a caccia, oppure mi faceva vedere come confezionava le cartucce per il suo sovrapposto calibro 12. Mi piaceva sparare ai barattoli, mi piaceva mio zio cacciatore. Ci rimasi male, però, quando vendette per 100mila lire il cane Battaglia, il mio preferito. Mio zio, a Battaglia, aveva insegnato ad arrampicarsi sugli alberi, come un gatto. Un giorno un signore di Roma, passando con l’auto vide. Accostò, bisbigliò qualcosa allo zio, aprì il portafoglio…

Cortona e i miei libri appaiono spesso sulla mia pagina Facebook. Storia di oggi, storia di ieri, di sempre.
In quegli anni, i miei libri erano le mie fantasie, Cortona era invece il posto più bello al mondo. Bella come Mompracem. Non m’importava se i miei parenti, mezzadri e poveri, non avessero nemmeno il bagno: certo, un po’ di schifo nell’andare a fare la cacca in un fosso e pulirmi il sedere con le foglie l’avevo, come no.
Perché scrivo? Forse cominciai allora… e in effetti i miei libri prima che su carta io li scrivo dentro la mia testa, passeggiando (La donna di picche per esempio è nata così).
Quel periodo nero durò poco. Quattro anni.
Quando avevo undici anni nacque mia sorella Silvia e i miei comprarono la televisione. Mia mamma, rinacque. La vidi allegra, la vidi contenta forse per la prima vera volta. Grazie alla mia sorellina. Non solo. A undici anni entrano nella mia vita i libri. Fino ad allora solo Tex e libri per bambini, come Il gatto con gli stivali, oppure Cuore, letto e riletto, Pinocchio.
Una ricca signora, compaesana dei miei, un giorno dice alla mamma: Ma Remo, legge? Mi sommerse di libri. Salgari. Verne, Dumas. Tom Hill (dieci libri su David Crockett). Dagli undici, dodici anni fino ai diciotto, diciannove ho passato ore e ore e ore a leggere, rinunciando, spesso, a uscire con gli amici.
A 17 anni, faccio la mia prima taglia da scuola. Vado in un bar, il cameriere è un mio amico, Mi rintano in un angolo a leggere L’inverno del nostro scontento, di Steinbeck.
Steinbeck, Remarque, Berto, Pratolini… Poi Marx, Engels, Trotsky soprattutto.
«Mamma, domattina svegliami alle 6 che così ripasso». Mi svegliava, mi portava il caffè a letto e io, mentre ascoltavo una trasmissione radiofonica intitolata “Caffè, canzoni e poche righe” leggevo di tutto, tutto ma non i libri di scuola (fui rimandato due volte: in prima media e quarta agraria. Il mio voto preferito era dal cinque al sei).

Sognavo di scrivere, allora? Forse.
Ricordo una sera. Io e mamma guardavamo un film in bianconero. Lei stirava. Era la storia di uno scrittore. A me non colpì il finale, che nemmeno ricordo (comunque diventò famoso). A me colpiva il quotidiano di questo scrittore. Chino sulla macchina da scrivere fino a notte fonda e poi, al mattino, una corsa alla cassetta delle lettere per vedere se ci fossero risposte positive, oppure no, di qualche editore.
La prima risposta negativa io la ricevetti nel 1997. Fu come un pugno allo stomaco. Dalla casa editrice Frassinelli, a cui avevo mandato il manoscritto del mio primo libro: Il quaderno delle voci rubate, che poi è diventato Il bar delle voci rubate e di cui parlerò nel prossimo post.

E scusatemi se l’ho fatta lunga…

Un “Quasi diario” di uno scrittore di serie D

Non sono uno scrittore di serie A, e nemmeno di B o C. Penso di essere in quarta serie, insieme ad altre centinaia. Ho comunque deciso di fare una cosa. Raccontare tutti i miei libri. Due cenni sulla trama, il racconto di come sono arrivato alla pubblicazione. A quanti editori mi sono rivolto. Editing, vendite, tutto insomma. Qualche aneddoto che può interessare chi vuole pubblicare il libro. Anche la scelta della copertina. Senza dilungarmi troppo. Quattordici libri, quattordici puntate. Alcune saranno brevi brevi, altre no.

Alla prossima: oggi pomeriggio o domattina.

Al termine di una presentazione a Martina Franca, una quindicina di anni fa

Un angelo con le scarpe rotte… Insomma, un incipit “in crescendo”

Non è un romanzo. È un saggio sulla vita di un uomo. Di uno scrittore. Di un anarchico. Però dimenticato. Massimo Novelli, non sempre a volte, anzi spesso scrive saggi che sembrano romanzi. Durante i corsi di scrittura che ho fatto ho sempre letto questo incipit. Non è folgorante. È in crescendo. Ti conquista parola dopo parola.

Morì povero come aveva vissuto.
Povero tra i poveri, per loro aveva sofferto, aveva combattuto e aveva scritto senza nascondere niente.
Aveva anche scritto che Gesù Cristo lasciò i poveri in eredità agli apostoli.
Un vecchio, suo compagno di stanza al Policlinico, disse che se n’era andato con un sospiro.
Nient’altro che questo, un sospiro di povero.
Era destino morire accanto a un vecchio. Fin da bambino li aveva frequentati, i vecchio erano stati i suoi amici e i suoi compagni di asili notturni e di fienili, di galere e di stazioni, i maestri polverosi lungo strade di polvere.
Morì un mercoledì di primavera, alle due di notte, e forse quel vento che addolciva Roma aveva portato con sé l’odore di altri venti, magari c’era l’odore di Livorno in quei venti.
Odore e profumo di cacciucco allo zenzero. Il cacciucco che si sognava nelle sere affamate di New York.
Odori della Venezia nuova, degli Scali, di piazza Cavallotti, dei Domenicani. E luci delal Darsena, ombre di piazza Grande, alberi e mercato di Piazza San Benedetto.

(…)

Era appena cominciato il giorno 17 di maggio dell’anno 1956 quando morì.
In seguito, prima di dimenticarlo, avrebbero detto che era morto l’angelo povero della letteratura italiana.
Un angelo con le scarpe rotte.

Un certo Ezio Taddei, livornese. Di Massimo Novelli.

Vorrei essere uno scrittore famoso, ecco perché

Sincero, sincero, sincero. Vorrei diventare, barra essere, uno scrittore famoso.

Lo fossi, famoso, non farei più presentazioni, né spaccherei le balle al prossimo con copertine, recensioni o altro sulla mia pagina facebook. Che mi piacerebbe tanto salutare…

Ma non farei la figa, mai e poi mai. Giuro.

Vuoi scrivermi una mail per parlare del mio libro? Io, scrittore famoso, ti risponderò.

Vuoi chiedermi consigli? Ti risponderò.

Vuoi che legga qualcosa di tuo? È cosa che faccio già adesso. Ti dico: mandami una sinossi e il primo capitolo, appena posso leggo. Poi risentiamoci. Mi spiace di non poter leggere tutto, ho poco tempo per leggere, lavorare, vivere.

Vuoi che ci vediamo con altre cinque sei sette massimo dieci persone in un bar per discutere di un mio libro e di scrittura? Va bene.

Vuoi che venga a dire il poco che so, sempre di scrittura, in una scuola, in un carcere, in un circolo? Certo che vengo.

Vuoi che faccia un corso gratuito, dal vivo oppure on line, per raccontare le poche cose che so sulla scrittura e sull’editoria? Organizziamoci.

Parentesi sulle presentazioni. Di tante, ho dei bei ricordi. E poi vanno fatte: è un modo di ripagare, vendendo qualche copia, soprattutto piccoli e seri editori che hanno creduto e investito in te.

E comunque.

Non sono diventato famoso, non lo diventerò. Farò ancora qualche presentazionie del mio ultimo libro (La suora, Golem Edizioni) e ne darò notizia sulla mia pagina facebook.

Ma – famoso o non famoso – la voglia di scrivere, e non era mai successo, sta andando via.

Da giorni ho in mente un giallo da due, tre soldi. Se scrivo vivo meglio (è una vecchia storia questa, magari la racconterò) ma ora come ora preferisco non scrivere. Anche di questo dirò, forse. O forse no.

Scrivere. Serino. Mi guardo indietro

Sulla sua pagina facebook lo scrittore e critico Gian Paolo Serino ha scritto:

A me “quelli” della letteratura m’hanno un pochino rotto il cazzo. Vivono in un sistema editoriale che credono uno “star system” e non se li fila nessuno. Credo che gli scrittori davvero meritino che in Italia non legga quasi nessuno. Non li compra nessuno e continuano a vendersi a tutti. Questo è il vero problema: in Italia, nessuno vive e pensa che la Letteratura debba essere rock.

Io ho scritto questo commento.

Pubblicare, non pubblicare, vendere 500 copie, 5000 copie oppure nessuna. Cambia poco. Mi guardo indietro, contento solo di non aver fatto parte di gruppi o sottogruppi, di aver scribacchiato. Ecco sì, scrivere, se non hai voglia di pregare o di angosciarti scrivi, mi son detto, da sempre. Il mondo editoriale una volta mi interessava, ora non più. Fa schifo? Non lo so. Ma se fa schifo oggi mi sa tanto che faceva schifo anche vent’anni fa. Che poi, stringi stringi: se non ti cacano, fa schifo, altrimenti…

E non la baciai

Dal libro, Il bar delle voci rubate

Una fitta nebbia si era sostituita alla pioggia. A malapena si scorgevano le luminarie di qualche negozio. Da affollata e caotica, via Po era diventata deserta e un po’ triste, ma a me sembrava bellissima. Lalla era lì, accanto a me, il mio gomito sfiorava il suo. Mi feci coraggio e le presi la mano. Si fermò, mi fissò negli occhi, chinò leggermente il capo verso sinistra.
E io, estasiato dai suoi occhioni neri, non la baciai.

Non fu paura, no. Fu che persi tempo, che calcolai male il tempo. Lasciai passare troppi secondi. E lei, a un tratto mi disse «adesso devo proprio andare.»
A diciotto anni certi errori sono permessi. A trentasette no.
“No resta, voglio tenerti ancora la mano, voglio parlare con te fino a domattina, voglio baciarti, abbracciarti forte, fare l’amore con te” avrei voluto gridare. E invece – accidenti a me – la salutai consegnandola così a Gianfranco.

Nora, la mia pelle

La vita è fatta di incontri. Molti ci segnano, altri diventano ricordi tra mille altri, nella piccola sacca della nostra memoria. La mia vita sentimentale e sessuale non è granché, ma un po’ di donne, poche per carità, le ho avute. Belle parentesi che hanno abbellito la mia esistenza, e che poi diventano ricordi che volano via, come polvere. Eppure, ci sono certi granellini di polvere che si appiccicano alla nostra pelle e non c’è verso, non c’è vento che li porterà via.
Entrano dentro, diventano pelle.
Nora è quel granellino, Nora è nella mia pelle.

da La suora

Vittorio Grotti non esiste: è ovunque

Vittorio Grotti
nato a Capezzano di Camaiore

Io sono come il muro
d’argila
cadrò assieme alla Sfinge
spero senza fragore.

“Vissuto malauguratamente
un po’ più in là
morto dovunque”


Dopo quaranta anni, non lo ricerco più, mio padre. (…)
A volte si posa su una foglia, altre volte prende le correnti ascensionali come un rapace fiero…
Si posa nell’altrove e qui, per chiunque. Si dissolverà, ritornerà come Odisseo, anche dopo lunghi, lunghissimi anni, nella sua amata Versilia.
Vittorio Grotti non esiste: è ovunque.
Esther Grotti

Vittorio Grotti finì il suo troppo breve viaggio il 24 febbraio 1981, aveva solo 42 anni. Era nato dunque nel 1939…. inizia così un bell’articolo di Aldo Belli, direttore di Toscana Today, che potete leggere QUI

LA PAGINA FACEBOOK DEDICATA A VITTORIO: CLICCA QUI

IL LIBRO: CLICCA QUI

E infine: un grande abbraccio a Esther. Orgoglioso di averle inviato, mesi addietro, una mia piccola testimonianza su Vittorio.