Non è un romanzo. È un saggio sulla vita di un uomo. Di uno scrittore. Di un anarchico. Però dimenticato. Massimo Novelli, non sempre a volte, anzi spesso scrive saggi che sembrano romanzi. Durante i corsi di scrittura che ho fatto ho sempre letto questo incipit. Non è folgorante. È in crescendo. Ti conquista parola dopo parola.
Morì povero come aveva vissuto.
Povero tra i poveri, per loro aveva sofferto, aveva combattuto e aveva scritto senza nascondere niente.
Aveva anche scritto che Gesù Cristo lasciò i poveri in eredità agli apostoli.
Un vecchio, suo compagno di stanza al Policlinico, disse che se n’era andato con un sospiro.
Nient’altro che questo, un sospiro di povero.
Era destino morire accanto a un vecchio. Fin da bambino li aveva frequentati, i vecchio erano stati i suoi amici e i suoi compagni di asili notturni e di fienili, di galere e di stazioni, i maestri polverosi lungo strade di polvere.
Morì un mercoledì di primavera, alle due di notte, e forse quel vento che addolciva Roma aveva portato con sé l’odore di altri venti, magari c’era l’odore di Livorno in quei venti.
Odore e profumo di cacciucco allo zenzero. Il cacciucco che si sognava nelle sere affamate di New York.
Odori della Venezia nuova, degli Scali, di piazza Cavallotti, dei Domenicani. E luci delal Darsena, ombre di piazza Grande, alberi e mercato di Piazza San Benedetto.
(…)
Era appena cominciato il giorno 17 di maggio dell’anno 1956 quando morì.
In seguito, prima di dimenticarlo, avrebbero detto che era morto l’angelo povero della letteratura italiana.
Un angelo con le scarpe rotte.
Un certo Ezio Taddei, livornese. Di Massimo Novelli.