A proposito di vendite (lettera di un’amica)

Post non facile, questo: sulle vendite dei miei libri.
Una persona amica, due giorni fa, mi ha inviato una mail. Mi ha scritto: Guarda che sbagli a scrivere che i tuoi libri vendono poco.
Mia riposta: Hai ragione, ho una certa propensione a evitare le autocelebrazioni In effetti, ho aggiunto, con La donna che parlava con i morti, libro oggi ristampato da Il vento antico, dopo la prima edizione, di 4000 copie, ci fu una ristampa di altre 1500 copie).

In genere, case editrice e scrittori tendono a barare un po’ sulle vendite.
Non tutti.
Mozzi per esempio è sempre stato sincero, e se oggi dice che Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi sta andando a gonfie vele tra vendite e ristampe vuol dire che è così.
Ed era sincero Vitaliano Trevisan, morto da poco, che per molti è il migliore scrittore italiano, quando sulle sue pagine di facebook diceva che dei like non se ne faceva nulla, comprate i miei libri piuttosto, diceva, lamentando basse vendite.

Vengo a La suora. A distanza di un anno continuo ad avere dei riscontri positivi su Amazon.
Continuerò a promuoverla, parlandone, facendo presentazioni eccetera.
Ricordo ancora – era il 2003 – quando andai nella sede della casa editrice Mursia a firmare il primo contratto. Mi fanno vedere due libri. Mi dicono: questo è stato recensito da tanti giornali, questo no. Sa quale dei due ha venduto di più? Quello non recensito. E sa perché? Perché per le vendite dei libri vale soprattutto il passa parola.
Vale il passa parola, aggiungo io, ma vale anche pubblicare con una casa editrice ben distribuita (poi certo, altro discorso, se uno va in tv stravende…).
Fine del post, insomma, oggi seguo i consigli della persona amica che mi ha scritto.

Vedo solo ora (aggiornamento delle 15,14).
Anche gli ebook de La donna di picche, qui sotto, e de La donna che parlava con i morti (sotto) non sono messi male nelle classifiche Amazon.

“Quasi diario” di uno scrittore di serie D: il quarto libro e la potenza di radio e tv (settima puntata)

Estate del 2006. E’ uscito Lo scommettitore, che a luglio è diventato anche Il libro del mese della trasmissione Fahrenheit, di Radio Rai 3. Sono in Spagna (a Valencia), ospite di amici. Ho dietro il computer. Mi serve per aggiornare questo blog, mi serve per scrivere: ho in mente una storia, che però non decolla.
Il computer si rompe. Ne ho un altro, ma senza connessione. Così la notte, quando gli altri dormono, scrivo; per il blog e la posta elettronica faccio così: appena sveglio, mezz’ora a piedi da dove sono io c’è un bar con alcuni pc: mi collego e scrivo cose varie sul blog, il tempo di un paio di caffè e un paio di sigarette (Gitanes senza filtro).

In un post scrivo che ho in mente di scrivere, anzi no che sono alla prese con la stesura del mio quarto libro, che non ho ancora in mente il titolo, ma che parlerà di una donna che parla con i morti, che ho conosciuto.
A settembre ricevo una telefonata dalla Newton Compton. Sono interessati, mi dicono, al mio nuovo romanzo. Insomma, a differenza del passato, non sono io a proporre un manoscritto a una casa editrice ma è il contrario.
Probabilmente, la Newton Compton vide delle potenzialità nel libro, inoltre sapevano che ero stato “Libro del mese” di Fahreneheit.
Vado così a Roma, a firmare un contratto al buio. Conosco così Raffaello Avanzini, AD della casa editrice. È giovane, di poche parole.
Mi fa una domanda: Cos’è importante per un libro?
Non rispondo, attendo che sia lui a spiegare, a dire.
Mi dice: Tre cose. Uno, la distribuzione. Due, il titolo. Tre, la copertina.
Chiaro: autore e scrittore, per lui, vengono dopo. Affinché un libro venda credo che avesse ragione. Discorso, lungo, comunque.

Torno a casa e da novembre a febbraio scrivo il libro. Allora ero direttore del giornale La Sesia. Andavo a lavorare alle 11 del mattino e restavo in redazione fino alle 22, anche le 23 o 24 se serviva. Scrivevo quindi di notte: da mezzanotte alle cinque, Verso le tre, per evitare di addormentarmi, mangiucchiavo qualcosa. Risultato: in quei mesi ingrassai di quasi 10 chili (che non ho perso).

Il libro all’inizio mi faceva tribolare. Scrivevo e distruggevo. Poi mi compare, come in un sogno, Anna Antichi. È una commessa di libreria, innamorata di un poliziotto vedovo che scompare. È divorata dai sensi di colpa, Anna Antichi: suo padre, Leone l’anarchico, è morto mentre lei stava festeggiando un esame universitario. Non avrebbe dovuto, pensa. Perché sapeva che suo padre soffriva di cuore. La donna che parla con i morti sta sullo sfondo.

In libro è andato bene (4000 copie prima tiratura e 1500 la seconda) e non è andato bene. Un pessimo editing (un anno dopo, sempre con la Newton, mi trovai invece benissimo con Antonella Pappalardo, bravissima e competente editor… una delle migliori incontrate sulla mia strada).
Fu anche recensito, e bene. Per esempio da Famiglia Cristiana, da Repubblica Torino… Addirittura il giornale Liberazione mi dedicò mezza pagina…. che non ho incorniciato: sbagliarono foto. Misero quella di Marino Magliani (candidato allo Strega) al posto della mia. Succede.
Ma è meglio la nuova edizione de Il Vento Antico. Con Lilli Luini editor abbiamo rivisto errori del vecchio libro, anche miei.
Insomma, la radio (Fahrenheit) mi aveva fatto approdare a una casa editrice medio grande. Anche il blog, in parte.

Che la radio e la televisione siano di estrema importanza lo capii anche nell’estate di due anni dopo.

Marino Magliani (allora ci sentivamo spesso, ora ci siam persi di vista) mi invita a una rassegna, a Porto San Maurizio, Imperia. Invita me e altri due scrittori, più quotati di me. C’è da scegliere la data. Due presentazioni a fine luglio, una ad agosto. I due scrittori (più quotati) scelgono fine luglio. A me resta dunque la data d’agosto.

Ma succede questo: che quel giorno d’agosto, mentre sto per partire da Vercelli, squilla il telefono. E’ la Rai, sede ligure di Genova. Evidentemente quel giorno non era successo nulla e quindi mi intervistano su libro e presentazione. Non solo. La sera, quando arrivo a Porto San Maurizio c’è anche una telecamera Rai, per una breve intervista.
Non ricordo il nome del posto, al chiuso, ma c’era il pienone. E il libraio vendette più di trenta copie del libro. Mi pare trentacinque.
C’erano dei vercellesi in ferie da quelle parti. Alcuni vennero. Che io scrivessi libri lo appresero quel giorno, dalla radio.
Insomma, radio e televisione, soprattutto se potenti, aiutano, e non poco.

Infine, altra considerazione. La mia ambizione è scrivere, mi basta un editore piccolo, ma serio. Mi basta e mi bastava. Mentre stavo scrivendo La donna che parla con i morti, un’agenzia letteraria (sulla base dei primi capitoli) mi disse: Perché non proponiamo il libro a un editore più grande? A me Newton Compton bastava e avanzava. E poi volevo essere corretto fino in fondo. Se stavo scrivendo il libro lo dovevo ad Avanzini.
Sbagliai. Nell’editoria ognuno pensa a sé.

La donna che parlava con i morti è un giallo. Il titolo lo scelse Avanzini. Ne parlai con la compianta Tecla Dozio, della Libreria del giallo (Tecla e la Libreria, conoscenze che avevo fatto grazie alla scrittrice Elisabetta Bucciarelli). Mi disse che era un buon titolo, giusto; sebbene la donna che parla con i morti è un personaggio secondario, la vicenda ruota attorno a lei. Al centro di tutto ci sono lei e una moneta, simbolo del senso di colpa… che è il vero colpevole dell’omicidio di cui parla il libro. Ecco l’incipit (edizioni de Il vento Antico).

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano – ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne – che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.
E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.
La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.

La donna che parlava con i morti – 2

Sempre La donna che parlava con i morti, prime pagine. Continua, insomma, il post precedente

Sono tristi le risaie d’inverno, ma resterò sempre qua, tra queste nebbie che avvolgono i miei ricordi. Sono in treno, ora. Ho le cuffie, così nessuno prova ad attaccar bottone e non sento il casino degli studenti. Sto ascoltando La ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez.
… resterai sempre un po’ anarchica, vero Anna?
Comunque. Finalmente faccio quello che volevo fare anche se, quello che faccio, non è bello come ti fanno credere certi libri o film.
C’è sempre troppa nebbia attorno alla nostra vita. Troppo dolore.
Ho appena risolto un caso e oggi è una giornataccia.
Uno schifo di caso: una giovane madre che, dopo aver scoperto ed essersi data al sesso estremo con il vicino di casa pervertito, ha deciso di gettarsi giù dal sesto piano, vorrei non pensarci ma devo vedere suo padre, il cliente insomma, ho appuntamento alle undici, merda. Devo dirgli la verità – per questo è una giornataccia – altrimenti quello continua a sospettare che sia il genero la causa della morte della figlia, e anche se il genero è un senzapalle che non sa da che parte è girato e che vive per andare allo stadio la domenica, è giusto che la bambina resti a lui.
Mi sto specializzando nelle morti misteriose e nella ricerca di persone scomparse.
La sveglia da anteguerra, ora, mi butta giù dal letto alle sette di mattina. Da due anni. Vado in stazione, prendo un caffè e poi, aspettando il treno che, in un quarto d’ora, venti minuti, mi porterà a lavorare fumo la seconda sigaretta della giornata.
Risaie e ricordi, risaie e ricordi, risaie e ricordi, arrivo, frenata, si scende, caffè al bar della stazione, poi terza sigaretta e via a piedi e in fretta in ufficio.
Ho preferito diventare una pendolare che trasferirmi. Sono troppo attaccata alla mia città. Alla casa che mi ha lasciato mio padre.
La titolare dell’agenzia, mi trovo bene con lei, ha cinquantadue anni ben portati, è specializzata, lei, in corna e spionaggi industriali, mi ha proposto di diventare sua socia; accetterò.
Mi lascia poco tempo libero questo lavoro. E un po’ mi ha cambiata. Sono meno sboccata, ad alcuni clienti dava fastidio; e quando sono distratta non devo gettare per terra i pacchetti di sigarette vuoti e poi cerco di vestirmi in modo decente. Mi arrangio al mercato, comunque, sono mica una figalessa da boutique, io.
A volte, quando mi sento sporca (e vado in crisi) perché lavoro per clienti senza scrupoli, o mi intrometto nella vita degli altri, nei loro tradimenti (in caso di necessità pure io mi occupo di corna) e nelle loro debolezze, rimpiango il lavoro in libreria.
Oggi lo preferirei: perché quando dirò a quel vecchio chi era sua figlia, lo so, mi odierà, mi maledirà; poi mi pagherà; poi, quando me ne sarò andata, bestemmierà, immaginerà la sua bambina che si fa legare a un letto, nuda, che si fa frustare; e poi piangerà, si ricorderà di lei quand’era piccola mentre io passerò il resto della giornata a pensare che sarebbe stato meglio essere in libreria piuttosto che ferire, in modo così atroce, un uomo.
Spero mi creda, spero proprio non mi costringa a mostrargli le foto che mi son fatta dare dal vicino di casa pervertito (l’ho costretto, altrimenti lo denunciavo).
No, no, non devo rimpiangere il mio passato. Vado, racconto, incasso. Ma ricorderò sempre chi ero.
…. due anni fa, giorni che non potrai dimenticare mai, vero Anna?

 Alla riapertura della libreria mancava un giorno. A settembre mancavano invece dieci minuti. Esatti. Guardando l’ora, Anna ipotizzò un brindisi di mezzanotte, come si usa a capodanno. Ci ripensò: era un’idea cogliona.
… di una stupida, inutile commessa di libreria, pensasti. Ti sentivi così. Si è sempre quel che ci si sente. Ma dentro dentro, nelle viscere.
Si alzò dallo sdraio, sistemato al confine tra balcone e camera da letto, spense la radio che trasmetteva un concerto jazz, ma non era serata, quella, per chiudere gli occhi e rilassarsi, ripose in una mensola un vecchio giallo di Georges Simenon, da due ore imprigionato tra la sua mano ed il ventre. E con una birra per salutare l’arrivo del nuovo mese, «sono una stupida commessa, ma di fantasia», disse stappandola (da un po’ di tempo parlava da sola), trascinando lo sdraio uscì sul balcone. A lasciarsi avvolgere dalla noia e dal fumo. Una sigaretta dopo l’altra, scacciando zanzare e bevendo birra, con gli occhi distratti sulla strada: sui fari delle macchine; su due gatti che si rincorrevano; su uomini e donne che rincasavano.
Settembre, senza brindisi e senza farsene accorgere, era arrivato; e, con lui, la notte che si confonde al mattino: con altri uomini e donne assonnati che, dopo il primo caffè, uscendo di casa, per poco non s’incrociavano coi tiratardi.
L’ultima cicca di sigaretta finì sulla strada. Era brava, Anna, a far leva tra pollice e indice e lanciare il mozzicone, che diveniva un piccolo razzo luminoso.
Non restava che coricarsi, aspettare l’arrivo del sonno, svogliatamente, con l’abat jour e il vecchio computer accesi, tanto chissenefrega.
Un’altra notte senza guardare se in cielo ci fossero luna e stelle. Un’altra notte a maledirsi e maledire Fabrizio, la sua fuga.
Non poteva sapere, lei, che la maledizione veniva da lontano, da molto lontano.

inventarsi nomi, scrivendo

Lo ricoverò e lo salvò, squartandolo come un maiale; e quando, dopo l’operazione, lo ricucirono, persero il conto dei punti di sutura. Il professore, in un colpo solo, gli tolse l’appendicite e la cistifellea e dopo gli aprì anche lo stomaco, perché aveva un’ulcera brutta, che l’avrebbe ammazzato. Il professore lo tenne in ospedale tre mesi e, l’ultimo giorno, quando lo dimise, gli si presentò davanti con una bottiglia di Vecchia Romagna, così brindarono e, con loro, nonostante la suora dimenasse il capo sconsolata, brindarono gli altri malati del vecchio ospedale.

Non so quanto di vero ci sia in questo racconto che mi ha fatto mio padre che a sua volta lo sentì da suo padre, mio nonno, nato nel 1880. Ma di sicuro, mio nonno e altri vecchi verso quel professore, che quando dimetteva un paziente brindava con lui con della Vecchia Romagna, nutriva ammirazione. Tanta.
Perché ho raccontato questo. Perché in coda all’ultimo post c’è una domanda, di Pispa. Che chiede:
sai remo? una cosa che non ho mai chiesto e voi scrittori e mi domando sempre, invece: ma come si scelgono nome e cognome di un personaggio?

Al personaggio del mio primo libro diedi il cognome di quel professore, Baldelli. E gli appiccicai un nome di battesimo, Luca, perché mi pareva suonassero poi bene, insieme, Luca con Baldelli.
Quel cognome, Baldelli, mi faceva risentire le voci di mio padre e di mio nonno.
Comunque.
E a volte, anzi no spesso, scelgo i cognomi inventandoli, e cercando, in questi cognomi inventati, o una certa musicalità oppure una mancanza totale di musicalità: punisco certi antipatici affibbiando loro un cognome brutto, insomma.

Ora sto scrivendo di un certo Limara… pensava Limara, si chiedeva Limara, si macerava dentro Limara.
Limara… amara: c’è assonanza.

Anna Antichi, invece, il personaggio della donna che parlava con i morti, ha un cognome ragionato. Studiato. Voluto. Una sorta di messaggio.

Su Famiglia Cristiana è uscita una recensione di Laura Bosio, sul mio libro. E Laura ha colto un aspetto importante della psicologia di Anna Antichi: è combattuta, si sente come lacerata: da una parte c’è il suo mondo, con gli aperitivi, le fighelesse (ome le chiama lei), le chat (che usa), dall’altro c’è il mondo, che Anna rimpiange, di suo padre, un anarchico alla buona. Ci tiene Anna, ad essere svegliata al mattino dalla vecchia sveglia che fu di suo padre, quelle che fanno rumore, tutta la notte, e che ti ritmano i sogni e i risvegli.

E mi fermo, ma vorrei rispondere anche a Morgan (che mi ha chiesto: Remo, mi pare sempre di capire, quando citi il tuo passato, che ci sia stata solitudine e rabbia, sbaglio?), ma son di corsa. Devo lavorare, poi stasaera devo andare presentare il mio ultimo libro (a Livorno Ferraris).
Cerco sempre, alle presentazioni, di dire cose diverse, cercano di rapportarmi anche a chi mi sta di fronte.
Un insegnamento, questo (di un certo Gian Renzo Morteo), che parte da alcune riflessioni sulla fruizione e sul teatro. E che sottende il rispetto del linguaggio e della cultura altrui.
Un conto è proporre l’Amleto a studenti universitari, un conto a degli operai.

E ora schiaccio su “pubblica” di questo blog e poi lavoro.
Brutta giornata, oggi: piove e fa freddo, qui in Padania.
Buona giornata, comunque.
E se ci son refusi scusate, come sempre. Ché ho scritto mangiano un toast.

son qua, adesso

Due anni fa aprii il vecchio blog, quasi per scherzo: avrei preferito un sito, meno grane.
Un sito dove comparissero i miei libri, due stavano per uscire, dove fosse ben evidente la mia mail così da poter dialogare con lettori e non lettori, dove inserire eventuali recensioni, magari foto, magari racconti.
Invece è successo che, nel vecchio blog, mi son raccontato, dicendo di mio fratello, che dall’agosto 2005 non c’è più, dei miei anni in fabbrica, di mio padre e mia madre, figli di quelle generazioni senza nome (come canta Guccini), della mia città, di Cortona, delle mie esperienze editoriali, che son poche e marginali. Sono uno dei tanti che ha pubblicato, sono un giornalista di provincia.
Non dimenticherò mai chi ero, anni fa: un anonimo operaio che timbrava e che magari sembrava un po’ strano, per via di un libro di Remarque sotto il braccio, insieme alla pietanziera.
Ho conosciuto gente, grazie a questo blog.
Bella gente per davvero.
Persone umili. Persone che soffrono. Persone dignitose. Persone di una generosità rara.
L’estate scorsa, che ho trascorso in Salento, ho incontrato blogger, oppure gente che veniva a commentare su Appunti.
Pochi giorni fa sono stato in Sicilia: ospite di amici che non avrei avuto, che non avrei conosciuto se non ci fosse stato questo aggeggio qua, il blog.
E che dire, allora, di Sermide?, dove Colfavoredellebbie è possibile qualsiasi magia?, perché più di 70 persone, in un centro di 6mila abitanti, che intervengono alla presentazione di un libro dal titolo strano e scritto da un autore sconosciuto è, certo, una magia, o forse no.
Ho provato a far di conto: e mi sono impressionato. Perché in due anni ho incontrato almeno una volta una trentina di blog, escludendo i raduni (come il lit camp di Torino) e posso dire d’averne conosciute altre cento di persone, con mail, telefonate anche. Qualcuno mi ha pure scritto, come si usava una volta, usando carta e penna.
Gente lontana, perlopiù, che non mi va di dire di questa cosa qui a vicini di casa o a chi lavora con me.
Tornassi indietro sì, rifarei lo sbaglio: riaprirei il blog. Ne sono certo.
(Anche se i veleni che si annidano nei blog e in certe teste di minchia colossali ti fan passar lavoglia, a volte).
E pensare, pensare che, proprio quando lo aprii, mi dicevo e dicevo a chi mi conosce che ero stufo di parlar di me ed ero stufo di conoscere gente.
Ché i miei colleghi di fabbrica non li voglio dimenticare, o non voglio dimenticare i miei compagni (donne, eran tutte donne a lettere a Torino) d’università.
Questo aggeggio qui è malefico, certo.
E poi.
Si perde tempo, ci si dimentica, spesso, che fuori è una bella giornata e che sarebbe preferibile una passeggiata allo schermo del pc, alle mail e tutto il resto.
O forse no.
Ci vorrebbe, certo, equilibrio. Che non conosco, io, o conosco poco.
Per cui eccomi qua, con Altri appunti, e poi vediamo.
Buona giornata
e benvenuti