boh, vedremo

Se tutto si fermasse così com’è, ora, direi Va bene.
Per tutto intendo i contatti in rete: di blog, di posta elettronica, di face (e fortuna che non uso quasi mai skype e mai messenger).
Credo che il problema che ho io sia un problema di tutti, chi più chi meno.
Ogni giorno nuovi incontri in rete, e dal momento che il tempo è quello che è, la sovrapproduzione di incontri, link, contatti, mail, alla fin fine si traduce in una cattiva gestione dei rapporti.
Siamo attratti dal nuovo ma il nuovo presuppone, dal momento che il tempo è sempre lo stesso, una infedeltà nei confronti del vecchio (dei vecchi contatti, insomma).
Quante sono le persone che, sempre più, si sono adirate con me perché non ho tempo?
Quante sono le persone a cui dovrei almeno scrivere perché son persone miti, che temono di di darmi fastidio?

E nella vita reale è quasi la stessa cosa.
Vedo persone oltre la vetrata (con veneziana, all’americana) del mio ufficio che, da lontano, mi salutano e dicono, ai miei colleghi, di non disturbarmi, che sono al telefono o con altra gente.

Io so questo so: che vedendomi da fuori non riesco a giustificarmi.
Nella vita e in rete.

Sto accumulando, per esempio, manoscritti e libri da leggere.
Troppi.
Anche perché, poi, uno, cioè io, avrebbe voglia d andare in libreria e comprare, magari per natale, cinque libri da leggere nei cinque giorni di ferie che ho.

Boh, vedremo.

mi vestirono a festa

Mia madre mi chiamò, mi aiutò a lavarmi, mi vestì bene. Eppure non era domenica. Eppure, pensavo mentre mi pettinava e mi faceva la riga, non sto male, anche quando mi portavano dalla specialista per l’otite cronica, la sinusite cronica e altre cose croniche mi vestivano bene. Pantaloni ben stirati, la camicia bianca, il gilè, le scarpe della domenica. Anche un po’ di acqua di colonia.
Non ricordo le parole, ricordo però che non mi annunciò nulla di esaltante: sarei dovuto andare in un posto con mia zia, sua sorella (zitella, allora fidanzata).
Non andavo d’accordo, io, con quella zia. Mi rimproverava sempre e poi se mi vedeva che facevo qualcosa che non andava faceva subito la spia con mia madre (e poi erano cavoli amari, e molto).
Mia zia arrivò.
Era elegantissima, era strana.
Mi prese per mani e mi disse Andiamo.
Andammo.
Mezz’ora di cammino, circa. In silenzio, ed era strano, perché mia zia era un’insopportabile chiacchierona.
Poi, dopo la camminata, mi ritrovai (è quel che ricordo, prendere o lasciare) in uno stanzone poco illuminato, ma pieno di gente, donne soprattutto, vecchie (io le ricordo vecchie), poco simpatiche (ancora meno simpatiche di mia zia).
Insomma: in ogni angolo di quello stanzone c’era una vecchia, quante saranno state?, venti? e, ognuna di loro, aveva una sedia di paglia e un ventaglio.
Vidi, con dispiacere, che nessuna mi offriva biscotti, caramelle o cioccolatini di cui ero ghiottissimo. Semmai: mi guardavano come mi guardava male mia madre quando tornavo a casa e avevo fatto a botte, o avevo rotto le scarpe giocando a calcio, o avevo perso l’ennesimo ombrello.
Guardai mia zia, anche lei mi guardò. Mi sembrava più umana del solito, spaventata forse. Ricordo che, ogni tanto, dal momento che eravamo circondati da vecchie, sguardi e silenzi, mi accarezzava sulla testa.
Pensai: boh, si dev’essere ammattita.
Poi ecco che arriva un vecchio che, evviva, almeno lui, si presentò con un bel sorriso stagliato in un gran faccione simpatico (ma biscotti niente).
Cominciarono a parlare. Di cosa parlassero io ci capii niente (anche perché ogni tanto loro parlavano il dialetto vercellese che mia zia capiva e io no).
Ricordo che mi annoiavo, che avevo fame (si avvicinava l’ora della merenda), che mia zia, ogni tanto, tornava lei: e a quel vecchio, parlava solo lui, dava delle risposte secche, nervose.
A un certo punto, vidi che si alzò di scatto, spazientita, si voltò verso di me, mi sorride, ma aveva gli occhi lucidi, mi tese la mano e mi disse Andiamo.
Tornammo a casa, anche il ritorno fu silenzioso. Poi a casa, mentre mia madre e mia zia parlottavano in cucina, io feci merenda con pane e olio d’oliva (fatto arrivare da Cortona). Probabilmente imprecando, ché preferivo la Nutella.
Dopo un po’ di tempo – ma non collegai – chiesi che fine aveva fatto il fidanzato di mia zia, era da un po’ che non lo vedevo, era da un po’ che non prendevo in giro mia zia dicendo Ho visto che vi siete baciati, ho visto che vi siete baciati (li avevo cuccati una volta, non si erano accorti di me).
Anni dopo mi spiegarono: avevo accompagnato mia zia dai parenti del suo fidanzato che, una settimana prima del matrimonio, ci dissero, ma forse in dialetto o forse io avevo troppa fame per starli ad ascoltare, questo matrimonio non si deve fare (più).
Aveva quarantadue anni mia zia, io sette.
Ci sta che una zia abbia quarantadue anni e un nipote sette: è pieno il mondo.
Ma non ci sta(va) che una donna si sposasse con un uomo più giovane di lei di quattordici anni.
Che lui fosse d’accordo era un particolare del tutto insignificante.
(Amia zia, buon’anina, dico, se dal purgatorio mi sente, che, ripensandoci, provo tenerezza per quel ricordo. Poi per lei iniziò un perido buio, ma io non potevo capirlo, vero zia?).

Segnalazioni
E’ uscita la raccolta di racconti di Fabrizio Centofanti, Guida pratica all’eternità.
La prefazione è mia. Sono orgoglioso di questo libro. L’ho letto in anteprima, ho detto a Fabrizio di lavorarci (perché scrivere è riscrivere). Mi ha dato ascolto e ne son contento.

l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema

Quando avevo 19 anni, fresco di diploma, non andai a lavorare in fabbrica per una questione di sopravvivenza. Certo, ricchi non si era: ma mio padre mi diceva che se volevo studiare i soldi sarebbero saltati fuori, messi da parte. Mia madre invece non capiva come mai non m’interessasse entrare in banca, le avevano detto che avrei potuto.
Volli andare in fabbrica perché volevo.
Avevo letto Marx, Gramsci, Bordiga, Rosa Luxemburg, Labriola.
Livio Maitan e Sylos Labini.
Leggevo un giornalista che mi piaceva, allora, Edgardo Pellegrini.
Leggevo Sartre, e, dico la verità, non gli credevo: l’alienazione? Mio padre non è un alienato, pensavo.
Ma soprattutto: non mi convinceva quel che dicevano quelli che ruotavano attorno al Movimento Studentesco, a Lotta Continua: parlavano di fabbrica e di classe operaia, loro, ma alla fin fine che (cazzo: scusate) ne sapevano?
Così ci andai: 7 anni.
(Gli ultimi due, da studente lavoratore. Con la voglia di scappar via, dai rumori della fabbrica).

Sette anni di sindacalismo, anche. Nella Cisl di Pierre Carniti. Erano, quelli, gli anni del compromesso storico. Pci e Cgil – così a me sembrava – volevano dimostrarsi “rassicuranti” nei confronti di patronato e della democrazia cristiana.

Io, invece, maturai una convinzione: che la fabbrica è il peggior lavoro. E che era sacrosanta la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali.
Perché la fabbrica ti “sfrutta”, impoverendoti. Dopo otto ore di lavoro hai voglia di riposarti, di passeggiare per cercare di dimenticare i rumori e i gas e i capi che urlano, preferisci guardare la televisione a un libro.
Mi fermo, ne avrei di cose da dire. Troppe.

Dico solo che otto ore in fabbrica son tante di più.
Per lavarti le mani, cercare di toglierti l’unto che non va via e che ti ha macchiato la pelle, impieghi anche dieci minuti, e ti fai male, usando la pasta lavamani.
Dieci minuti al giorno fa almeno trenta ore l’anno. A togliersi l’unto. Il rumore dei macchinari invece ti accompagna sempre: ti insegue quando esci dalla fabbrica, poi ti resta dentro, anche quando dormi.

In fabbrica si parla soprattutto di figa, di calcio, della famiglia, di salute, di soldi.
Ma soprattutto di figa e di calcio e di ferie: il tempo passa più in fretta.
Poi si sogna, in fabbrica: di cambiar lavoro. I ruffiani non sognano, agiscono: magari diventeranno capi, oppure impiegati se hanno un diploma, basta leccare.
Sorridere a trentadue denti al tal dirigente, che magari è un caprone. Non fare sciopero.

In fabbrica si impara. La solidarietà. Si diventa amici. Si dividono sigarette e sogni.
Si impara a usare un linguaggio diverso, certo: son cose da ridere, si sa.
Poi c’è anche la cattiveria, a volte. Una sorta di mobbing bastardo, che si espande come la nebbia.
Di operai contro altri operai.
Contro la checca, contro la ragazza che si dice la dia via con facilità, contro chi fa l’intellettuale e non s’abbassa a parlar di figa e di calcio. A volte contro il ritardato. A volte…
Ma ho visto anche tanto rispetto: per gli anziani, per chi sta male. E per il coraggio.

Se oggi qualche operaio mi chiede dei consigli di lettura, io, che non sono credente ma agnostico, non dico (più) né Marx, né Labriola. Nè Gramsci (e mi spiace, non poterlo dire).
Dico don Lorenzo Milani.
Dico don Luisito Bianchi.

Di Luisito Bianchi è appena uscito il libro «I miei amici», Diari (1968 – 1970), casa editrice Sironi, 906 pagine, 24 euro.
Tante pagine e tanti soldi per comprare questo libro, certo.
Ma ne val la pena.
La quarta di copertina (che sospetto sia opera di Paola Borgonovo) è una gran bella quarta di copertina.

«Per la prima volta, questa notte, con insistenza, a lungo, senza attenuanti, ho maledetto la fabbrica. Avessi avuto il potere taumaturgico di Cristo, i motori si sarebbero fermati, le tine sventrate, le ciminiere sgretolate. L’orgoglio del fico avrebbe ceduto allo squallore della desolazione. Mi è apparso, in tutta la sua crudezza, quello che vale l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema: nulla. A che serve la mia vita? A fare un bel gesto? A vivere l’Evangelo? A preparare un tempo più autentico per la Chiesa? Ad assommare inutilità su inutilità, vanità su vanità? Veramente Dio tace. Siamo nel periodo del sepolcro vuoto e del silenzio del Risorto».

Anche Luisito scelse di andare in fabbrica: ché avrebbe potuto fare il prete con la paga che prendono i preti, e le offerte durante la messa.
Invece andò in fabbrica, tra gli ultimi, per capire.
E per guadagnarsi da vivere, nel segno della gratuità.
«Quando Gesù Cristo si è fatto uccidere in croce non l’ha fatto in cambio di uno stipendio… e quando i giovani partigiani andavano a combattere e a morire l’hanno fatto con gratuità…. io non li ho seguiti, non andai a combattere e mi spiace…».
Per questo post ringrazio Orasesta: lei sa perchè.
E ringrazio Luisito: anche a nome dei «miei amici», quelli che una vita fa ho salutato, il giorno in cui timbrai la cartolina, per l’ultima volta.

una giornata piena

In quanto tifoso della Fiorentina, da ragazzo vedevo sempre la Domenica sportiva. Aspettavo il momento dei servizi sul calcio, poi la moviola. E, mentre aspettavo, o fingevo di studiare per far contenta mia madre, oppure leggevo qualche libro che non era di scuola ma che spacciavo come tale: e lei, per farmi contento, faceva finta di credermi.
(Finché una volta mi disse, Pensi che son fessa?).
Comunque.
Una volta, attendendo il calcio, sentii il conduttore che parlava di un personaggio sportivo fuori dal comune.
Dunque, se non sbaglio, il personaggio in questione aveva giocato una partita di rugby al mattino, una di calcio il pomeriggio e poi, per chiudere in bellezza, aveva combattuto in un incontro di boxe la sera.
Lo invidiai.
Pensai che dovevo collezionare tante giornate piene anche io.

Ve ne propongo una: che non merita un monumeto ma che, a tutti quelli che mi dicono che dormo poco e non mi riposo mai, spiega qualcosa. Forse.
Allora, sì è vero, io vado di fretta.
(e mi piace la celebre citazione di CélineScrivo come posso, quando posso, dove posso. Scrivo in fretta e furia, come ho sempre vissuto)ma mi piace fare in fretta per poi ritagliarmi del tempo per del sano cazzeggio, specie di notte.
Di notte mi ricarico, insomma.
Allora.
Una quindicina di anni fa, all’incirca.
E’ domenica. La sveglia suona prestissimo, mentre la città dorme devo fare il biglietto e salire sul treno, per lavoro. Da Vercelli a Milano, poi a Milano, dopo un caffè alla stazione Centrale, prendo la coincienza per Firenze. Arriverò attorno alle 11, ho pure un libro dietro (sto preparando l’esame di letteratura). Mangerò un boccone e poi altro treno, per Pontedera: dove è in programma, nel pomeriggio, la partita di serie C2 Pontedera-Pro Vercelli. Insomma: la partita che devo seguire per il mio giornale.
I treni, quella domenica, non ebbero ritardi. Sicché (il sicché è d’obbligo, qui) mi ritrovai a Santa Maria Novella (Firenze) che erano passate da poco le undici. Un caffè, un bombolone (era d’obbligo), una sigaretta e poi, vedendo la chiesa di Santa Maria Novella, pensai: Son qui, quasi quasi entro.
C’era messa. Era iniziata, ne sentii una parte. Contento d’essere entrato in quella chiesa.
Poi, finita la funzione, andai in un bar per un panino e un bicchiere di vino, e poi di nuovo in stazione: dove avrei preso la coincidenza per Pontedera.
Dissi, magari mi faccio una dormitina, bastan dieci, quindici minuti. E invece fui svegliato: da due ragazzi, meno di vent’anni, che, vigliacchi (mio padre dice sempre così: Vigliacchi, quest’anno i pomodori mi fan penare), vigliacchi dicevo, avevano scelto proprio il mio scompartimento. E se la contavano e ridevano, e quanto si divertivano. Allora li avrei strozzati, oggi se ci ripenso penso a quanto siano differenti i ragazzi toscani da quelli piemontesi: quei due, giuro, si divertivano parlando dei piedi di lui, che candidamente ammetteva di averli sì, puzzolenti, ma di esser anche un gran figliolo pieno di altre qualià (nessuna volgarità, comunque, solo allusioni… volgari).
(I ragazzi piemontesi non è che facciano discorsi culturali e basta; ma non hanno l’abitudine di raccontare i cavoli loro a tonalità così alte. Poi è vero, ci son toscani e toscani; quelli della costa, per me, berciano di più di quelli dell’interno).
Allora.
Il resto della giornata, così la faccio breve.
Arrivo a Pontedera, chiedo dov’è lo stadio, mi presento con l’accredito, vado in tribuna stampa accerchiato da giornalisti-tifosi del Pontedera, seguo la partita, che finì zero a zero, e presi gli appunti per poi scrivere la cronaca. Quindi, finita la partita, mi precipitai nello spogliatorio a intervistare: allenatore della Pro Vercelli (Giuliani Zoratti) e allenatore del Pontedera (non ricordo chi fosse).
Il ritorno lo feci in pullman, coi giocatori della Pro Vercelli.
Facendo finta di studiare.
Appena arrivato a casa, andai in redazione e, in fretta e furia, scrissi: cronaca della partita, commento alla giornata di C2, pagelle dei giocatori, articolo con le interviste.
Andai di fretta a scrivere perché sapevo che se facevo in tempo c’era un film che mi interessava. E così, dopo aver scritto (allora a macchina) e riletto andai di corsa a casa dove mangiai: di nuovo in fretta. E alle 22, puntuale, ero al cinema.

Sfiga volle che ci fosse il pienone: così mi guardai Orchidea selvaggia, con Mickey Rourke, al fondo della sala e in piedi. Non mi piacque un granchè quel film.
Però ora ricordo che (mentre guardavo Orchidea Selvaggia) ricordavo: quel pezzo di mattinata fiorentina, e non mi sembrava vero.
Ed ero contento di ricordarla, d’essere entrato a Santa Maria Novella.
A mezzanotte tornai in redazione. C’era nessuno. Sempre il libro dietro. Provai a studiare ma la voglia era poca. Così mi rassegnai e feci tardi in una birreria, che ora han chiuso. Andai a dormire verso le tre, credo, era il mio orario allora.
Era stata una giornata piena.
Ne ho collezionate un po’, credo una ventina.
E comunque: per quanto mi piaccia leggere e scrivere se passo una giornata intera a leggere e scrivere quella no, non è una giornata piena.
Ci vuole qualcos’altro.
E se nel post ci son refusi ed erroracci abbiate compassione: ero di fretta, era una pausa notturna, quasi mattutina.
Buon 25 aprile.

un concorso letterario

lessi che c’era un concorso, bisognava inviare un racconto.
e che la premiazione sarebbe avvenuta a Santo Stefano Belbo, nella casa natale di Cesare Pavese.
non ricordo l’anno.
so solo che fino ad allora avevo scritto soltanto delle orribili poesie e degli aborti di monologhi teatrali.
poi, nel cassetto avevo (ed ho) un romanzo incompiuto, ambientato in fabbrica.
non ricordo l’anno ma ricordo che facevo già il giornalista.
scrissi un racconto, non bello.
a me però sembrò bellissimo, di più: pensai che avrei stravinto, ne ero certo.
e lo inviai.
fui così invitato alla cerimonia di premiazione.
prima che iniziasse chiesero chi erano quelli che volevano fermarsi a pranzo: dissi va bene, mi fermo.
all’organizzazione erano pervenuti 500 elaborati, anche dall’estero. per questi ci sarebbe stata una premiazione a parte.
prima di rendere noti i vincitori (una decina, mi pare; i dieci migliori racconti italiani e i dieci migliori racconti in italiano ma scritti da stranieri… mi pare) dissero che c’erano una decina di premi di consolazione. dei bei racconti, insomma, che si erano distinti ma che non erano entrati a far parte degli eletti.
tra questi c’era il mio.
quando mi chiamarono, tra gli applausi, ricordo la mia insoddisfazione.
ma come, non ho vinto?
avevo un doppio problema, allora. di presunzione, il primo.
vedevo solo il mio ombelico, anche quando scrivevo, il secondo.
Io credo che si possa pensare di scrivere quando si parte da sè per poi allontanarci.
e comunque.
ogni tanto, a distanza di anni rivedo quella giornata.
risento le voci di chi dice “si sono messi d’accordo, hanno premiato i soliti”, rivedo gente contenta e gente no.
forse, e dico forse, c’erano solo due contenti: i singoli vincitori delle due sezioni. I due primi, insomma.
poi andai al pranzo.c’erano soprattutto i premiati: o gli “eletti” oppure quelli che come me avevano ricevuto un riconoscimento.
mi annoiai. parlavano solo di premi e di concorsi. o almeno, quelli accanto a me.
accanto a me, però, c’era un uomo, sulla cinquantina. simpatico.
era arrivato quinto o sesto o quarto.
quando lo avevano premiato avevo apprezzato il motivo della premiazione, senza aver letto il suo racconto.
aveva scritto in bella copia un racconto di una vecchia contadina, analfabeta, della langhe.
durante la premiazione era stata chiamata anche lei, come co-autrice.
mi raccontò di questa donna, mentre mangiavamo.
ma ero disattento, ascoltavo un po’ tutti.
un paio di volte ho riletto quel racconto, che avevo intitolato “La rossa palletta di No” (No, sta per Noemi, nome che mi piace moltissimo. Direi che in assoluto i nomi femminili che più mi piacciono sono Noemi, Miriam, Sonia, Laura e Lucia. E Clelia, dimenticavo).
Non era un gran racconto.
Non meritava nemmeno il riconoscimento speciale della giuria.
Credevo che la mia vita fosse tanto interessante da riversarla in una storia.
C’erano due protagonisti, in quel racconto. Uno poteva andare, No (Noemi), l’altro per niente. Ero io.
Buona giornata.

son qua, adesso

Due anni fa aprii il vecchio blog, quasi per scherzo: avrei preferito un sito, meno grane.
Un sito dove comparissero i miei libri, due stavano per uscire, dove fosse ben evidente la mia mail così da poter dialogare con lettori e non lettori, dove inserire eventuali recensioni, magari foto, magari racconti.
Invece è successo che, nel vecchio blog, mi son raccontato, dicendo di mio fratello, che dall’agosto 2005 non c’è più, dei miei anni in fabbrica, di mio padre e mia madre, figli di quelle generazioni senza nome (come canta Guccini), della mia città, di Cortona, delle mie esperienze editoriali, che son poche e marginali. Sono uno dei tanti che ha pubblicato, sono un giornalista di provincia.
Non dimenticherò mai chi ero, anni fa: un anonimo operaio che timbrava e che magari sembrava un po’ strano, per via di un libro di Remarque sotto il braccio, insieme alla pietanziera.
Ho conosciuto gente, grazie a questo blog.
Bella gente per davvero.
Persone umili. Persone che soffrono. Persone dignitose. Persone di una generosità rara.
L’estate scorsa, che ho trascorso in Salento, ho incontrato blogger, oppure gente che veniva a commentare su Appunti.
Pochi giorni fa sono stato in Sicilia: ospite di amici che non avrei avuto, che non avrei conosciuto se non ci fosse stato questo aggeggio qua, il blog.
E che dire, allora, di Sermide?, dove Colfavoredellebbie è possibile qualsiasi magia?, perché più di 70 persone, in un centro di 6mila abitanti, che intervengono alla presentazione di un libro dal titolo strano e scritto da un autore sconosciuto è, certo, una magia, o forse no.
Ho provato a far di conto: e mi sono impressionato. Perché in due anni ho incontrato almeno una volta una trentina di blog, escludendo i raduni (come il lit camp di Torino) e posso dire d’averne conosciute altre cento di persone, con mail, telefonate anche. Qualcuno mi ha pure scritto, come si usava una volta, usando carta e penna.
Gente lontana, perlopiù, che non mi va di dire di questa cosa qui a vicini di casa o a chi lavora con me.
Tornassi indietro sì, rifarei lo sbaglio: riaprirei il blog. Ne sono certo.
(Anche se i veleni che si annidano nei blog e in certe teste di minchia colossali ti fan passar lavoglia, a volte).
E pensare, pensare che, proprio quando lo aprii, mi dicevo e dicevo a chi mi conosce che ero stufo di parlar di me ed ero stufo di conoscere gente.
Ché i miei colleghi di fabbrica non li voglio dimenticare, o non voglio dimenticare i miei compagni (donne, eran tutte donne a lettere a Torino) d’università.
Questo aggeggio qui è malefico, certo.
E poi.
Si perde tempo, ci si dimentica, spesso, che fuori è una bella giornata e che sarebbe preferibile una passeggiata allo schermo del pc, alle mail e tutto il resto.
O forse no.
Ci vorrebbe, certo, equilibrio. Che non conosco, io, o conosco poco.
Per cui eccomi qua, con Altri appunti, e poi vediamo.
Buona giornata
e benvenuti