l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema

Quando avevo 19 anni, fresco di diploma, non andai a lavorare in fabbrica per una questione di sopravvivenza. Certo, ricchi non si era: ma mio padre mi diceva che se volevo studiare i soldi sarebbero saltati fuori, messi da parte. Mia madre invece non capiva come mai non m’interessasse entrare in banca, le avevano detto che avrei potuto.
Volli andare in fabbrica perché volevo.
Avevo letto Marx, Gramsci, Bordiga, Rosa Luxemburg, Labriola.
Livio Maitan e Sylos Labini.
Leggevo un giornalista che mi piaceva, allora, Edgardo Pellegrini.
Leggevo Sartre, e, dico la verità, non gli credevo: l’alienazione? Mio padre non è un alienato, pensavo.
Ma soprattutto: non mi convinceva quel che dicevano quelli che ruotavano attorno al Movimento Studentesco, a Lotta Continua: parlavano di fabbrica e di classe operaia, loro, ma alla fin fine che (cazzo: scusate) ne sapevano?
Così ci andai: 7 anni.
(Gli ultimi due, da studente lavoratore. Con la voglia di scappar via, dai rumori della fabbrica).

Sette anni di sindacalismo, anche. Nella Cisl di Pierre Carniti. Erano, quelli, gli anni del compromesso storico. Pci e Cgil – così a me sembrava – volevano dimostrarsi “rassicuranti” nei confronti di patronato e della democrazia cristiana.

Io, invece, maturai una convinzione: che la fabbrica è il peggior lavoro. E che era sacrosanta la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali.
Perché la fabbrica ti “sfrutta”, impoverendoti. Dopo otto ore di lavoro hai voglia di riposarti, di passeggiare per cercare di dimenticare i rumori e i gas e i capi che urlano, preferisci guardare la televisione a un libro.
Mi fermo, ne avrei di cose da dire. Troppe.

Dico solo che otto ore in fabbrica son tante di più.
Per lavarti le mani, cercare di toglierti l’unto che non va via e che ti ha macchiato la pelle, impieghi anche dieci minuti, e ti fai male, usando la pasta lavamani.
Dieci minuti al giorno fa almeno trenta ore l’anno. A togliersi l’unto. Il rumore dei macchinari invece ti accompagna sempre: ti insegue quando esci dalla fabbrica, poi ti resta dentro, anche quando dormi.

In fabbrica si parla soprattutto di figa, di calcio, della famiglia, di salute, di soldi.
Ma soprattutto di figa e di calcio e di ferie: il tempo passa più in fretta.
Poi si sogna, in fabbrica: di cambiar lavoro. I ruffiani non sognano, agiscono: magari diventeranno capi, oppure impiegati se hanno un diploma, basta leccare.
Sorridere a trentadue denti al tal dirigente, che magari è un caprone. Non fare sciopero.

In fabbrica si impara. La solidarietà. Si diventa amici. Si dividono sigarette e sogni.
Si impara a usare un linguaggio diverso, certo: son cose da ridere, si sa.
Poi c’è anche la cattiveria, a volte. Una sorta di mobbing bastardo, che si espande come la nebbia.
Di operai contro altri operai.
Contro la checca, contro la ragazza che si dice la dia via con facilità, contro chi fa l’intellettuale e non s’abbassa a parlar di figa e di calcio. A volte contro il ritardato. A volte…
Ma ho visto anche tanto rispetto: per gli anziani, per chi sta male. E per il coraggio.

Se oggi qualche operaio mi chiede dei consigli di lettura, io, che non sono credente ma agnostico, non dico (più) né Marx, né Labriola. Nè Gramsci (e mi spiace, non poterlo dire).
Dico don Lorenzo Milani.
Dico don Luisito Bianchi.

Di Luisito Bianchi è appena uscito il libro «I miei amici», Diari (1968 – 1970), casa editrice Sironi, 906 pagine, 24 euro.
Tante pagine e tanti soldi per comprare questo libro, certo.
Ma ne val la pena.
La quarta di copertina (che sospetto sia opera di Paola Borgonovo) è una gran bella quarta di copertina.

«Per la prima volta, questa notte, con insistenza, a lungo, senza attenuanti, ho maledetto la fabbrica. Avessi avuto il potere taumaturgico di Cristo, i motori si sarebbero fermati, le tine sventrate, le ciminiere sgretolate. L’orgoglio del fico avrebbe ceduto allo squallore della desolazione. Mi è apparso, in tutta la sua crudezza, quello che vale l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema: nulla. A che serve la mia vita? A fare un bel gesto? A vivere l’Evangelo? A preparare un tempo più autentico per la Chiesa? Ad assommare inutilità su inutilità, vanità su vanità? Veramente Dio tace. Siamo nel periodo del sepolcro vuoto e del silenzio del Risorto».

Anche Luisito scelse di andare in fabbrica: ché avrebbe potuto fare il prete con la paga che prendono i preti, e le offerte durante la messa.
Invece andò in fabbrica, tra gli ultimi, per capire.
E per guadagnarsi da vivere, nel segno della gratuità.
«Quando Gesù Cristo si è fatto uccidere in croce non l’ha fatto in cambio di uno stipendio… e quando i giovani partigiani andavano a combattere e a morire l’hanno fatto con gratuità…. io non li ho seguiti, non andai a combattere e mi spiace…».
Per questo post ringrazio Orasesta: lei sa perchè.
E ringrazio Luisito: anche a nome dei «miei amici», quelli che una vita fa ho salutato, il giorno in cui timbrai la cartolina, per l’ultima volta.

8 pensieri su “l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema

  1. Cha la fabbrica fosse (o sia) il peggior lavoro non è detto. E’ una esperienza che ho fatto per sette estati (dai 15 ai 22 anni) perché servivano i soldi in casa. Ci si patisce, specie di notte, ma poi ti accorgi che, a parte i soldi (il bisogno è un lubrificante, non ti crei falsi problemi), hai una possibilità che chi non c’è mai stato ha di meno: trovarsi au pair sia con chi usa la penna che con chi usa le mani, che a volte debbono essere più intelligenti della penna (e quindi rendono intelligente il cervello che crede di comandarle). Au pair senza poverinismi, con naturalezza. Sapevo che era un periodo transitorio, ma oggi sostengo per esperienza che la manovalanza impiegatizia di certi open space è peggio: si è più soli e si fantastica di meno. Però se la tirano, perché non lavorano con le mani…

    grazie Remo e saludos
    Solimano

  2. e alla fine mi toccò dar ragione a mio padre
    muratore
    ancora adesso
    alla soglia dei settanta

    rb

  3. La fabbrica, il lavoro manuale, “lavorare stanca” diceva Pavese, e si sa a che alludeva.
    Mica a quelli che dietro una di quelle scrivanie di palissandro con due/tre telefoni sopra non adrebbero mai in pensione.
    Io ce l’ho con i politici italiani e tanto.
    Hanno concesso per quasi cinquantanni ( per raccattar voti, clientelismo) ai pubblici dipendenti di andare in pensione anche con 15 anni di anzianità. Caso unico in Europa!
    Invece l’operaio, il muratore, no, lui deve faticare 35 anni per maturare ‘sta pensiùn.
    Chissà perchè ‘sta gente, ‘sti manocia, cioè lavoratori di mano, non vedono l’ora di andare in pensione, chissà perchè?!
    E invece, quei là, professori universitari magistrati e via dicendo, se ne stanno là, dietro ai loro scanni, con stipendi ben solidi fino ad anni 72.
    E’ che non sono mica stanchi loro, no, il potere non logora un cazzo, anzi ingrassa.
    Spostare casse, tornire, fresare, mettere su mattoni invece stanca, a quanto pare, dicono….
    Mario

  4. ho scritto di marx eccetera (ma non ho citato trotsky, il più letto) un po’ per provocare e un po’ pensando al distacco che c’è sempre stato tra intellettuali e fabbrica.
    seonco il censis il 43 per cento di chi, nel 2006, ha votato per i partiti riconoscibili nella sinistra arcobaleno, oggi ha votato lega.
    e secondo La repubblica son tanti gli operai del nord che hanno votato lega.
    mi fa pensare che la sinistra si crogiola troppo: ad ascoltar la popria voce senza sapere se invece il messaggio è arrivato a destinazione.
    ciao t.

    pispa, non che la mia vita sia un gran film, ma se se penso a come sarebbe stato il film della mia vita da bancario mi vien da sbadigliare.

  5. non ho neanche letto dopo le prime 3 righe.
    la banca! la banca!
    lì dovevi andare, aveva ragione tue mamma: 15 mensilità già negli anni settanta, contratti stupendi, bonus, premi produzione.. e un giorno… capofiliale, alè!

    invece hai voluto fare lo scrittore, evvabbé, io te l’ho detto.. :O

  6. Che non si possa più consigliare – per i motivi in filigrana tra le tue righe – Marx o Gramsci, non sono d’accordo. Magari sono superate, questo sì, molte pagine di “interpretazioni”.
    Invece condivido il fatto che dobbiamo molto all’ora sesta al pozzo di Giacobbe, per le ragioni che ne fecero luogo-tempo d’utopia in alcuni scritti di Luisito Bianchi (e poi anche “etichetta editrice”).
    Per tutto il resto sono io in debito con te.
    :)

  7. ci si può emozionare anche parlando o leggendo di fabbrica.
    non capita sempre.

    ma tu sei bravo.

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