lessi che c’era un concorso, bisognava inviare un racconto.
e che la premiazione sarebbe avvenuta a Santo Stefano Belbo, nella casa natale di Cesare Pavese.
non ricordo l’anno.
so solo che fino ad allora avevo scritto soltanto delle orribili poesie e degli aborti di monologhi teatrali.
poi, nel cassetto avevo (ed ho) un romanzo incompiuto, ambientato in fabbrica.
non ricordo l’anno ma ricordo che facevo già il giornalista.
scrissi un racconto, non bello.
a me però sembrò bellissimo, di più: pensai che avrei stravinto, ne ero certo.
e lo inviai.
fui così invitato alla cerimonia di premiazione.
prima che iniziasse chiesero chi erano quelli che volevano fermarsi a pranzo: dissi va bene, mi fermo.
all’organizzazione erano pervenuti 500 elaborati, anche dall’estero. per questi ci sarebbe stata una premiazione a parte.
prima di rendere noti i vincitori (una decina, mi pare; i dieci migliori racconti italiani e i dieci migliori racconti in italiano ma scritti da stranieri… mi pare) dissero che c’erano una decina di premi di consolazione. dei bei racconti, insomma, che si erano distinti ma che non erano entrati a far parte degli eletti.
tra questi c’era il mio.
quando mi chiamarono, tra gli applausi, ricordo la mia insoddisfazione.
ma come, non ho vinto?
avevo un doppio problema, allora. di presunzione, il primo.
vedevo solo il mio ombelico, anche quando scrivevo, il secondo.
Io credo che si possa pensare di scrivere quando si parte da sè per poi allontanarci.
e comunque.
ogni tanto, a distanza di anni rivedo quella giornata.
risento le voci di chi dice “si sono messi d’accordo, hanno premiato i soliti”, rivedo gente contenta e gente no.
forse, e dico forse, c’erano solo due contenti: i singoli vincitori delle due sezioni. I due primi, insomma.
poi andai al pranzo.c’erano soprattutto i premiati: o gli “eletti” oppure quelli che come me avevano ricevuto un riconoscimento.
mi annoiai. parlavano solo di premi e di concorsi. o almeno, quelli accanto a me.
accanto a me, però, c’era un uomo, sulla cinquantina. simpatico.
era arrivato quinto o sesto o quarto.
quando lo avevano premiato avevo apprezzato il motivo della premiazione, senza aver letto il suo racconto.
aveva scritto in bella copia un racconto di una vecchia contadina, analfabeta, della langhe.
durante la premiazione era stata chiamata anche lei, come co-autrice.
mi raccontò di questa donna, mentre mangiavamo.
ma ero disattento, ascoltavo un po’ tutti.
un paio di volte ho riletto quel racconto, che avevo intitolato “La rossa palletta di No” (No, sta per Noemi, nome che mi piace moltissimo. Direi che in assoluto i nomi femminili che più mi piacciono sono Noemi, Miriam, Sonia, Laura e Lucia. E Clelia, dimenticavo).
Non era un gran racconto.
Non meritava nemmeno il riconoscimento speciale della giuria.
Credevo che la mia vita fosse tanto interessante da riversarla in una storia.
C’erano due protagonisti, in quel racconto. Uno poteva andare, No (Noemi), l’altro per niente. Ero io.
Buona giornata.
Giorno: 23 aprile 2008
la fedeltà di Pinocchio
Ogni anno, alla cara stagone della neve e della castagne, cavo dallo scaffale dei libri più vecchi, Pinocchio; cerco un posto quieto vicino alla stufa, e me lo rileggo. Perché?
Potrei dire che nelle pagine di Pinocchio ricerco i segni di un’infanzia lontana; i ricordi vaghi, le incerte impressioni della prima lettura…
Potrei dirlo, ma non sarebbe vero. Checché gli uomini dicano, fingano (magari a se stessi) di credere, è raro che qualcuno rimpianga davvero e non soltanto a parole – l’infanzia lontana. Quel rimpianto significherebbe un ottimismo non so se eroico o imbecille…
E allora rileggo Pinocchio per un’abitudine letteraria? Per riaccendere ancora e controllare nella lettura le impressioni nuove, su quelle vecchie; le illusioni che restano, su quelle cadute; per il bel gusto, alla fine, di tirare le somme ogni anno di un bilancio ch’è sempre in perdita?
… ma più semplicemente voglio dire che ogni anno ricerco Pinocchio, perché ogni anno sento di volergli più bene.
Gli voglio bene prima di tutto, per la sua onestà casalinga.
– C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. – No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di castagno.
Pinocchio, fino alla fine, tiene fede alla sua origine.
Pietro Pancrazi, Venti uomini un satiro e un burattino, Vallecchi 1923.
Pietro Pacrazi, studioso, saggista, critico, consulente editoriale, è nato a Cortona nel 1893 ed è morto a Firenze nel 1952.
Scrisse articoli per la terza pagina de Il Corriere della Sera., numerosi libri (uno mi pare sia in ristampa)
Campanilisticamente, quando scriveva di Collodi (Carlo Lorenzini) ricordava che “nacque nel 1826 da Domenico, oriundo di Cortona”.
Beh, non fossi nato a Cortona non avrei, anni fa, letto quel che scriveva Pancrazi su Pascoli o su Giusti, che è un gran poeta, discorsi di campanile a parte.
(Fossi papa, scusatemi, a momenti / l’ira metterei tra i sacramenti)