mancano voci (aggiornato)

Sono in redazione, sono di corsa.
Tra un’ora circa vado a Trino Vercellese a presentare l’ultimo libro di Luisito Bianchi, I miei amici, Sironi.
Sono i diari che Luisito scrisse quando (1968-1970) lavorava alla Montecatini, a Spinetta Marengo,
Ho scelto alcune cose da leggere. Poche e brevi.
Avrei voluto leggere la quarta di copertina del libro di don Luisito, Come un atomo sulla bilancia, ma non ce l’avevo dietro (e non avevo il numero di Paola Borgonovo; e il numero di Mozzi ha squillato, senza esito positivo).
Parlerò dei tre libri di Luisito.
Dell’ultimo, credo, leggerò questa pagina (aperta a caso).

14 ottobre 1970
L’ambiente si scalda. La settimana scorsa i sindacalisti erano stati chiamati dal professore direttore della Clinica di Pavia. Dai prelievi è risultato che il reparto “colori”, in alcuni momenti della lavorazione (macinazione, giallo, eccetera) registrava da 50 a 60 volte il superamento della nocività sopportabile.
La direzione viene subito messa al corrente: bisogna fermare il reparto.
Il reparto non può essere fermato: provvederemo ad alcune opere… è allo studio un sistema… Atteggiamento inqualificabile, di una incoscienza spaventosa. Ci sono delle vite in gioco, e da trent’anni perché il reparto è così da trent’anni, e si pensa ancora alla produttività. Ma tutto questo rientra nel sistema. I fiumi, l’aria vengono inquinati con gesti delittuosi continuati: ma che importa? E’ la produzione (e il profitto) che importa.

Mancano, purtroppo, voci così. E non solo nella, si fa per dire, chiesa.
Buon sabato
(grazie terez, grazie paolab).

Piccolo aggiornamento.
E’ stata una gran bella presentazione.
Ottanta persone, una trentina di libri venduti. Luisito che ha detto cose forti (spiegando la frase “se fossi papa brucerei il vaticano”), incantando tutti.
Magari ne scriverò (sono sempre in difficoltà quando debbo scrivere di Luisito; è forse l’unica persone di cui preferisco parlare).
(Sono riuscito a recuperare la quarta di copertina di Come un atomo sulla bilancia. Grazie a Mozzi, comunque, che ha tentato di rintracciarmi, ho visto su i box, quando avevo il cellulare staccato).

Poi.
Su Carmilla Daniela Bandini ha recensito Chiedi alle nuvole chi sono di Giorgio Bona, Besa editrice.
E ancora.
Il mio racconto, Se l’anima si sporca, pubblicato sulla rivista No tag è ospitato nel (bel) blog di Habanera.

Giornali e Barbiere

Non ho mai difeso a spada tratta il mio mestiere e la mia categoria. Penso infatti che il giornalismo abbia pecche, problemi oggettivi – il potere ama solo che gli fa da cassa di risonanza -, dilemmi da risolvere e sui cui discutere: si deve far leggere ciò che vuol leggere la gente o si deve promuovere informazione?
Ma sul giornalismo ci son troppi luoghi comuni, anche.
C’è un sito che vi consiglio, e che ho sempre consigliato ai giornalisti.
Il barbiere della sera.
Ve lo consiglio: perché è tutto fuorché un sito che difende la casta. Del resto la casta dei giornalisti c’è, certo. Ma riguarda pochi.
Aveva chiuso, ha riaperto.
Con una novità. Basta con gli articoli di anonimi.
Anche qui, vecchio problema che riguarda tutta la rete.
E’ vero, ditero ai nick a volte c’è vigliaccheria. Facile urlare se si è protetti dall’anonimato. Sembra, a volte, girando per la rete, di sentire quei piccoli cani che abbaiano, aggressivi, perché protetti da una cancellata.
Ma ho conosciuto persone che usano il nick a ragione veduta. Per cui, su anonimi sì e anonimi no, si continuerà sempre a dire.
Fiumi di parole, insomma.
(E qui, tanto per restare in tema di fiumi, c’è stata la piena, ieri. Speriamo smetta di piovere, almeno).

Per quanto riguarda il mio mestiere, il mio essere giornalista: lo sono da vent’anni. Troppi. Da tre e un mese, poi, vive l’esperienza della direzione di un giornale, piccolo, di grandi tradizioni, che fa di tutto per essere libero. Anche qui: si fa presto a dire liberi. Per esserlo il più possibile io ho fatto una promessa, tanto ai miei giornalisti quanto ai lettori. Il giorno che dovessi ricevere pressioni lascerei.
Chi mi conosce sa che ragiono così. Poi: sull’essere dei buoni giornalisti occorre interrogarsi sempre. Quando uno dice son bravo, è finito.
Qusto è un mstiere in cui si sbaglia: quando si lavora di corsa, gomito a gomito con la fretta, si sbaglia.
Ed è anche, questo, un mestiere di merda, a volte. Quando raccontiamo di tragedie, morti, sevizie sappiamo – e certo che si sa – che il giornale andrà a ruba.
(Provate a mettere in prima pagina più di una notizia culturale e poi vedrete che accade: che la gente compria i vostri giornali concorrenti),
Comunque.
Mi piace anche scommettere. Così sul mio giornale ho scritto che anche in caso di flessioni di vendite io sarei pronto ad alzare i tacchi. Da tre anni, però, tanto l’autonomia della redazione quanto il riconoscimento dei lettori ci sono. Certo, il prezzo da pagare è abbastanza alto. Mal di pancia a go go. E altro.
Ma anche soddisfazioni. Come la mail del giovane collaboratore che mi scrive Sono orgoglioso di lavorare con te (mi danno tutti del tu, qui. Quando divenni direttore incontrai la donna dele pulizie, una ragazza albanese, che in Albania faceva la maestra. Mi disse ciao Remo, complimenti, Le dissi: Ciao Aneta).

Sulla mia passione per le scommesse magari ne dirò, chissà.

se questo è un titolo

Prossime novità editoriali.
Buona giornata (questo passa il convento, oggi)

Io Marco Antonio.
Di Cleopatra, giovane stopper promettente della nazionale cartaginese. (Prossimamente, nella stessa collana:
“Alessandro Magna”
“Il rutto delle Sabrine”
“Giuliano la prostata”.

Bocca e Panza.
Saggio sull’apparato digerente del giornalismo italiano.

Scambiatevi un segno di pece.
Romanzo catto-naturalista. Di prossima pubblicazione
“La pece sia con voi”.
In ristampa, inceve:
“Guerra e pece”.

T’amo o pio bove.
Perversioni poetiche.

E così Siae.
Manuale di sopravvivenza per scrittori.

Sali e Tabucchi.
Biografia su due noti scrittori, soprattutto Sali. Edito da Monopoliodistatus.

Se questo è un uovo.
Manuale zootecnico.

I ragazzi della Via-gra.
Sono cresciuti, hanno bisogno di un rinforzo, ora. Poche pal.

Carri amati.
Dal diario segreto di Bush.
Di prossima pubblicazione
“C’eravamo tanto armati”, epistolario segreto tra Bush e Blair,
e
“Fatti i razzi tuoi”; ancor più segreto.

Potrei continuare, ma è meglio che mi fermi. So che altri (Elena quella coi puntini, Solimano, quello dei saludos, Mario Bianco, Aitan soprattutto) saprebbero fare di meglio. Titoli migliori di questi, insomma. Mai stato spiritoso, io.

come un bollettino di guerra

41 anni, operaio, morto.
45 anni, agricoltore, morto.
44 anni, operaio, braccio amputato.
48 anni, architetto, trauma cranico.
56 anni, operaio, fratture alle gambe.
Come un bollettino di guerra, ogni giorno.

Ma non si muore solo cadendo dalle impalcature.

157 morti di tumore, 120 discariche abusive e 5 milioni di metri cubi di rifiuti tossici, un colosso dell’economia italiana sotto accusa: il processo al Petrolchimico di Porto Marghera, iniziato nel 1998, si è presto rivelato un caso clamoroso, concluso nel 2004 con la condanna di numerosi dirigenti di Enichem e Montedison. Felice Casson, pubblico ministero, ricostruisce la lunga inchiesta e lo scellerato “patto del silenzio” sottoscritto dalle maggiori industrie chimiche mondiali per tenere segreti i dati sulla pericolosità del cloruro di vinile. Con il ritmo di un film d’azione, il libro svela il complesso disegno del caso: le scoperte di un caparbio medico di fabbrica, le reazioni dei vertici aziendali, i sospetti degli operai, i ricatti politici, gli scontri della fase processuale.
Copiato da IBS, La fabbrica dei veleni, di Felice Casson.

Per i morti sul lavoro: poesie.

titoli di libri

Una giovane utente-frequentatrice di Anobii, Claudia, in un commento a La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano ha scritto:
I titoli mi affascinano sempre moltissimo…come può deluderti “Se una notte d’inverno un viaggiatore” o “Sogno di una notte di mezza estate”? Quando ho comprato questo romanzo l’ho fatto attratta proprio da questo…e mi sono lasciata prendere dalla storia, dalla scrittura limpida, e forse un po’ anche dal dolore che ha dentro… Un giovane autore che spero non si fermi qui.
I titoli, già.
Dei miei quattro libri il titolo che più mi piace, Dicono di Clelia, è quello, credo, meno fortunato (in fatto di vendite e critiche).
Tra i libri comprati, di sicuro ce n’è uno che mi ha attratto per il titolo: Che tu sia per me il coltello, di Grossman.
Pari merito, altro gran bel titolo, è, a mio avviso, E non disse nemmeno una parola, di Boll (con i puntini sulla o).
Così su due piedi – ma anche per la bontà del libro e dell’autore -, proseguendo in questa mia classfica un po’ bislacca, al terzo posto metto Così è (se vi pare), di Pirandello.
Ho abbinato titoli belli a libri belli.
Spesso però un bel titolo è fuorviante; a me è successo con Belli e perdenti, di Leonard Cohen. Cohen è un cantautore-scrittore fantastico, qualcuno dice che nemmeno De André regge al confronto.
Ma Belli e perdenti l’ho preso in mano almeno tre volte per poi riporlo in libreria. Sconclusionato (ma è un giudizio datato, passibile di revisione).
Ma ci son libri di successo,
La porta,
La strada,
Il compagno,
La sorellina,
Cecità,
Una donna,
Un amore,
La madre,
che sono semplici e grandi capolavori, al contempo (di Magda Szabò, Cormac McCarthy, Pavese, Chandler, Saramago, Sibilla Aleramo, Buzzati, Pearl S. Buck).
Una persona a me cara, che ha lavorato e lavoro nella editoria italiana con la e e la i maiuscola, un giorno (eravamo al salone del libro di Torino), mi disse:
Camilleri può essere pubblicato con una copertina blu e un titolo che non attrae, un esordiente no.

Ora che ci ripenso: forse forse, rispetto a Così è (se vi pare), è meglio L’inverno del nostro scontento, di Stainbeck.
I miei tre titoli preferiti: Che tu sia per me il coltello. E non disse nemmeno una parola. L’inverno del nostro scontento.
Poi: Così è (se vi pare) e L’amore ai tempi del colera.

Che dire, poi, dei titoli tormentoni? Oggi Non è un paese per vecchi, anni fa Cronaca di una morta annunciata.
E poi. Ho una tendenza a dimenticarli i titoli, io. Certi titoli. Per esempio ho dovuto guardare in libreria per ricordare il titolo del libro di Montalban che più mi è piaciuto (L’uomo della mia vita) mentre non fatico assolutamente a ricordare un libro di Montalban che non ho letto: Il centravanti è stato assassinato verso sera.
(Chissà a che ora?
Alle cinque della sera?)

Dimenticavo. Ma la domanda è: può un tiolo incidere sulle vendite? Penso per esempio a un libro comunque interessante, In culo oggi no, di Jana Cerna’, casa editrice e/o…

Buona giornata

PS. Jana Cerna’ (autrice di In culo oggi no) è stata negli anni dello stalinismo (leggo sulla quarta di copertina del libro) uno dei personaggi chiave dell’underground praghese, un movimento con molte analogie con la beat generation. Sua madre era Milena Jesenska’, la famosa Milena di Kafka.

La donna che parlava con i morti io avrei voluto che si intitolasse La donna che parla coi morti. Alla Newton e Tecla Dozio mi convinsero che non era elegante, che era meglio La donna che parlava, e soprattutto con i rispetto a coi.

Leonard Cohen, un grande. Suzanne. Ricordo che in un’intervista disse che no, Suzanne non esiste(va).

mi vestirono a festa

Mia madre mi chiamò, mi aiutò a lavarmi, mi vestì bene. Eppure non era domenica. Eppure, pensavo mentre mi pettinava e mi faceva la riga, non sto male, anche quando mi portavano dalla specialista per l’otite cronica, la sinusite cronica e altre cose croniche mi vestivano bene. Pantaloni ben stirati, la camicia bianca, il gilè, le scarpe della domenica. Anche un po’ di acqua di colonia.
Non ricordo le parole, ricordo però che non mi annunciò nulla di esaltante: sarei dovuto andare in un posto con mia zia, sua sorella (zitella, allora fidanzata).
Non andavo d’accordo, io, con quella zia. Mi rimproverava sempre e poi se mi vedeva che facevo qualcosa che non andava faceva subito la spia con mia madre (e poi erano cavoli amari, e molto).
Mia zia arrivò.
Era elegantissima, era strana.
Mi prese per mani e mi disse Andiamo.
Andammo.
Mezz’ora di cammino, circa. In silenzio, ed era strano, perché mia zia era un’insopportabile chiacchierona.
Poi, dopo la camminata, mi ritrovai (è quel che ricordo, prendere o lasciare) in uno stanzone poco illuminato, ma pieno di gente, donne soprattutto, vecchie (io le ricordo vecchie), poco simpatiche (ancora meno simpatiche di mia zia).
Insomma: in ogni angolo di quello stanzone c’era una vecchia, quante saranno state?, venti? e, ognuna di loro, aveva una sedia di paglia e un ventaglio.
Vidi, con dispiacere, che nessuna mi offriva biscotti, caramelle o cioccolatini di cui ero ghiottissimo. Semmai: mi guardavano come mi guardava male mia madre quando tornavo a casa e avevo fatto a botte, o avevo rotto le scarpe giocando a calcio, o avevo perso l’ennesimo ombrello.
Guardai mia zia, anche lei mi guardò. Mi sembrava più umana del solito, spaventata forse. Ricordo che, ogni tanto, dal momento che eravamo circondati da vecchie, sguardi e silenzi, mi accarezzava sulla testa.
Pensai: boh, si dev’essere ammattita.
Poi ecco che arriva un vecchio che, evviva, almeno lui, si presentò con un bel sorriso stagliato in un gran faccione simpatico (ma biscotti niente).
Cominciarono a parlare. Di cosa parlassero io ci capii niente (anche perché ogni tanto loro parlavano il dialetto vercellese che mia zia capiva e io no).
Ricordo che mi annoiavo, che avevo fame (si avvicinava l’ora della merenda), che mia zia, ogni tanto, tornava lei: e a quel vecchio, parlava solo lui, dava delle risposte secche, nervose.
A un certo punto, vidi che si alzò di scatto, spazientita, si voltò verso di me, mi sorride, ma aveva gli occhi lucidi, mi tese la mano e mi disse Andiamo.
Tornammo a casa, anche il ritorno fu silenzioso. Poi a casa, mentre mia madre e mia zia parlottavano in cucina, io feci merenda con pane e olio d’oliva (fatto arrivare da Cortona). Probabilmente imprecando, ché preferivo la Nutella.
Dopo un po’ di tempo – ma non collegai – chiesi che fine aveva fatto il fidanzato di mia zia, era da un po’ che non lo vedevo, era da un po’ che non prendevo in giro mia zia dicendo Ho visto che vi siete baciati, ho visto che vi siete baciati (li avevo cuccati una volta, non si erano accorti di me).
Anni dopo mi spiegarono: avevo accompagnato mia zia dai parenti del suo fidanzato che, una settimana prima del matrimonio, ci dissero, ma forse in dialetto o forse io avevo troppa fame per starli ad ascoltare, questo matrimonio non si deve fare (più).
Aveva quarantadue anni mia zia, io sette.
Ci sta che una zia abbia quarantadue anni e un nipote sette: è pieno il mondo.
Ma non ci sta(va) che una donna si sposasse con un uomo più giovane di lei di quattordici anni.
Che lui fosse d’accordo era un particolare del tutto insignificante.
(Amia zia, buon’anina, dico, se dal purgatorio mi sente, che, ripensandoci, provo tenerezza per quel ricordo. Poi per lei iniziò un perido buio, ma io non potevo capirlo, vero zia?).

Segnalazioni
E’ uscita la raccolta di racconti di Fabrizio Centofanti, Guida pratica all’eternità.
La prefazione è mia. Sono orgoglioso di questo libro. L’ho letto in anteprima, ho detto a Fabrizio di lavorarci (perché scrivere è riscrivere). Mi ha dato ascolto e ne son contento.

brutto tempo, qui

(Sfogliando e leggendo Il Manifesto, Repubblica e La Stampa).
Il nucleare che tornerà, dunque (tanto sarà sicuro: fino al prossimo disastro), la badante trattata come una bestia da una anziana signora italiana, l’ondata xenofoba, la lettera del padre della ragazzina violentata e uccisa dai suoi compagni di classe, il bullismo che aumenta, la stampa di sinistra che accusa la stampa di non dire.
Il problema del silenzio è un gran problema, infatti.
Anche di come si danno le notizie. Nell’articolo (in prima pagina) sull’anziana signora che ha ridotto in schiavitù una badante rumena a Lainate, Alessandro Robecchi del Manifesto scrive:
A differenza dei delinquenti stranieri (di cui si pubblica nome e cognome), a differenza dei rapinatori italiani (di cui si pubblicano le iniziali), della signora schiavista non si sa nulla, se non l’età avanzata, 75 anni, e la dignitosa semiricchezza dell’abitazione…
Non è sempre così il problema della pubblicazione o della non pubblicazione, sui fatti di cronaca, di nomi e cognomi. Ma è “molto” così.

Però stanotte, voglia di scrivere e di leggere zero, ho notato che almeno in rete qualcosa si muove: ho letto alcuni blog, da un link all’altro, di gente delusa: perché il governo, che aveva promesso una politica repressiva contro i rom, non è di parola. Ma quando cazzo arriva il pugno duro contro questa gentaglia? Siamo stufi di mantenerli (ho letto in un forum). Già: costano i Rom. Costano quanto i nostri parlamentari che, sempre da quanto leggo oggi sulla Stampa, sono i più retribuiti d’Europa e – anche – i meno preparati (e ben tutelati per via dell’immunità)?
(E la sinistra, su questo aspetto, è, a mio avviso più colpevole della destra. E’ un maledetto problema di casta).

Brutto tempo, qui.
Buona domenica comunque.
Ora mi metto a leggere.

In questo giorni a Vercelli c’è stata una bella gara di solidarietà. Per una giovane famiglia marocchina a cui è morto il bimbo di due anni (giocava, è caduto dal balcone). Volevano seppellirlo in Marocco, così farlo vedere, anche se ormai morto, almeno una volta a nonni e zii. Ma il trasporto costava.
La maestre della sorellina e gli operai, colleghi del padre del bimbo, hanno però lanciato una sottoscrizione: a cui ha risposto tutta la città.
Spiragli, a volte.

Ezio Taddei e Luisito Bianchi, scrittori dei poveri

Uno.
Vado sul vecchio blog. Password, entro, tolgo spam dai commenti che sono bloccati. Ci torno in media una volta al mese. Di tanto in tanto qualcuno lascia qualche commento anonimo. Sono una novità, per me. Son comparsi un mese dopo la pubblicazione de La donna che parlava con i morti. Non li ho distrutti: son lì, con IP, nick inventati, contenuto.
Ci sono abituato agli anonimi: al giornale quasi tutte le settimane ricevo lettere anonime.
Solitamente sono segnali positivi, sia per un libro che per un giornale. E’ anche un bell’argomento, trattato per esempio dal bel libro di Pontiggia, Il giocatore invisibile.
Sul vecchio blog, oggi, però ho trovato un commento serio. Il commentatore non sapeva di essere in moderazione.
Allora, il post è su Ezio Taddei, scrittore livornese, anarchico.
Il commento dice:

Conosco bene, essendo figlio di un livornese, Ezio Taddei di cui recentemente ho parlato a Paolo Di Stefano del Corriere per lamentarmi che nell’ultima opera di Davico Bonino (Einaudi) sul novecento italiano Ezio non viene citato. Preferiscono Camilleri e via discorrendo. Taddei come Silvio D’Arzo è tra i più bravi del novecento. Basta leggere “La fabbrica parla” o “Rotaia”. Taddei di cui esistono alcuni romanzi inediti era un anarchico, idealista, comunista. Anche se Ingrao fece finta di non conoscerlo. Perchè non lo pagavano quando collaborava all’Unità e ad altri settimanali del partito. Bene ha fatto Graphot a ripubblicare “Il pino e la rufola”. Oltre alla biografia, eccellente, di Novelli, esiste un libro di Domenico Javarone su Taddei molto interessante. Grazie
maurizio carrara

Due.
Sabato verrà dalle mie parti (a Trino Vercellese, ore 18) don Luisito Bianchi a presentare il suo ultimo libro, I miei amici. E’ cosa rara che io presenti altri autori. L’avrò fatto cinque, sei volte. Con Luisito raggiungerò quota due. Mi piace come scrive, mi piace come persona. Dice cose potenti, vicine al Vangelo, lontane dalla chiesa-struttura.
Ogni tanto ci scriviamo: carta e penna (non son più abituato).
Lui un giorno mi disse che Paola Borgonovo, editor di Sironi, era talmente addentro alla sua scrittura al punto che gli aveva fatto notare cose che a lui erano sfuggite.
Succede spesso, o più sovente di quanto si possa immaginare, che altri sappiano entrare dentro la nostra scrittura: perché nello scrivere subentra, a vari livelli, il nostro inconscio.
Dicevo che Luisito mi scrive: e del mio ultimi libro mi ha fatto capire una cosa che io, scrivendolo, non avevo colto (e che mi ha fatto piacere cogliere).
Pochi mesi fa, grazie a una cara amica, sono andato a Viboldone dove gli amici di Luisito, in gran segreto (altrimenti c’era il pericolo che lui scappasse via) gli avevano organizzato la festa per il suo ottantesimo compleanno.
Quando tornai, su La Poesia e lo spirito scrissi

Don Luisito dice cose forti, sussurrando.
Lui ha fatto il prete senza ricevere mai lo stipendio dalla propria curia. E oggi fa il pensionato: 600 euro al mese grazie ai contributi versati facendo l’operaio e il benzinaio. I proventi dei libri vanno alle missioni.
Ho scelto questa sua poesia, quasi a caso, così da dedicarla a lui, a chi gli vuole bene (perché don Luisito ti indonda d’amore), a chi non lo conosce.
Basta poco.

NEL PRATO
(di don Luisito Bianchi)

Scruto scritture di foglie sul prato
come tremanti viscere l’aruspice
d’altra stagione di funghi verrà
a liberarmi letizia d’incontri
con prataioli e chiodini.
– Sarà
non sarà -, quali sentenze appannate
di sibille m’echeggiano a risposta
mentre frugo con gli occhi le ramate
foglie e preparo il riso dell’invenzione
d’un bizzarro baschetto di velluto.

E sconosciuti sussulti di vita
stendono velo pietoso sul dubbio,
nell’aria gonfia di pioggia,
bastandomi
pochi passi di prato ad appagare
in parabola tutto il mio andare.

25 ottobre 1993

Le poesie di don Luisito si trovano su www.orasesta.it

Mario, che schifo

Quindi Mario… ricapitoliamo.
Quando avevamo saputo che sua moglie Marisa, non paga di cornificarlo, alle amiche dell’aperitivo, bar affollatissimo del centro, ore 19, minuto più minuto meno, e quindi non avevano sentito solo le amiche, aveva raccontato, con dovizie di particolari, delle, come dire, ma sì, basta guardarlo in faccia a Mario, aveva raccontato, dicevo, delle prestazioni barbine del di lei consorte tra le lenzuola, sputtanandolo senza pietà, beh noi, è successo un mese fa mi pare, noi prima che lui arrivasse, trafelato e in ritardo e sudato come sempre, ci facemmo delle grasse risate sul nostro collega, su Mario insomma.
C’era da immaginarselo, comunque, che fosse mal funzionante.
Per la carità: sul lavoro è bravo, puntiglioso e coscienzioso, sempre a testa bassa sulle pratiche oppure naso a due centimetri dal computer, vede un cavolo Mario.
Ma come avrà fatta Marisa a sposarlo?, ci siam sempre chiesti, è grosso e rumoroso: mentre lavora parla da solo, bofonchia, e noi a dirgli «Spegni la radio», ma mica capisce lui, poi è uno di quelli che quando beve, acqua, caffè o succo di frutta che sia, beve da vecchio, facendo rumore con sigla finale, aaahhhh, e poi, se deve aprire un cassetto Mario, sposta tutta la scrivania, per non parlare di quando risponde al telefono, lui non risponde, urla Buongiorno scandendo bene e con quattro “o” finali, così che tutti sentano, per esempio quelli dell’ufficio dirimpetto a noi, sull’altro lato della strada, ma cristo.
E’ rumoroso e puzza, nel senso che le sue puzze sono spaventose.
Quando va in bagno noi tutti, e qualcuno di noi tutti dice «oh nooo», guardiamo l’orologio e prendiamo nota: così da regolarci, perché per un’ora tratteniamo escrementi solidi e liquidi, ché nella camera a gas non ci vuole entrare nessuno, ma cosa mangia cipolle e fagioli tutti i giorni?, ma la Marisa, la Marisa come fa?, hanno un bagno solo, e metti che a lui scappi una puzza tra le lenzuola, che fa la Marisa?, subito la doccia per mandare via il tanfo?
Ma perché non divorzia?
Per non parlare dei suoi starnuti: sono esplosioni seguite dal soffio del naso che sembra un permacchione, su un fazzoletto che sembra un tovagliolo, o magari lo è.
E poi non guarda mai in faccia nessuno, sempre lì a testa bassa, ma cosa fa si guarda l’apparato riproduttore e gli pone quesiti a cui quello, poveraccio, non sa rispondere?
Ah, non vi ho detto il peggio.
Si dice che si scaccoli.
Così – qui vi faccio ridere, lo so – in ufficio quando ci si saluta per le ferie e ci si abbraccia o ci si sitringe la mano, metti un compleanno, le ferie, metti gli auguri pasquali o natalizi, dovreste vedere le fughe quando lui, a testa bassa, tende la mano che nessuno gli stringe mai.
Ciao Mario, stammi bene.
(E comunque, che lui si scaccoli è cosa nota a tutti, forze dell’ordine comprese. Ci siamo sganasciati dal ridere quando, quand’è succcesso?, l’anno scorso mi pare, arrivò un maresciallo da noi in ufficio, andò da Mario per una pratica e poi, quando si salutarono, a Mario che gli tendeva la mano quello, per evitare il contatto, aveva risposto con il saluto militare, mettendosi sull’attenti. Appena quello è uscito, ci siam piegati in due sotto le scrivanie dal ridere, non c’erano clienti, quindi, e lui mica aveva capito, guardandoci da dietro quelle sue lenti da talpone).
Ma come ha fatto Marisa? E’ carina, sapete?
Stamattina Gianna, che è la nuova assunta, quando ha sentito dire da me, sì da me, da me, che il puzzone, come al solito è sempre in ritardo, tanto siamo fessi noi, nessuno che faccia mai la spia col direttore, e la pratiche di Mario, noi che siamo scemi, se sono urgenti ce le dividiamo, beh ecco, Gianna mi ha interrotto, mi ha guardato e mi ha detto, ma hanno sentito tutti, si prendeva il caffè, non era arrivato Mario ma nemmeno il direttore, mi ha detto Gianna che sua sorella infermiera lo vede tutte le mattine, sudato e trafelato, e ti pareva, che va su e giù in ospedale, perché accompagna, e son due anni, sua madre a far la chemio, ma non è tutto, accompagna, e son tre mesi, anche il padre, pure lui a fare la chemio, perché, ci ha detto Gianna, Mario ha raccontato, sempre a sua sorella infermiera, che, purtroppo i suoi di fratelli, ne ha due Mario, più piccoli, hanno altre cose da fare, Poverini.
Ha detto poverini, Mario, chissà con quante iiiii ha detto poverini, che co-glio-neeee che sei, Mario.
Si sta grattando la testa, ora Mario, ma sì dai un po’ di forfora in questo ufficio mica inquina.
Ha sbadigliato, mamma mia che bocca larga che ha, sembra una rana.
Sta camminando vicino alla mia scrivania, ora Mario, col suo passo pesante, in fondo ha tanti pesi, Mario: la ciccia, ma perché non si mette a dieta, le corna, quelle sì che pesano, i pensieri, già i pensieri.
Ha acceso il computer, ora Mario.

Segnalazioni.
– Una citazione.
– La scorsa notte Splinder era in manutenzione. Così questa (di Anfiosso) l’ho letta due volte.
– … se poi è stato un camorrista non me ne frega nulla, ha scritto Morgan
– Dal momento che è in libreria I miei amici di Luisito Bianchi, penso proprio che questa bella intervista sia quanto mai attuale. Nei commenti, Andrea Inglese scrisse che il punto di vista di don Luisito (sulla gratuità) farebbe terremoto, se fosse sostenuto da un numero importante di cattolici.

Mario: son sempre gli stessi da avere la fortuna, canta Iannacci (grazie S.)

sbaglio?

Un libro trovato per caso, dimenticato. L’incipit (preceduto dal titolo del primo capitolo, “Come Bonnot piccolo funzionario del crimine andò a Parigi a dar fuoco alle polveri”), l’incipit, dicevo, è questo.
Madame Thollon sobbalzò. Le era parso di udire un leggero rumore contro le imposte della camera: come il fruscio insolito di un ramo o come se fossero stati lanciati dei sassolini. Trattenendo il respirò sollevò la testa e si mise in ascolto. Ma non udì altro che il brusio uniforme della pioggia, interrotto a ratti dal fischio del vento che indovinava gelido tra gli alberi.
Il titolo del libro è La banda Bonnot, la casa editrice è Forum editoriale Milano, 1968, in quarta di copertina non c’è nemmeno una parola, in copertina, sotto il titolo, La banda Bonnot c’è scritto “La rivolta disperata e totale di “banditi tragici dell’anarchico Bonnot. La belle èpoque terrorizzata dal grido “Morte alla borghesia”. Una ricostruzione minuziosa, partecipe, appassionante”.
(Si vede che tirava aria di sessantotto).
L’autore è un certo Bernard Thomas. Cerco di lui in rete: c’è niente.

Il nome di Bernard Thomas mi fa venire in mente (semplice assonanza) il grande Thomas Berhard.
E la sua scrittura: o la ami alla follia oppure non la digerisci, nemmeno col malox.
Incipit di A colpi d’ascia, Adelphi
Mentre tutti aspettavano l’attore che aveva promesso di arrivare alla loro cena nella Getzgasse verso le undici e mezzo, dopo la rappresentazione dell’Anatra selvatica, io osservavo i coniugi Auersberger dalla stessa bergère in cui stavo seduto quasi ogni giorno nei primi anni Cinquanta, e pensavo che accettare l’invito degli Auserberger era stato un errore denso di conseguenze. Ho inontrato al Graben gli
Auserberger, che non vedevo da vent’anni, proprio il giorno della nostra comune amica Joana e ho accettato, senza tante cerimonie, l’invito alla loro cena artistica, come i coniugi Auserberger hanno chiamato quel loro pranzo serale. Per vent’anni non ho più voluto sapere niente dei coniugi Auserberger. e per vent’anni non ho mai più visto i coniugi Auserberger, e in questi vent’anni…

Un editore mi fa, sai perché Il cacciatore di aquiloni ha venduto così tanto?
Perché è scritto semplice, la gente ama le scritture semplici, mi ha detto prima che io rispondessi.
Mentre mi diceva questo io pensavo a Thomas Bernhard, che semplice non è (o a Manchette, che a mio avviso è troppo semplice: preferisco Izzo).
Per cui all’editore non ho detto niente, e non è vero che chi tace acconsente: chi tace a volte riflette.
E comunque: io devo ammettere che col passare del tempo mi faccio sempre più paranoie. Se scrivo qualcosa e vedo che ho usato periodi lunghi cerco conforto: e faccio leggere quel che ho scritto a qualcuno che non è un grande lettore, a qualcuno che legge mettiamo tre, quattro libri l’anno.
Conosco una donna, giovane sulla quarantina, che da qualche anno legge meno.
Legge meno perché oltre a lavorare e badare a casa sua deve, ogni giorno, assistere i suoi vecchi, che non sono più autosufficienti. Leggeva un libro al mese, anni fa, ora ne legge uno ogni due (mesi).
Quando finisco il mio romanzo le farò leggere le bozze e, son sicuro, che se mi dirà che non ha capito qualcosa io le darò ascolto.
Sbaglio?

Sulla scrittura, in particolare, ma non solo: ho appena letto questo post di Solimano, brillante come al solito.

cara signora

Me l’ha segnalata una persona  – una persona che il problema zingari l’ha vissuto da volontaria e da assessore: lavorando per loro, andando al campo nomadi, protestando anche con loro, se necessario – questa lettera di don Luigi Ciotti che è stata pubblicata sull’Unità e che ripropongo con qualche taglio. (L’essenza c’è).

Cara signora,
ho visto questa mattina, sulle prime pagine di molti quotidiani, una foto che La ritrae. Accovacciata su un furgoncino aperto, scassato, uno scialle attorno alla testa. Dietro di Lei si intravedono due bambine, una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati, e l´altra, piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie. Accanto a Lei la figura di un uomo, di spalle: suo marito, presumo. Nel suo volto, signora, si legge un´espressione di imbarazzo misto a rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato incendiato. Sul retro di quel furgoncino male in arnese – reti da materasso a fare da sponda – una scritta: “ferrovecchi”.
Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa. Conosco il suo popolo, le sue storie. Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità: quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità in quei volti.

Nel nostro Paese si parla tanto, da anni ormai, di sicurezza (…).
È il bisogno di sentirci rispettati, protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo. Per tutelare questo bisogno ogni comunità, anche la vostra, ha deciso di dotarsi di una serie di regole. Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che era lecito fare e quello che non era lecito, perché danneggiava questo bene comune nel quale ognuno poteva riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la perdita della libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo – essendo la libertà il bene più prezioso, e voi da popolo nomade lo sapete bene – doveva servire per reintegrare nella comunità, per riaccogliere. Il segno della civiltà è anche quello di una giustizia che punisce il trasgressore non per vendicarsi ma per accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a una crescita, a una presa di coscienza.

Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franando. Sta franando di fronte alle paure della gente. Paure provocate dall´insicurezza economica – che riguarda un numero sempre maggiore di persone – e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che l´insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e sradicamento, e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella speranza di una vita migliore.

Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un´immagine. È come se ci sentissimo tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe è limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro prossimo come un concorrente, uno che potrebbe salvarsi al nostro posto. La reazione è allora di scacciare dalla nave quelli considerati “di troppo”, e pazienza se sono quasi sempre i più vulnerabili. La logica del capro espiatorio – alimentata anche da un uso irresponsabile di parole e immagini, da un´informazione a volte pronta a fomentare odi e paure – funziona così. Ci si accanisce su chi sta sotto di noi, su chi è più indifeso, senza capire che questa è una logica suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno in vittime.
(…)
Chiedere agli altri di rispettare una legge senza averli messi prima in condizione di diventare cittadini, è prendere in giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito di istituire un “reato d´immigrazione clandestina” nasce proprio da questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la aumenterà, aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure.

Un´ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere almeno un po´ le nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e chiederci se davvero questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi creda – anche per essere stati figli e nipoti di migranti – continuano a nutrire.

La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con Suo marito e le Sue bambine. E mi permetto di dirLe che lo faccio anche a nome dei tanti che credono e s´impegnano per un mondo più giusto e più umano.
Don Luigi Ciotti
Presidente del «Gruppo Abele» e di «Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie»

zingari di merda

È lì che ci porta il viaggio di Moresco, sulla soglia del silenzio e della morte. Dove arrivano anche le fotografie di Giovanni Giovannetti, che chiudono il libro (leggo su Orasesta)
Ringrazio Aitan per la segnalazione di questo post.

Estate 2006. Sono a Ravenna per presentare Lo scommettitore.
Pernotto in una bella pensione, la prenotazione l’ha fatta Fernandel, la casa editrice.
Ne approfitto, Ravenna è bella, la Romagna è bella; è vivace. Mi fermo due giorni e due notti, quella di venerdì e quella di sabato.
Sabato, mentre faccio colazione, parlo con il marito della signora che gestisce la pensione. Fa il fotografo, lui. Mi dice che ha una passione, Posso farle vedere, mi fa?
Ma certo, dico, e lui arriva con degli album, mi pare di ricordare.
Di scuro erano tutte fotografie che lui aveva scattato tra i rom. Vorrei che la gente sapesse che questo popolo è un popolo dignitoso come lo erano i pellerossa d’amercica, mi disse.
Guardi qua, non le sembra un’indiana?
Mi fece vedere una foto di una bellissima ragazza, Avrà vent’anni, mi disse lui, Vede come mi guarda, un po’ fiera e un po’ arrabbiata? I Rom non amano essere fotografati, ma i bambini sì.
Erano infatti foto soprattutto di bambini.
In Europa, mi disse, sono milioni e milioni, quanti uno stato della comunità europea, solo che noon hanno voce, né al parlamento né da nessuna parte. E l’ingiustizia, nei loro confronti, si perpetua.
Quel fotografo, poi, mi dice un’altra cosa. Mi dice: Ho imparato a conoscerli, e solo quando li conosci li capisci.
Era commosso. Ricordo che guardai sua moglie che a sua volta lo guardava, sorridendogli, come a dire Ti capisco, io ti capisco.

Non è facile parlare degli zingari. Nella mia città, alcuni sinti, soprattutto la sera, entrano nei bar di periferia e fanno paura, soprattutto quando bevono (e bevono: non c’è sera).
Sonospacconi, cercano la rissa. E contro di loro si scatena la rabbia delle periferie, e non solo. Anche di chi non li ha mai visti.
A volte sembra che il male peggore non siano corruzione, smog, il lavoro che non c’è, lo spaccio di droga che aumenta. Il male peggiore sono loro, che davanti ai supermercati e alle chiese chiedono l’elemosina.
Poi rubano, certo.
Ma come vivono? Come sono nati, cresciuti?

Quando frequentai per due anni un locale della periferia, che mi ispirò il racconto Tamarri, avrò avuto una quarantina d’anni. C’era qualche pensionato senza pensione, un paio di miei coetanei che la sera non sapevano dove sbattere la testa, e c’erano tanti ragazzi, dai quattordici e diciott’anni. Figli della disperazione. Alcuni erano zingari. Bevevano birra, certo. Una, due, tre Moretti. Ma non erano interessati né alle canne né alle pasticche che, sapevo, giravano alla grande, lì.

Credo ci sia un problema, serio, in Italia: a differenza di altri paesi europei, come la Germania, spendiamo tanti soldi per la repressione e pochi per l’integrazione.
Zingari di merda, appunto.
(Quando, domenica scorsa, al Salone del libro sono andato allo stand di Effigie, Giovanni Giovannetti, spiaciuto, Mi ha detto che Zingari di merda era ormai esaurito, – ma io son contento per lui, Moresco e il libro).

Poi, vi prego, leggete questa poesia di Mariella Mehr sul blog di Lino Di Gianni.
Faccio che incollare le note biografiche di questa poetessa (pubblicata da Effigie).
Mariella Mehr è stata vittima della persecuzione del suo popolo in Svizzera (il famigerato programma “Kinder der Landstrasse”, del quale poco o niente si sapeva fino a una ventina di anni fa): tolta alla madre nella primissima infanzia, passata per famiglie affidatarie, orfanotrofi e istituti psichiatrici, è stata soggetta a violenze di ogni genere, compreso l’elettroshock, e, come già successo a sua madre, a diciotto anni l’hanno sterilizzata e le hanno tolto il figlio. Autrice di romanzi, opere per il teatro e poesie, dal 1996 vive in Toscana.
La sua letteratura è una lotta permanente contro l’intolleranza, il razzismo e la discriminazione.

Fabio Turchetti – Mariella Mehr: Mio angelo di cenere