segnalazioni (e primo maggio)

S’avvicina il primo maggio. Li ricordo sempre col sole, io, i primi di maggio. Se ha piovuto, evidentemente ho rimosso. Poi, per me, è anche la data di nascita di una persona che porto sempre nel cuore. E sul primo maggio, tempo fa, lessi questo vecchio post di elena, o caterpillar.
Un gran bel post, per me, ovvio.
Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio negli anni Settanta e Ottanta, a un certo punto si sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?
Un interessante articolo di Girolamo di Michele (su Aldo Bonomi e Il rancore, edizioni Feltrinelli) sul blog di Loredana Lipperini.

Su La poesia e lo spirito alcune poesie di Giulio Marchetti. Che è giovane, bravo e umile. Scriveva fiabe, aveva anche un bel sito internet; ora si è dedicato alla poesia, con buoni risultati, mi sembra.

Su Cabaret Bisanzio la recensione di un buon libro, che però parte svantaggiato: è pubblicato da un piccolo editore, quindi lo troverete di dorso se lo troverete. Ma dimostra che la piccola editoria – insieme a tanti prodotti così così, purtroppo – sforna anche cose buone come il pane fresco.E infine.
I sogni nel cassetto degli aspiranti scrittori sono spesso destinati a rimanere per sempre nascosti la dove sono stati riposti, magari dopo qualche timido tentativo di trovare una strada per la loro pubblicazione. Potete continuare a leggere sul blog di Enrico Gregori.

scritto e cancellato

Ho scritto tre post.
Sul salone del libro, il primo; sulle discussioni infinite che si fanno attorno all’editoria (dopo aver letto cento commenti sul blog di Serino), il secondo; sul nuovo libro che sto cercando di scrivere, il terzo.
Ho scritto e riletto.
Salvato, ma non pubblicato.
Non mi piacciono i tre post.
Ieri ne avevo scritti altrettanti.
Salvati (ma li cancellerò).
Di notte succede la stessa cosa.
Sono alle prese con una storia.
Sono fermo a due capitoli, a 76mila battute.
Scrivere un libro sui calpestati non è facile, per niente.
I calpestati sono, in questo caso, calpestati, dimenticati, infangati.
Sto ipotizzando un noir, sto.
Stanotte, però, ero soddisfatto: avevo riletto, corretto, fatto le schede dei personaggi.
Ma se scrivevo qualcosa, poi, cancellavo.
Mal che vada, penso, non lo scrivo: e questo pensiero, giuro, mi dà sollievo. Non mi ci ritrovo nell’editoria “sgomitante”.
Bene, adesso esco dall’ufficio. Vado a comprare le sigarette e vado al bankomat.
Stasera vedo una persona, conosciuta tramite Anobii. Mi ha organizzato una presentazione de La donna che parlava con i morti a Borgolavezzaro, sabato 10 maggio, ore 18.
Al salone andrò l’11.

1969, incontri licenziosi?

è il 1969, un giorno a caso.
il giornale locale, ma gli altri pure, costa 60 lire.
le prime pagine, ligie e grigie, sono attente a tutto ciò che sa di potere: economico, politico, religioso, militare.
c’è spazio per lo sport, naturalmente dentro.
e per la pubblicità.
A Rapallo, a Villa Benia, si curano le balbuzie.
A teatro, chi vuole, può prenotarsi: arrivano i Camaleonti.
Film in programma stasera (due spettacoli, il primo inizia alle 19).
Serafino, con Celentano e Ottavia Piccolo, a colori.
Dolce novembre, con Sandy Dennis e Anthony Newley.
(La trama. Vispa ragazza propone un mese di convivenza ad insipido uomo d’affari. Non è una spregiudicata ninfomane, ma vuol riservarsi un posticino nella memoria degli altri).
Mah, proseguiamo.
Commando suicida (senza trama né attori).
Impiccatelo più in alto, con Clint Eastwood.
Prudenza e pillole, con Deborak Werr.
Il mercenario, con Franco Nero e Toni Musante.
Poi ci son già i film in programma negli oratori, domenica prossima: due proiezioni, si paga un solo biglietto.

Cronaca.
Hanno arrestato tre uomini alla stazione. Indossavano… la minigonna.
Sono stati i passeggeri a notarli e chiedere l’intervento delle forze dell’ordine.
L’articolo chiosa così.
La Polizia sta indagando per stabilire se questi giovani dal comportamento equivoco e scandaloso siano anche protagonisti di qualche incontro licenzioso.
(Dei tre, c’erano nomi e cognomi e indirizzi pure).
Buone cose

Covacich, denudando e denudandosi

Quando succede agli altri sembra un avvenimento limitato, facile da isolare, da superare. In realtà, quando succede a noi, ci si trova indissolubilmente sole, in un’esperienza vertiginosa, cui l’immaginazione non si è mai neanche avvicinata.
La notti che lui passa da lei, ho paura di non dormire e ho paura di dormire…
Spesso, mi sento morire dall’infelicità…
Lui mi getta uno sguardo indifferente e si allontana.

Un po’ alla rinfusa, spezzoni tratti da Una donna spezzata, di Simone de Beauvoir.
Un libro che fa male.
La storia di un abbandono.
Chi legge sente, nelle viscere, i dolori della protagonista (spezzata) della de Beauvoir.
Ti senti abbandonata-o, tradita-o, finita-o.
Non hai che una carta, l’ultima: implorare.

Il libro di Mauro Covacich, Prima di sparire, Einaudi, potrebbe, come tutti i libri del resto, avere un altro titolo, o un sottotitolo: La donna che ho spezzato.
Ho letto questo libro dopo aver letto un post, duro ma che continuo a condividere, di donna Laura.
Covacich ha scritto della sua vita. Dei giorni dell’abbandono vissuti ma dalla parte del torto.
E qui che Covacich stupisce: racconta e basta, e non cerca attenuanti. Si denuda, insomma, senza trucchi. E’ lui l’assassino, il malvagio. E’ lui che ha spezzato una donna: così è, punto.
Ha scritto per lavarsi la coscienza?, come scrive donna Laura. Io penso di sì: scrivere serve a sopravvivere, anche.
Io non l’avrei scritto, ne son certo.
E’ giusto raccontare, raccontarsi, denudandosi e denudando?
Non è meglio, quando si scrive, prendere la realtà, partire da lei, e poi deformarla in modo che alla fine sia vera e falsa allo stesso tempo?
(Se è troppo vera è saggistica, giornalismo, letteratura condita – magari magistralmente – col giornalismo, alla Saviano; se è troppo falsa è fiction).
Io stesso: ho fatto bene oppure ho fatto male a scrivere della mia vita, non sui libri, ma in rete?
Una volta (almeno) è successo.
Comunque: fa male il libro di Covacih, ma è un ottimo libro. Anche perché c’è dell’altro. Un’altra storia di infedeltà, il mondo della scrittura, oggi.
(Mi son chiesto: poteva andare più a fondo, Covacich, al fondo del fondo?, dove l’urlo fa ancora più male oppure ha esagerato, doveva essere più lieve, ché non si denuda così? Non lo so, quando si scrive si sceglie, razionalmente e no).
Ma sullo sfondo comunque c’è – perché è lei che emerge – una donna spezzata.

– Aspetta – le dico. – Non andartene così -. Ma lei è già sulle scale e singhiozza con la mano sulla bocca per fare meno rumore. Non si gira neanche, piange squittendo, come se ridesse e scende le scale reggendosi sul corrimano. – Aspettaa! – le urlo dietro, senza motivo. Che c’è da aspettare.
Sta’ tranquillo, non l’hai uccisa, mi dice la mia faccia sulla finestra. Vedi, è lì che cammina sul marciapiedi, è ancora viva…
Vedi non l’hai uccisa, l’hai solo abbandonata. Era questo che volevi, no?

Un prezzo da pagare, comunque, in Prima di sparire, ci sarà: e non sarà solo il senso di colpa… Poi, nell’ultima pagina, in quella dei ringraziamenti, Covacich spiega.
Ma non è giusto che io ne dica.
Però mi chiedo. Covacich cita Stranamore nel suo libro. La televisione spazzatura, contenitore di confessioni alla faccia della privacy. E’ l’epoca, questa, del grande fratello e di stranamore e dei cento colpi di spazzola. Vent’anni fa, questo libro sarebbe stato pubblicato? Se fosse stato pubblicato vent’anni fa, io credo, avrebbe fatto il botto. Ora non so. Anche nei blog si usa raccontare, denudandosi e denudando. Sta cambiando quindi il comune senso del pudore.

Buona domenica

l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema

Quando avevo 19 anni, fresco di diploma, non andai a lavorare in fabbrica per una questione di sopravvivenza. Certo, ricchi non si era: ma mio padre mi diceva che se volevo studiare i soldi sarebbero saltati fuori, messi da parte. Mia madre invece non capiva come mai non m’interessasse entrare in banca, le avevano detto che avrei potuto.
Volli andare in fabbrica perché volevo.
Avevo letto Marx, Gramsci, Bordiga, Rosa Luxemburg, Labriola.
Livio Maitan e Sylos Labini.
Leggevo un giornalista che mi piaceva, allora, Edgardo Pellegrini.
Leggevo Sartre, e, dico la verità, non gli credevo: l’alienazione? Mio padre non è un alienato, pensavo.
Ma soprattutto: non mi convinceva quel che dicevano quelli che ruotavano attorno al Movimento Studentesco, a Lotta Continua: parlavano di fabbrica e di classe operaia, loro, ma alla fin fine che (cazzo: scusate) ne sapevano?
Così ci andai: 7 anni.
(Gli ultimi due, da studente lavoratore. Con la voglia di scappar via, dai rumori della fabbrica).

Sette anni di sindacalismo, anche. Nella Cisl di Pierre Carniti. Erano, quelli, gli anni del compromesso storico. Pci e Cgil – così a me sembrava – volevano dimostrarsi “rassicuranti” nei confronti di patronato e della democrazia cristiana.

Io, invece, maturai una convinzione: che la fabbrica è il peggior lavoro. E che era sacrosanta la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali.
Perché la fabbrica ti “sfrutta”, impoverendoti. Dopo otto ore di lavoro hai voglia di riposarti, di passeggiare per cercare di dimenticare i rumori e i gas e i capi che urlano, preferisci guardare la televisione a un libro.
Mi fermo, ne avrei di cose da dire. Troppe.

Dico solo che otto ore in fabbrica son tante di più.
Per lavarti le mani, cercare di toglierti l’unto che non va via e che ti ha macchiato la pelle, impieghi anche dieci minuti, e ti fai male, usando la pasta lavamani.
Dieci minuti al giorno fa almeno trenta ore l’anno. A togliersi l’unto. Il rumore dei macchinari invece ti accompagna sempre: ti insegue quando esci dalla fabbrica, poi ti resta dentro, anche quando dormi.

In fabbrica si parla soprattutto di figa, di calcio, della famiglia, di salute, di soldi.
Ma soprattutto di figa e di calcio e di ferie: il tempo passa più in fretta.
Poi si sogna, in fabbrica: di cambiar lavoro. I ruffiani non sognano, agiscono: magari diventeranno capi, oppure impiegati se hanno un diploma, basta leccare.
Sorridere a trentadue denti al tal dirigente, che magari è un caprone. Non fare sciopero.

In fabbrica si impara. La solidarietà. Si diventa amici. Si dividono sigarette e sogni.
Si impara a usare un linguaggio diverso, certo: son cose da ridere, si sa.
Poi c’è anche la cattiveria, a volte. Una sorta di mobbing bastardo, che si espande come la nebbia.
Di operai contro altri operai.
Contro la checca, contro la ragazza che si dice la dia via con facilità, contro chi fa l’intellettuale e non s’abbassa a parlar di figa e di calcio. A volte contro il ritardato. A volte…
Ma ho visto anche tanto rispetto: per gli anziani, per chi sta male. E per il coraggio.

Se oggi qualche operaio mi chiede dei consigli di lettura, io, che non sono credente ma agnostico, non dico (più) né Marx, né Labriola. Nè Gramsci (e mi spiace, non poterlo dire).
Dico don Lorenzo Milani.
Dico don Luisito Bianchi.

Di Luisito Bianchi è appena uscito il libro «I miei amici», Diari (1968 – 1970), casa editrice Sironi, 906 pagine, 24 euro.
Tante pagine e tanti soldi per comprare questo libro, certo.
Ma ne val la pena.
La quarta di copertina (che sospetto sia opera di Paola Borgonovo) è una gran bella quarta di copertina.

«Per la prima volta, questa notte, con insistenza, a lungo, senza attenuanti, ho maledetto la fabbrica. Avessi avuto il potere taumaturgico di Cristo, i motori si sarebbero fermati, le tine sventrate, le ciminiere sgretolate. L’orgoglio del fico avrebbe ceduto allo squallore della desolazione. Mi è apparso, in tutta la sua crudezza, quello che vale l’uomo in fabbrica, macinato dal sistema: nulla. A che serve la mia vita? A fare un bel gesto? A vivere l’Evangelo? A preparare un tempo più autentico per la Chiesa? Ad assommare inutilità su inutilità, vanità su vanità? Veramente Dio tace. Siamo nel periodo del sepolcro vuoto e del silenzio del Risorto».

Anche Luisito scelse di andare in fabbrica: ché avrebbe potuto fare il prete con la paga che prendono i preti, e le offerte durante la messa.
Invece andò in fabbrica, tra gli ultimi, per capire.
E per guadagnarsi da vivere, nel segno della gratuità.
«Quando Gesù Cristo si è fatto uccidere in croce non l’ha fatto in cambio di uno stipendio… e quando i giovani partigiani andavano a combattere e a morire l’hanno fatto con gratuità…. io non li ho seguiti, non andai a combattere e mi spiace…».
Per questo post ringrazio Orasesta: lei sa perchè.
E ringrazio Luisito: anche a nome dei «miei amici», quelli che una vita fa ho salutato, il giorno in cui timbrai la cartolina, per l’ultima volta.

gli eroi veri

Credo che il miglior modo per rendere omaggio alla resistenza sia raccontarla. Nel bene ma anche nel male.
Le belle pagine, e le pagine della vergogna.
E le pagine che, io spero, debbono ancora essere scritte: sulle bande partigiane degli anarchici e dei trotzkisti, pr esempio. I rimossi dalla sinistra stalinista, insomma.
Mi piace rileggere Fenoglio, il suo raccontare la resistenza, senza retoriche.
Mi piace leggere la storia dei fratelli Cervi, I miei sette figli, di Alcide Cervi (glieli ammazzarono tutti e lui lo seppe solo dopo): era il libro che lesse mia madre prima di partorire me. Me l’ha appena regalato un vecchio partigiano, mancava alla mia libreria.
Mi piace riparlare di un libro, ora, senza link o citazioni, a memoria: L’ausiliaria e il partigiano di Massimo Novelli, edizioni Spoon River.
Una storia vergognosa per la lotta di Liberazione. Una ragazzina, una liceale, che, quando Torino ormai era liberata, fu rinchiusa, violentata, poi uccisa.
Mi piace ricordare che questa ricostruzione l’ha fatta uno scrittore, figlio di un partigiano.
Non solo, scrivendo(ne) Novelli pensa a suo padre, studente del Liceo D’Azeglio di Torino, e a Marilena Grill, studentessa pure lei, lì, stessa scuola.
Il padre di Novelli, partigiano a sedici anni.
Marilena Grill, ausiliaria che credeva nella Patria e nel duce, morta ammazzata a sedici anni.
Ma non fu uccisa da un’idea deviata o folle, Maddalena.
Fu uccisa dal branco.
La vera resistenza, sempre e dovunque, è star lontani o, se si riesce, opporsi al branco e ai capobranco, urlatori.
Prima che Maddalena fosse uccisa un uomo, un partigiano, cercò di ribellarsi al branco, di dire (m’immagino) ma siete pazzi, questa è una bambina?
Rischiò di morire pure lui, insieme a lei.
Gli eroi veri della resistenza.

Scusate.
Ci sono pagine belle, in rete, sui blog, oggi, sul 25 aprile.
Pagine che mi fan venire voglia di Sermide: ciao Zena.

una giornata piena

In quanto tifoso della Fiorentina, da ragazzo vedevo sempre la Domenica sportiva. Aspettavo il momento dei servizi sul calcio, poi la moviola. E, mentre aspettavo, o fingevo di studiare per far contenta mia madre, oppure leggevo qualche libro che non era di scuola ma che spacciavo come tale: e lei, per farmi contento, faceva finta di credermi.
(Finché una volta mi disse, Pensi che son fessa?).
Comunque.
Una volta, attendendo il calcio, sentii il conduttore che parlava di un personaggio sportivo fuori dal comune.
Dunque, se non sbaglio, il personaggio in questione aveva giocato una partita di rugby al mattino, una di calcio il pomeriggio e poi, per chiudere in bellezza, aveva combattuto in un incontro di boxe la sera.
Lo invidiai.
Pensai che dovevo collezionare tante giornate piene anche io.

Ve ne propongo una: che non merita un monumeto ma che, a tutti quelli che mi dicono che dormo poco e non mi riposo mai, spiega qualcosa. Forse.
Allora, sì è vero, io vado di fretta.
(e mi piace la celebre citazione di CélineScrivo come posso, quando posso, dove posso. Scrivo in fretta e furia, come ho sempre vissuto)ma mi piace fare in fretta per poi ritagliarmi del tempo per del sano cazzeggio, specie di notte.
Di notte mi ricarico, insomma.
Allora.
Una quindicina di anni fa, all’incirca.
E’ domenica. La sveglia suona prestissimo, mentre la città dorme devo fare il biglietto e salire sul treno, per lavoro. Da Vercelli a Milano, poi a Milano, dopo un caffè alla stazione Centrale, prendo la coincienza per Firenze. Arriverò attorno alle 11, ho pure un libro dietro (sto preparando l’esame di letteratura). Mangerò un boccone e poi altro treno, per Pontedera: dove è in programma, nel pomeriggio, la partita di serie C2 Pontedera-Pro Vercelli. Insomma: la partita che devo seguire per il mio giornale.
I treni, quella domenica, non ebbero ritardi. Sicché (il sicché è d’obbligo, qui) mi ritrovai a Santa Maria Novella (Firenze) che erano passate da poco le undici. Un caffè, un bombolone (era d’obbligo), una sigaretta e poi, vedendo la chiesa di Santa Maria Novella, pensai: Son qui, quasi quasi entro.
C’era messa. Era iniziata, ne sentii una parte. Contento d’essere entrato in quella chiesa.
Poi, finita la funzione, andai in un bar per un panino e un bicchiere di vino, e poi di nuovo in stazione: dove avrei preso la coincidenza per Pontedera.
Dissi, magari mi faccio una dormitina, bastan dieci, quindici minuti. E invece fui svegliato: da due ragazzi, meno di vent’anni, che, vigliacchi (mio padre dice sempre così: Vigliacchi, quest’anno i pomodori mi fan penare), vigliacchi dicevo, avevano scelto proprio il mio scompartimento. E se la contavano e ridevano, e quanto si divertivano. Allora li avrei strozzati, oggi se ci ripenso penso a quanto siano differenti i ragazzi toscani da quelli piemontesi: quei due, giuro, si divertivano parlando dei piedi di lui, che candidamente ammetteva di averli sì, puzzolenti, ma di esser anche un gran figliolo pieno di altre qualià (nessuna volgarità, comunque, solo allusioni… volgari).
(I ragazzi piemontesi non è che facciano discorsi culturali e basta; ma non hanno l’abitudine di raccontare i cavoli loro a tonalità così alte. Poi è vero, ci son toscani e toscani; quelli della costa, per me, berciano di più di quelli dell’interno).
Allora.
Il resto della giornata, così la faccio breve.
Arrivo a Pontedera, chiedo dov’è lo stadio, mi presento con l’accredito, vado in tribuna stampa accerchiato da giornalisti-tifosi del Pontedera, seguo la partita, che finì zero a zero, e presi gli appunti per poi scrivere la cronaca. Quindi, finita la partita, mi precipitai nello spogliatorio a intervistare: allenatore della Pro Vercelli (Giuliani Zoratti) e allenatore del Pontedera (non ricordo chi fosse).
Il ritorno lo feci in pullman, coi giocatori della Pro Vercelli.
Facendo finta di studiare.
Appena arrivato a casa, andai in redazione e, in fretta e furia, scrissi: cronaca della partita, commento alla giornata di C2, pagelle dei giocatori, articolo con le interviste.
Andai di fretta a scrivere perché sapevo che se facevo in tempo c’era un film che mi interessava. E così, dopo aver scritto (allora a macchina) e riletto andai di corsa a casa dove mangiai: di nuovo in fretta. E alle 22, puntuale, ero al cinema.

Sfiga volle che ci fosse il pienone: così mi guardai Orchidea selvaggia, con Mickey Rourke, al fondo della sala e in piedi. Non mi piacque un granchè quel film.
Però ora ricordo che (mentre guardavo Orchidea Selvaggia) ricordavo: quel pezzo di mattinata fiorentina, e non mi sembrava vero.
Ed ero contento di ricordarla, d’essere entrato a Santa Maria Novella.
A mezzanotte tornai in redazione. C’era nessuno. Sempre il libro dietro. Provai a studiare ma la voglia era poca. Così mi rassegnai e feci tardi in una birreria, che ora han chiuso. Andai a dormire verso le tre, credo, era il mio orario allora.
Era stata una giornata piena.
Ne ho collezionate un po’, credo una ventina.
E comunque: per quanto mi piaccia leggere e scrivere se passo una giornata intera a leggere e scrivere quella no, non è una giornata piena.
Ci vuole qualcos’altro.
E se nel post ci son refusi ed erroracci abbiate compassione: ero di fretta, era una pausa notturna, quasi mattutina.
Buon 25 aprile.

un concorso letterario

lessi che c’era un concorso, bisognava inviare un racconto.
e che la premiazione sarebbe avvenuta a Santo Stefano Belbo, nella casa natale di Cesare Pavese.
non ricordo l’anno.
so solo che fino ad allora avevo scritto soltanto delle orribili poesie e degli aborti di monologhi teatrali.
poi, nel cassetto avevo (ed ho) un romanzo incompiuto, ambientato in fabbrica.
non ricordo l’anno ma ricordo che facevo già il giornalista.
scrissi un racconto, non bello.
a me però sembrò bellissimo, di più: pensai che avrei stravinto, ne ero certo.
e lo inviai.
fui così invitato alla cerimonia di premiazione.
prima che iniziasse chiesero chi erano quelli che volevano fermarsi a pranzo: dissi va bene, mi fermo.
all’organizzazione erano pervenuti 500 elaborati, anche dall’estero. per questi ci sarebbe stata una premiazione a parte.
prima di rendere noti i vincitori (una decina, mi pare; i dieci migliori racconti italiani e i dieci migliori racconti in italiano ma scritti da stranieri… mi pare) dissero che c’erano una decina di premi di consolazione. dei bei racconti, insomma, che si erano distinti ma che non erano entrati a far parte degli eletti.
tra questi c’era il mio.
quando mi chiamarono, tra gli applausi, ricordo la mia insoddisfazione.
ma come, non ho vinto?
avevo un doppio problema, allora. di presunzione, il primo.
vedevo solo il mio ombelico, anche quando scrivevo, il secondo.
Io credo che si possa pensare di scrivere quando si parte da sè per poi allontanarci.
e comunque.
ogni tanto, a distanza di anni rivedo quella giornata.
risento le voci di chi dice “si sono messi d’accordo, hanno premiato i soliti”, rivedo gente contenta e gente no.
forse, e dico forse, c’erano solo due contenti: i singoli vincitori delle due sezioni. I due primi, insomma.
poi andai al pranzo.c’erano soprattutto i premiati: o gli “eletti” oppure quelli che come me avevano ricevuto un riconoscimento.
mi annoiai. parlavano solo di premi e di concorsi. o almeno, quelli accanto a me.
accanto a me, però, c’era un uomo, sulla cinquantina. simpatico.
era arrivato quinto o sesto o quarto.
quando lo avevano premiato avevo apprezzato il motivo della premiazione, senza aver letto il suo racconto.
aveva scritto in bella copia un racconto di una vecchia contadina, analfabeta, della langhe.
durante la premiazione era stata chiamata anche lei, come co-autrice.
mi raccontò di questa donna, mentre mangiavamo.
ma ero disattento, ascoltavo un po’ tutti.
un paio di volte ho riletto quel racconto, che avevo intitolato “La rossa palletta di No” (No, sta per Noemi, nome che mi piace moltissimo. Direi che in assoluto i nomi femminili che più mi piacciono sono Noemi, Miriam, Sonia, Laura e Lucia. E Clelia, dimenticavo).
Non era un gran racconto.
Non meritava nemmeno il riconoscimento speciale della giuria.
Credevo che la mia vita fosse tanto interessante da riversarla in una storia.
C’erano due protagonisti, in quel racconto. Uno poteva andare, No (Noemi), l’altro per niente. Ero io.
Buona giornata.

la fedeltà di Pinocchio

Ogni anno, alla cara stagone della neve e della castagne, cavo dallo scaffale dei libri più vecchi, Pinocchio; cerco un posto quieto vicino alla stufa, e me lo rileggo. Perché?

Potrei dire che nelle pagine di Pinocchio ricerco i segni di un’infanzia lontana; i ricordi vaghi, le incerte impressioni della prima lettura…
Potrei dirlo, ma non sarebbe vero. Checché gli uomini dicano, fingano (magari a se stessi) di credere, è raro che qualcuno rimpianga davvero e non soltanto a parole – l’infanzia lontana. Quel rimpianto significherebbe un ottimismo non so se eroico o imbecille…
E allora rileggo Pinocchio per un’abitudine letteraria? Per riaccendere ancora e controllare nella lettura le impressioni nuove, su quelle vecchie; le illusioni che restano, su quelle cadute; per il bel gusto, alla fine, di tirare le somme ogni anno di un bilancio ch’è sempre in perdita?

… ma più semplicemente voglio dire che ogni anno ricerco Pinocchio, perché ogni anno sento di volergli più bene.
Gli voglio bene prima di tutto, per la sua onestà casalinga.

– C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. – No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di castagno.

Pinocchio, fino alla fine, tiene fede alla sua origine.

Pietro Pancrazi, Venti uomini un satiro e un burattino, Vallecchi 1923.

Pietro Pacrazi, studioso, saggista, critico, consulente editoriale, è nato a Cortona nel 1893 ed è morto a Firenze nel 1952.
Scrisse articoli per la terza pagina de Il Corriere della Sera., numerosi libri (uno mi pare sia in ristampa)
Campanilisticamente, quando scriveva di Collodi (Carlo Lorenzini) ricordava che “nacque nel 1826 da Domenico, oriundo di Cortona”.
Beh, non fossi nato a Cortona non avrei, anni fa, letto quel che scriveva Pancrazi su Pascoli o su Giusti, che è un gran poeta, discorsi di campanile a parte.
(Fossi papa, scusatemi, a momenti / l’ira metterei tra i sacramenti)

perché la scrittura nasconde

Perché la scrittura nasconde, almeno un po’: non sai mai cosa c’è di vero o cosa c’è di falso nella scrittura. Ti ci puoi nascondere dietro, se vuoi. O, forse, il punto è proprio questo: che è impossibile scrivere la verità. Me lo sono chiesta tante volte, e mai sono arrivata a una risposta.
A proposito di quegli inediti che dicevo (scrittori che sono scrittori a tutti gli effetti ma che per luogo comune non si possono definire tali fintanto che i loro fogli dattiloscritti non vengono raggruppati in sedicesimi in un oggetto chiamato libro), a proposto di questi, mi piace scoprire che ci sono un mucchio di cose da imparare anche da chi non è (o non lo è ancora) scrittore.

Alessandra Buschi, Il libro che mi è rimasto in mente, Fernandel.
E’ un romanzo, dove l’autrice parla di sé: del suo essere editor e donna.

Ogni tanto viene a leggere questo blog. Alessandra; di lei ho detto spesso nel primo blog, Appunti. Ha poco tempo per la rete, lei. Ogni tanto qualche suo racconto compare su Tina, la rivistina di Matteo.B. Bianchi.

E poi.
10mila contatti in 22 (quasi 23) giorni: grazie. E scusate se io giro poco per la rete, ma sono a corto di tempo ultimamente.

Buone cose

di sé e dei libri

E’ giusto che uno scrittore racconti di sé e dei suoi affetti, magari allontanati?
Secondo Donna Laura no.
E io, nel blog di Donna Laura ho scritto che non avrei raccontato e che sono d’accordo con lei.
Ieri però l’ho visto in libreria e ho comperato Prima di sparire, di Mauro Covacich, Einaudi, 16 euro.
In quarta di copertina ho letto:
Sparire dalla vita di un’altra persona significa tradire soprattutto se stessi: alla fine, anche se sei innocente, scopri di aver fatto comunque del male a un sacco di gente.
Questo sì, lo condivido.
Ma non mi racconterei mai, io.
Certo dei brandelli, sì, sono inevitabili i brandelli del sé.
Come Salgari: era lui Yanez, l’uomo delle cento sigarette al giorno.
Comunque leggerò il libro e vedrò se riuscirò a leggerlo o se invece mi dovrò interrompere a pagina 50.

Però son strani i libri, come noi.
Ho provato a rileggere libri che a vent’anni mi piacevano.
Come Papillon, di Henry Charrieère. Mi sono interrotto.
Non ha più lo stesso “sapore”.
Se la vita ti sorride e leggi un libro triste solitamente lo rifiuti.
Se vai di corsa e leggi un libro in fretta magari non lo capisci.
Se, son tanti i se.
Buon lunedì

Se Mondadori ristampasse L’obelisco nero di Remarque penso farebbe cosa gradita a tanti lettori. Ogni tanto qualcuno mi scrive e mi chiede se ce l’ho. Ce l’ho, fotocopiato. L’unico libro fotocopiato della mia libreria. L’avevo, l’ho perso, lo ho voluto riavere. Mi piaceva quando avevo vent’anni, mi è ripiaciuto l’anno scorso.


il non lieto fine

A un certo punto qualcuno alle mie spalle, due persone, forse una coppia, ha detto Basta, ed è andato via.
Troppo duro, per loro, il film di Olivier Marchal, L’ultima missione.
Una premessa. Mi piacciono i film francesi, mi piacciono alcuni attori francesi. Da ragazzo registravo tutto quel che trovavo con Lino Ventura (consacrato in Francia ma italiano). Ma anche Yves Montand e Philipphe Noiret, Depardieu e, tra le donne, Miou miou e Juliette Binoche e altre, di cui ora mi sfugge il nome.
Poi, è venuto Jean Reno, poi è diventata una star Daniel Auteill, sempre bravo nell’interpretare il ruolo del maledetto sì, ma pieno di fascino, ma che mi piaceva già vent’anni fa (nel bellissimo film Un cuore in inverno, con la bellissima Emmanuelle Béart).
Torno a L’ultima missione.
Bello, tre volte bello, bello come l’altro film proposto dall’accopiata Olivier Marchal e Daniele Auteill,
36, Quai des Orfévres.
Bello perhé fa male, l’ultima missione.
Perché finisce con un urlo, un’imprecazione: contro la verità che solo nei film americani emerge sempre e che, a mio avviso (mi basta leggere tante riflessioni su Anobii) hanno condizionato e condizionano non solo la cinematografia italiana ma anche l’editoria italiana.
Se un libro fa male, se un film fa male si preferisce uscire, leggere altro.
(I sociologi l’hanno rimarcato da tempo: per esorcizzare la morte e la vecchiaia si preferisce ghettizzarli, allontandoli. Così facendo ci possiamo dimenticare d’essere mortali).
Meglio non pensare che possa essere vero che certe volte – e qui sta il dilemma: quante volte?, tante, poche, cinquanta e cinquanta – il sipario cala, ma nel peggiore dei modi.
Senza applausi.
Pensate, chessò, a Falcone e Borsellino. O a chi è stato condannato ingiustamente. O semplicemente a chi muore in un casa di riposo, col pannolone.
Si pensi a Ilaria Alpi, a Enzo Baldoni.
Si pensi che ci possono essere stati dei Badaloni o delle Ilaria Alpi e nessuno ha saputo niente.
Si pensi a chi è stato infamato, deriso, calpestato da poteri invisibili che sono comunque legati a potervi veri e forti.
Nessun lieto fine. E verità occultate, e rabbia, solo rabbia per chi sa.
E’ sui calpestati il film, L’ultima missione, soprattutto.
E’ interpretato benissimo.
E’ bello: perché fa male.
Poi se volete vi dico anche che ha i ritmi del thriller, certo.
buona domenica

(Nella foto, Miou miou e Daniel Auteill, classe 1950, tutti e due; l’immagine dev’essere di qualche anno fa)

Miou Miou e Daniel Auteill

PS tra le chiavi di ricerca che portano a questo blog ogni tanto ne compare una.
mail di remo bassini.
eccola.
bassini.remo(chiocciola)gmail.com

Dimenticavo.
E c’è un film italiano, interpretato da Daniele Auteill, Sotto falso nome. La regia è di Roberto Andò (palermitano), racconta una storia, condita con del sano erotismo, di un plagio letterario. Non è un film sulle verità calpestate; ma è comunque un buon film. Passato piuttosto inosservato, mi pare. O almeno.