Avevo scritto cose, stanotte, due cose diverse.
La prima. Considerazioni sui giovani, raccontando le mie serate in birreria o le mie lezioni nelle scuole.
La seconda. Lunedì in redazione, con birra, aranciata, archidi e patatine abbiamo festeggiato (dieci minuti, di più non si poteva) i miei primi tre anni di direzione.
Alla fine, però, rileggendo i post, mi dicevo che qualcosa non andava. E, senza capire perché, li distruggevo.
Mi sembravano stupidi. Lo erano.
Vedete, un conto è fare il giornalista di una grande testata. O da lontano. Ma quando sei l’album fotografico di una piccola città è diverso.
Poche ore prima che scrivessi quei post, hanno sepolto una ragazzina, di sedici anni, morta in un incidente. Ho visto le foto di lei, sorridente, ho letto il biglietto che le ha scritto il fratellino, di 11 anni. Il biglietto era accanto a un pupazzetto, che è stato messo, insieme ai fiori, sul luogo dell’incidente.
C’era questo che non andava nei miei post.
Era questo il post che chiedeva di essere scritto.
So chi è il padre. Un mio giornalista lo conosce bene. Penso a come possano sentirsi, in queste ore, il padre e la madre della ragazza.
Dire penso a come possano sentirsi i genitori della ragazza è facile dirsi.
(Bion: Un conto è mettesi nei panni degli altri. Altra cosa è mettersi i panni degli altri…)
A immedesimarsi, per davvero, c’è da avere male, dalle budella all’anima.
(E penso al nostro mestiere di giornalisti, anche: siam tristi e parenti stretti dei becchini, in fondo in fondo).
C’è il sole, oggi.
Si nasce e si muore, oggi, si piange e si ride, come sempre.