Mia madre mi chiamò, mi aiutò a lavarmi, mi vestì bene. Eppure non era domenica. Eppure, pensavo mentre mi pettinava e mi faceva la riga, non sto male, anche quando mi portavano dalla specialista per l’otite cronica, la sinusite cronica e altre cose croniche mi vestivano bene. Pantaloni ben stirati, la camicia bianca, il gilè, le scarpe della domenica. Anche un po’ di acqua di colonia.
Non ricordo le parole, ricordo però che non mi annunciò nulla di esaltante: sarei dovuto andare in un posto con mia zia, sua sorella (zitella, allora fidanzata).
Non andavo d’accordo, io, con quella zia. Mi rimproverava sempre e poi se mi vedeva che facevo qualcosa che non andava faceva subito la spia con mia madre (e poi erano cavoli amari, e molto).
Mia zia arrivò.
Era elegantissima, era strana.
Mi prese per mani e mi disse Andiamo.
Andammo.
Mezz’ora di cammino, circa. In silenzio, ed era strano, perché mia zia era un’insopportabile chiacchierona.
Poi, dopo la camminata, mi ritrovai (è quel che ricordo, prendere o lasciare) in uno stanzone poco illuminato, ma pieno di gente, donne soprattutto, vecchie (io le ricordo vecchie), poco simpatiche (ancora meno simpatiche di mia zia).
Insomma: in ogni angolo di quello stanzone c’era una vecchia, quante saranno state?, venti? e, ognuna di loro, aveva una sedia di paglia e un ventaglio.
Vidi, con dispiacere, che nessuna mi offriva biscotti, caramelle o cioccolatini di cui ero ghiottissimo. Semmai: mi guardavano come mi guardava male mia madre quando tornavo a casa e avevo fatto a botte, o avevo rotto le scarpe giocando a calcio, o avevo perso l’ennesimo ombrello.
Guardai mia zia, anche lei mi guardò. Mi sembrava più umana del solito, spaventata forse. Ricordo che, ogni tanto, dal momento che eravamo circondati da vecchie, sguardi e silenzi, mi accarezzava sulla testa.
Pensai: boh, si dev’essere ammattita.
Poi ecco che arriva un vecchio che, evviva, almeno lui, si presentò con un bel sorriso stagliato in un gran faccione simpatico (ma biscotti niente).
Cominciarono a parlare. Di cosa parlassero io ci capii niente (anche perché ogni tanto loro parlavano il dialetto vercellese che mia zia capiva e io no).
Ricordo che mi annoiavo, che avevo fame (si avvicinava l’ora della merenda), che mia zia, ogni tanto, tornava lei: e a quel vecchio, parlava solo lui, dava delle risposte secche, nervose.
A un certo punto, vidi che si alzò di scatto, spazientita, si voltò verso di me, mi sorride, ma aveva gli occhi lucidi, mi tese la mano e mi disse Andiamo.
Tornammo a casa, anche il ritorno fu silenzioso. Poi a casa, mentre mia madre e mia zia parlottavano in cucina, io feci merenda con pane e olio d’oliva (fatto arrivare da Cortona). Probabilmente imprecando, ché preferivo la Nutella.
Dopo un po’ di tempo – ma non collegai – chiesi che fine aveva fatto il fidanzato di mia zia, era da un po’ che non lo vedevo, era da un po’ che non prendevo in giro mia zia dicendo Ho visto che vi siete baciati, ho visto che vi siete baciati (li avevo cuccati una volta, non si erano accorti di me).
Anni dopo mi spiegarono: avevo accompagnato mia zia dai parenti del suo fidanzato che, una settimana prima del matrimonio, ci dissero, ma forse in dialetto o forse io avevo troppa fame per starli ad ascoltare, questo matrimonio non si deve fare (più).
Aveva quarantadue anni mia zia, io sette.
Ci sta che una zia abbia quarantadue anni e un nipote sette: è pieno il mondo.
Ma non ci sta(va) che una donna si sposasse con un uomo più giovane di lei di quattordici anni.
Che lui fosse d’accordo era un particolare del tutto insignificante.
(Amia zia, buon’anina, dico, se dal purgatorio mi sente, che, ripensandoci, provo tenerezza per quel ricordo. Poi per lei iniziò un perido buio, ma io non potevo capirlo, vero zia?).
Segnalazioni
E’ uscita la raccolta di racconti di Fabrizio Centofanti, Guida pratica all’eternità.
La prefazione è mia. Sono orgoglioso di questo libro. L’ho letto in anteprima, ho detto a Fabrizio di lavorarci (perché scrivere è riscrivere). Mi ha dato ascolto e ne son contento.