Hai finito di scrivere un libro e magari lo hai già rivisto barra corretto una volta? Ora fermati, aspetta, fai altro e pensa ad altro. Riprendi a lavorarci poi, senza fretta.
Oppure. Quando si scrive si scrive per gli altri, punto.
Mi son venuti in mente due (tra mille) consigli che leggevo vent’anni fa, in rete (questo blog è nato il 23 marzo 2003).
Si sa che la gente dà buoni consigli, cantava DeAndrè.
Allora, sull’aspettare. Dipende. Sull’editing (e io ne faccio cento delle cose che scrivo, 99 orimo della pubblicazione) posso anche aspettare uno o due anni, ma sulla storia no: vado avanti fino alla fine. Nell’editing, poi, potrò ritoccare, aggiungere e tagliare ma la storia quella è.
Sul consiglio numero due: si scrive per gli altri.
Vero
Anche no. Ho in mente una storia e ho voglia di scriverla: ma per me stesso.
E ho in mente solo il primo (lungo) capitolo, poi non so che sviluppi potrà avere.
Ho iniziato ma le prime righe non mi sono piaciute, e così mi sono fermato.
Stanotte, però, va a sapere, non riuscivo a dormire. Le tre, poi le quattro. Niente. Pensavo alla storia. A cosa scrivere. Avrei dovuto alzarmi, scrivere. Sembra quasi che le parole di una storia a me vangano di notte. Qualche volta il mattino ricordo, in genere no, sono qualcosa di vago, troppo vago.
E comunque, la protagonista è Anna Antichi.
Di lei ho scritto ne La donna che parlava con i morti (Newton Compton poi Il Vento antico) e nel libro Vegan. Le città di Dio (titolo sbagliato, quel Vegan andava tolto).
Ho voglia di passare un po’ di tempo con lei, adesso.
Da La donna che parlava con i morti
Il Vento antico
Sono tristi le risaie d’inverno, ma resterò sempre qua, tra queste nebbie che avvolgono i miei ricordi. Sono in treno, ora. Ho le cuffie, così nessuno prova ad attaccar bottone e non sento il casino degli studenti. Sto ascoltando La ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez.
… resterai sempre un po’ anarchica, vero Anna?
Comunque. Finalmente faccio quello che volevo fare anche se, quello che faccio, non è bello come ti fanno credere certi libri o film.
C’è sempre troppa nebbia attorno alla nostra vita. Troppo dolore.
Ho appena risolto un caso e oggi è una giornataccia.
Uno schifo di caso: una giovane madre che, dopo aver scoperto ed essersi data al sesso estremo con il vicino di casa pervertito, ha deciso di gettarsi giù dal sesto piano, vorrei non pensarci ma devo vedere suo padre, il cliente che mi ha pagato insomma, ho appuntamento alle undici, merda. Devo dirgli la verità – per questo è una giornataccia – altrimenti quello continua a sospettare che sia il genero la causa della morte della figlia, e anche se il genero è un senzapalle che non sa da che parte è girato e che vive per andare allo stadio la domenica, è giusto che la bambina resti a lui.
Mi sto specializzando nelle morti misteriose e nella ricerca di persone scomparse.
La sveglia da anteguerra, ora, mi butta giù dal letto alle sette di mattina. Da due anni, vado in stazione, prendo un caffè e poi, aspettando il treno che, in un quarto d’ora, venti minuti, mi porterà a lavorare fumo la seconda sigaretta della giornata.
Risaie e ricordi, risaie e ricordi, risaie e ricordi, arrivo, frenata, si scende, caffè al bar dell’altra stazione, poi terza sigaretta e via a piedi e in fretta in ufficio.
Ho preferito diventare una pendolare che trasferirmi. Sono troppo attaccata alla mia città e alla casa che mi ha lasciato mio padre.
La titolare dell’agenzia, mi trovo bene con lei, ha cinquantadue anni ben portati, è specializzata, lei, in corna e spionaggi industriali, mi ha proposto di diventare sua socia; accetterò.
Mi lascia poco tempo libero questo lavoro. E un po’ mi ha cambiata. Sono meno sboccata, ad alcuni clienti dava fastidio; e quando sono distratta non devo gettare per terra i pacchetti di sigarette vuoti e poi cerco di vestirmi in modo decente. Mi arrangio al mercato, comunque, sono mica una figalessa da boutique, io.
A volte, quando mi sento sporca perché lavoro per clienti senza scrupoli, o mi intrometto nella vita degli altri, nei loro tradimenti e nelle loro debolezze, rimpiango il lavoro in libreria.
Oggi lo preferirei: perché quando dirò a quel vecchio chi era sua figlia, lo so, mi odierà, mi maledirà; poi mi pagherà; poi, quando me ne sarò andata, bestemmierà, immaginerà la sua bambina che si fa legare a un letto, nuda, che si fa frustare; e poi piangerà, si ricorderà di lei quand’era piccola mentre io passerò il resto della giornata a pensare che sarebbe stato meglio essere in libreria piuttosto che ferire, in modo così atroce, un uomo.
Spero mi creda, spero proprio non mi costringa a mostrargli le foto che mi son fatta dare dal vicino di casa pervertito (l’ho costretto, altrimenti lo denunciavo).
No, no, non devo rimpiangere il mio passato. Vado, racconto, incasso. Ma ricorderò sempre chi ero.
…. due anni fa, giorni che non potrai dimenticare mai, vero Anna?
Due anni prima…
Alla riapertura della libreria mancava un giorno. A settembre mancavano invece dieci minuti. Esatti. Guardando l’ora, Anna ipotizzò un brindisi di mezzanotte, come si usa a capodanno. Ci ripensò: era un’idea stupida.
… di una stupida, inutile commessa di libreria, pensasti. Ti sentivi così. Si è sempre quel che ci si sente.
Si alzò dalla vecchia sedia a dondolo…


