Un estratto (parte del primo capitolo) dal mio primo libro, Il bar delle voci rubate.
Per un certo periodo della mia vita, quando restavo da solo, su un quaderno avevo preso l’abitudine di collezionare le “ voci” che più mi colpivano. Ho iniziato per gioco, per un quaderno a quadretti, con la copertina nera e lucida, nuovo, senza nemmeno un rigo scritto, dimenticato da una ragazzina che non conoscevo e che non avrei più rivista Aveva marinato la scuola, era chiaro. Con lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso, aveva trascorso un’ora nel mio bar, col terrore che entrasse qualche viso noto, un parente, un professore.
In quel quaderno, inizialmente, avevo cominciato ad annotare le barzellette più divertenti che ascoltavo: le riscrivevo per non dimenticarle e, all’occorrenza, raccontarle. Ma questo non è mai avvenuto. Passai ad altro.
Volevo vedere se esistono risposte furbe alla domanda che quasi tutti fanno quando si vedono, anche a distanza di poche ore: «Come va?»
Così, nella terza pagina del mio quaderno, in alto e in maiuscolo, ho scritto il titolo: «Come va?»
Sotto, dovevano starci le risposte furbe. Quelle diverse.
Fu un tentativo inutile. Feci solo un’indigestione di “Bene grazie”, “Potrebbe andare meglio”, “Facciamola andare”, “Così così”, “Va!”, di “Non c’è male”, “Insomma”, di (tantissimi) “Finché c’è la salute”, di (qualche) “Va di merda.”
Era destino che in quella pagina, sotto quel titolo, dovesse restare solo dello spazio bianco. Del resto anch’io una risposta furba non l’ho ancora trovata. Faccio parte della categoria di chi dice “Insomma.” Insomma, fiato sprecato.
Mentì anche quell’ uomo, con un solito “Bene grazie” che mi diede lo spunto per scrivere altro. La sua fu la prima voce. Arrivò solo. Avrà avuto fra i quarantacinque e i cinquant’anni, non di più. Era distinto, eppure avevo la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di strano. Comunque aveva una faccia simpatica, da persona importante; importante ma cordiale. Oramai ci ho fatto il callo, io: i gasati li annuso subito. Quell’uomo poteva essere un bravo medico, di quelli che pensano a curarti e non alla parcella, o uno scienziato, un pianista, uno scrittore. Esclusi che si potesse trattare di un politico: è una razza, quella, che, difficilmente ha dell’umanità negli occhi. Ordinò una birra bionda, alla spina.
«Se vuole, gliela porto al tavolo.»
«La ringrazio, ma preferisco sgranchirmi le gambe, sono stato seduto per ore al volante.»
Poi, senza che io gli avessi domandato altro disse: «Sto attendendo una persona.»
Aveva l’aria di uno che non vede l’ora. E in effetti continuava a guardare il vecchio pendolo, vicino alla porta d’ingresso. Dopo un po’ si decise. Ordinò un’altra birra e si accomodò in fondo alla sala, lontano da me, quindi, e da Benito e Francesco, due pensionati che, in un tavolo vicino al banco, concentratissimi giocavano a dama. Era un afoso pomeriggio di luglio di quattro anni fa, e quell’ uomo era madido di sudore. Ricordo che ogni tanto si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco che aveva nella tasca interna della giacca color blu notte, appoggiata sulle spalle.
Arrivò la persona che aspettava. Era una signora piuttosto anziana, poteva avere una settantina d’anni portati molto bene, tutta ingioiellata e profumata. Vestiva un completino viola, il mio colore preferito. Appena la vide le andò incontro. Si abbracciarono e si baciarono con affetto.
«Allora Sandro, come va?» disse lei.
«Bene grazie.»
Si sedettero, sempre nello stesso tavolo.
La signora, dopo aver ordinato un bicchiere di acqua naturale, mi domandò se avevo qualcosa di solido – «e di gustoso» specificò – da mangiare. Proposi della crostata di mele fatta in casa.
«Anche se sono fuori orario, devo ancora pranzare. Che ne direbbe invece di un bel prosciuttino crudo magro, oppure meglio: ha della buona bresaola?»
«Ho una bresaola squisita.»
«Benissimo, mi faccia un bel panino e me la condisca con limone, olio di oliva e tanto pepe; mi raccomando il pepe, ho uno stomaco di ferro, sa?» disse con un bel sorriso. Quella signora elegante e disinvolta emanava vitalità. L’uomo invece pareva inebetito, stanco. Fissava il vuoto.
«Gradisce un’altra birra?»
«Come scusi? Ah sì, grazie, un’altra alla spina va benissimo.»
Quando tornai dalla cucina con birra e bresaola i due pensionati, che avevano terminato la loro partita a dama, si erano spostati nell’altra sala del bar, la più piccola, che è più ventilata perché dà sull’esterno dove c’è un piccolo spiazzo dove una volta mio nonno coltivava rose e pomodori. Col vassoio mi avvicinai al tavolo dei due clienti venuti da chissà dove; l’uomo, che stava parlando, mi dava le spalle. Non badò a me. Il tempo di avvicinarmi, di posare il vassoio sul tavolo e di allontanarmi mi fu sufficiente per ascoltare.
«Non mi ha sentito rientrare, non sapeva che io fossi in casa. Per puro caso, sento che dice: Tu almeno hai un padre che è qualcuno, il mio è una nullità. Anzi no, ha detto di peggio; ha detto: Tu hai un padre che è qualcuno, il mio non vale un cazzo. Ho pensato: starà imitando qualche comico, di sicuro non si sta riferendo a me. Però volevo esserne certo. Così, senza fare rumore lo raggiungo. Non stava imitando nessuno: steso nel letto, stava parlando al telefonino con un suo amico, credo. L’ho visto per un attimo, lui non si è accorto di me perché aveva il braccio che gli copriva gli occhi.»
Posai velocemente il vassoio sul tavolo, poi, a testa bassa, con la sensazione di avere addosso lo sguardo della signora, mi allontanai. Ma feci in tempo a sentire un’altra breve frase, sempre di lui: «Sono giorni che ci penso, ci penso e piango.»
Anch’io, come quell’uomo che non vidi mai più, avevo sentito per caso. Fu la prima “voce” che segnai nel quaderno dopo la pagina bianca dei “Come va?”
Ne capitano poche di “voci” così. Una, massimo due all’anno.

