Racconti a 4 mani/4

La lentezza dell’organismo sferico e biancastro

“Si però dai, la Kate è più fine della Pippa”. Le due ragazzine si riposano ai miei piedi; non hanno mai smesso di chiacchierare, nemmeno durante la salita lungo l’acciottolato che porta alla rocca, in cima a questo sperone roccioso.
Da più di duecento anni la brezza dondola e fa parlare i miei aghi resinosi; il fruscio aromatico accompagna quassù soldati, nobili e, ultimamente, turisti. Il frate botanico mi ha piantato proprio dopo l’ultimo tornante; così chi giunge in cima all’erta si appoggia al mio tronco per  riposare ed io offro generosamente la mia ombra coniforme. Sono il pino ingegnere.
Dal mio elevato punto di osservazione sviluppo i miei ragionamenti stocastici. Chi ha radici profonde (pari al doppio della propria altezza) è costretto a morire e soprattutto a vivere dov’è nato; ciò può sembrare una triste condanna, ammenoché tu sia un ingegnere. Un ingegnere ha sempre una tesi da sviluppare e -dunque- non s’annoia mai!
Da sempre, mentre ragiono, accumulo una sopra l’altra lunghe molecole di lignina che, intrecciate alla cellulosa, mi hanno reso il pino più alto del circondario.
Ora il mio angolo visuale è di 360°.
Attorno a me c’è l’isola, attorno all’isola c’è il lago e attorno al lago ci sono le montagne.
Il mio mondo è tutto qua: in alto il cielo, in basso il lago (che, avendo origini glaciali, ha forma  ellissoidale con i fuochi ravvicinati e per me, che amo la precisione, è di grande conforto geometrico). Le cime circostanti smorzano l’impeto dei venti e quindi il clima è mite anche se, essendo il bacino alimentato da sorgenti sotterranee provenienti dalle montagne, la temperatura dell’acqua non supera mai i 298,15 gradi Kelvin (che sono poi 25 gradi centigradi). Le sue acque scure (tipica tonalità dei laghi di mezza montagna) vedono il contrario di quel che vedo io, secondo il noto principio della specularità. Insomma, è un bel posto per un pino ingegnere.
Mi chiedevo, giorni fa, quale fosse la cosa più lenta che lo percorre in superficie. Ho escluso dalla ricerca ciò che vi sfreccia sopra o sotto (p.es. gli uccelli o i pesci) per ridurre il campo di indagine ad elementi certi e misurabili. Per la verità ero partito dall’analisi della campana. Mi spiego meglio. A 35 m dal mio tronco sorge la settecentesca cappelletta. Accanto ad essa svetta un campanile a base pentagonale con una campana incardinata insieme al suo contrappeso e il tutto -ovviamente- costituisce una massa risonante smorzata; per soli due euro i visitatori possono impegnarsi a tirare energicamente la corda ma il ritmo del rintocco, per quanti sforzi impieghino, risulta sempre assai rallentato. Suona oggi, suona domani, un ingegnere certe domande se le fa.
Dunque ho cominciato a cercare la risposta al quesito [qual è la cosa più lenta che percorre il lago, (n.d.p.i., ovvero nota di pino ingegnere)]. Anzitutto ho scartato i mezzi più veloci (va precisato, caro lettore, che qua non è consentita la navigazione a motore). Essendo un bacino privo di correnti superficiali, in assenza di venti superiori ai 2 nodi, è stato eletto a sede mondiale dei campionati di canottaggio. Non vi dico come sfreccia l’otto con. Niente da fare. Allora ho analizzato le piccole, leggere imbarcazioni lignee da noleggio, ma il vogatore improvvisato generalmente si sbraccia per far colpo sulla sua bella: niente da fare, troppa fretta, troppa gioventù. Quindi ho preso in esame le grandi, piatte barche a propulsione umana (leggasi rematore) che portano qua i turisti. Ne controllo la traiettoria, calcolo il tempo di avvicinamento, valuto in base al grado di inclinazione se il peso è distribuito in modo uniforme. Potrei dire che sono queste placide imbarcazioni la cosa più lenta, a buon motivo. Ma ieri pomeriggio ho verificato che il barcaiolo anziano impiega 2T (tempo doppio) rispetto agli altri. Quindi ho stabilito con ragionevole certezza che la cosa più lenta del lago è lui, con buona pace dei malcapitati turisti che lo eleggono a Caronte lacustre.
Però oggi, con mia grande meraviglia, qualcosa si muove ancor più lentamente: pare un organismo sferico e biancastro. Ricorda le meduse degli abissi e si dirige in direzione s/o a 2 m dalla riva. Si sposta impercettibilmente, direi di 11,5 cm/min. Ha un diametro di circa 60 cm. Si intravede sotto il suo dorso vitreo una cavità studiata da madre natura per raccogliere la giusta quantità di aria che compensi, con una spinta dal basso verso l’alto, il suo peso (Archimede confermerebbe compiaciuto). Ecco: è questo magnifico sferoide opalescente (e indefinito) la cosa più lenta del lago. Parola di pino ingegnere.

Questo è il lago del niente. Niente discoteche decenti, niente pub con musica passabile, niente centri commerciali, niente vita notturna. Zero. Ci sono solo stupide barche a remi che ti portano sull’isola dove stupidi turisti suonano una stupida campana. Non c’è nemmeno la spiaggia per prendere il sole, l’acqua non è calda e se vieni qua, a parte romperti i coglioni, fare il giro a piedi e guardare le anatre non hai altro da fare. La gente? Vecchi, bambini, famiglie: minchia che palle. E le ragazze sono delle emerite stronze che se la tirano e ti ridono in faccia.
Questa è veramente la peggiore vacanza della mia vita.
Ieri notte, tanto per far qualcosa, io e quello sfigato di Ciro abbiamo smontato la boccia a un lampione del lungolago. Si svita, è di plastica. Ci abbiamo giocato a pallone per un po’ e poi a un certo punto dal balcone dell’albergo un tizio si è affacciato e ci ha cazziato. Dice guardate che ho chiamato i vigili, delinquenti disgraziati. Allora l’ho buttata in acqua con un calcio; dopo ce ne siamo andati. Oh, non è mica andata a fondo. Galleggia.

Racconti a 4 mani/3

La vedova d’Alfonso

C’era una volta una vecchia barbuta che rientrò zoppicando, di notte, nel suo sottoscala, pieno di buste di plastica, stracci e cacche nere di zoccole sfrontate.
La barba era un vero lusso: le teneva calda la gola tutta arroventata dal fumo risucchiato, a mo’ di brace, dalle cicche raccolte in mezzo alla strada. Le cicche le metteva tutte nella scodella viola che già fu di sua sorella Teresina che diceva portava fortuna, per via del colore strano. Quando stava piena di cicche, la scodella, la vecchia co’ le cartine si faceva ‘na serie di sicarette e le metteva tutte in fila in piedi sul ripiano della moka, di fianco, che facevano un bel vedere, sembravano poveri bianchi soldatini.
Sotto ‘sto ripiano, c’aveva la bombola e però gli altri tenevano paura che per distrazione e cattiveria poi la facesse scoppiare e allora saltava in aria la casa con quelli de supra cioè la famiglia maledetta Amitrano quelli che battevano a terra co’ la scopa quando la vecchia ‘na volta l’anno cantava, magari male, ché Vincenzo Misericordioso c’aveva donato un boccione di vino finalmente buono.
Una volta all’anno!

Comunque, scacciati via i molesti pensieri, si preparò una zuppetta di pane e vino cattivo, e accese il transistor:
Vola colomba bianca vola, diglielo tu che non verrà.
Mentre inzuppava e ripensava a quando s’era rotta il femore due anni prima, i sei gatti (Mimì, Lelè, Ciccillo, Caterina, Pupetta e Rossella O’Hara) mezzo ciecati e spelati da una tigna incurabile perché mai curata, le si strusciavano contro le calzette di lana, quelle a mezza coscia, che le fermavano il sangue, facendo diga contro le vene varicose.
Tié micio, tié micia, la nonna vi dà la zuppetta. Slurp, lap, slarp, brup.
Dicono che solo gatti sozzi e scostumati potevano stare co’ la vecchia dalla barba: così sparlavano gli Amitrano.
Sua sorella Teresina invece era buona davvero e si sarebbero fatte tanta compagnia, ma la picòndria l’aveva portata via per cui a un certo punto della sera, alla vecchia ci venne ‘na terribile melanconia. Lanciò lo sguardo sul quadretto di Santa Teresina del Bambin Gesù e fece n’orazione proprio dal cuore. E dopo st’orazione crollò in un sonno di piombo sotto una coperta ecru di cartone pressato e pidocchi.

In sogno le apparve suo marito Alfonso, morto in Russia, tutto congelato.
Un commilitone che s’era messo in salvo e poi era rimpatriato, le aveva riferito: la giacca di panno si fece di cristallo come i lampadari e gli scarponi di cartone somigliavano a due trote imbalsamate nell’atto di risalire il torrente.
Questa cosa delle trote le era rimasta impressa, alla vecchia, perché le trote erano buone. Ma imbalsamate, però le facevano schifo. Meglio appunto congelate che gli Amitrano le comperavano pure al supermercato e le facevano vedere a lei per attizzare invidia.
Lei se l’era magnate una volta, più o meno 68 anni prima, a una festa di matrimonio. Alfonso all’epoca pareva uno stoccafisso imbrillantinato di buona volontà. Ma se l’era portato via il Nonno Gelo aveva detto il maestro Scaccheri. E il fatto del Nonno Gelo era una vergogna a dirlo a una povera vedova di Russia.

Però adesso nel sogno Alfonso somigliava a Socrate.
La vecchia non sapeva niente di Socrate. Lo ignorava. E dunque non sapeva di non sapere. E invece Socrate stava dentro il sogno suo, tutto impettito, magari per far bella figura, con una vestina che gli arrivava alle ginocchia.
“Donna”, disse, con voce tonante, “tu non sai di non sapere”.
La vecchia lo guardò e ripensò alle trote che però non c’erano, manco imbalsamate.
Alfò, che te possino ammazzà” bofonchiò la vecchia, “ma come cazzo te sei vestito?
Al che Alfonso le fece la faccia brutta con quel suo labbro di sotto arrivoltato in su e nell’atto della smorfia si voltò e mostrò il didietro. Già davanti con la veste accorciata pareva un poco di buono, ma l’obbrobrio era che di dietro era nudo, e faceva scandalo a guardarlo. E con la voce incazzata, che non era cosa sua abituale, ‘st’anima in pena d’Alfonso sillabò:
Hai visto che non sai? Perché le cose c’hanno un davanti e un didietro. E tu stai sempre a vede’ solo ‘l davanti…”
La vecchia quasi senza fiato e strizzandosi il petto gli fece: “Ma chenneso io! Alfò! Non hai mandato più notizie per tant’anni e ora vieni qui a mostrarmi il culo! E cosa devo sapere?”
Lentamente l’anima purgante si voltò e stentoreo, come Mosè che parla al popolo idolatra, proclamò ‘na poesia:

                 Noi anime disossate, defunte in Russia siam vaganti,
                 e c’abbiamo il compito di soccorrere i viandanti,
                 siccome fummo uniti dal santo matrimonio,
                 mò ti farò dono di un picciol patrimonio,
                 vai dunque alla caffettiera vecchia napolitana
                 e ci troverai ‘na minuta chiave, sana sana,
                 mò la pigli e c’apri la porticina
                 che conduce giù in cantina,
                 nell’otre magica troverai denari sonanti
                 che ti faran ben campar d’ora in avanti”

Detto questo ‘sto cristo vagante d’Alfonso scomparve in una nuvoletta giallo pallido, lui e la sua vesta vergognosa, lasciando uno strano odore di lavanda Col di Nava quella che gli piaceva tanto quand’era vivo e vegeto.

Ci venne un sussulto terribile alla vecchia, si prese la gola mezza strozzata dalla paura, e si disse: “Mò schiatto per l’affanno, l’infarto, la sincope altro che le trote imbalsamate… ché so’ io imbalsamata in vita!”
A fatica riuscì a ficcarsi in piedi sospirando tanto che pareva rendesse l’anima non si sa a chi. Poi appoggiandosi dove e come poteva si alzò e urlò:”
Ma guarda ‘sto figlio di ‘n trocchia, in vita pareva ‘n’omo quasi normale e mò viene co’ ‘sta vesta orrenda da frocio a dirmi del tesoro in cantina che quando mai ce l’avemo avuta, na cantina! Ma è proprio vero che non sapevo! Altro che ‘n’anima purgante è questo..! Che mi so’ svenata a farci dire cento messe: è un anima de dimonio a prendere per il culo la povera vedova sua scarmigliata!
E poi si abbatté sulla branda e pianse come non aveva pianto mai, ma tanto tanto. Nemmeno quando arrivò la cartolina ‘n dove si diceva che Alfò stava disperso si sbatté il petto così. Che tristezza! E che rabbia!

Dicono che da un po’ di tempo la vecchia va al monumento ai caduti con un involto in mano.
Dicono i pisciasotto che lei nel pacchettino c’ha della merda di gatto e la lascia ogni giorno proprio sotto ‘n dove ci sta scritto:
Alfonso Di Diase, disperso in Russia.

Racconti a 4 mani/2

Pantaloni bianchi

Mi stanno alla perfezione, si vede che sono di uno stilista. È la prima volta che mi permetto una spesa simile; sono una calamita per gli uomini, tanto bianchi da abbagliarli. Inserisco l’allarme dell’automobile, mi volto, vedo un uomo all’ingresso del bar che mi sorride. Ripiega il giornale, lo infila sotto il braccio e si allontana; per un po’ continua a guardarmi, ammirato.
Aldo, invece, non si è neppure accorto del mio nuovo acquisto.
Cammina davanti a me, saltella sulla stampella; pochi passi e siamo arrivati. Ci sediamo a un tavolino; Aldo prende un analcolico, io un caffè. Alziamo lo sguardo e vediamo arrivare l’uomo, di corsa. Indossa un abito stropicciato e ha il viso sudato.
Si avvicina e ci porge la mano, ma Aldo non si muove e gli dice: “Non perdiamo tempo. Parliamo d’affari”.
Lui deglutisce, dice: “Certo” e si passa un fazzoletto sulla fronte. Se ne sta lì in piedi, sposta lo sguardo da Aldo a me e viceversa.
“Si sieda, no? Vuole attirare l’attenzione?”. Aldo gli fa un gesto brusco.
Lui si lascia andare sulla sedia di plastica bianca e rimane in attesa.
“Allora ragioniere? Spero ci porti buone notizie” dice Aldo.
Lui non apre bocca, infila la mano in tasca, estrae un foglio piegato in quattro. Aldo lo prende e gli getta un’occhiata. “Diecimila?” e gli rende il foglio. Quando non sa cosa fare abbassa il capo e si sfrega il mento: come ora. Decido di intervenire:
“Per tacere, diecimila sono pochi. Vogliamo parlare della gamba di Aldo? Non lavorerà per almeno due mesi ed è senza contributi. Se venisse un’ispezione, e scoprissero altri lavoratori in nero, scatterebbe la chiusura del cantiere. Non ve lo potete permettere, coi ritardi che avete. Ne vogliamo almeno il doppio” affermo.
Aldo alza la testa, annuisce e lo fissa. Apre la bocca e dice: “Ventimila. Di meno non accetto”.
Il ragioniere sospira, prende il foglio, scrive la nuova cifra e lo porge a Aldo. Lui lo prende con religiosità, quasi fosse una cambiale. L’ometto si alza e fa per andarsene. Lo tiro per la manica: “Quando?”
“Domani sera alle nove nel parcheggio dell’Ipercoop. Vicino all’uscita sul fiume”. Si è chinato e l’odore del suo dopobarba mi fa rivoltare lo stomaco. In un attimo è già sparito.
“Bene”, dice Aldo; le sue labbra si piegano in un sorriso che non gli arriva agli occhi. Ripenso a com’era all’inizio, a come mi sorrideva prima che tutto questo accadesse. Intanto, si rigira il foglio tra le mani, non gli stacca gli occhi di dosso. Ripete: “Ventimila. Una bella somma per una settimana di lavoro”.
Accavallo le gambe e dondolo il piede destro; mi aspetto che noti i pantaloni bianchi ma lui vede solo il foglio con la cifra.
La sua voce mi strappa dai pensieri, sollevo il viso e lo guardo.
“Che hai?” chiede. “Sei strana. Con quei soldi ci faremo una vacanza, quando avrò tolto il gesso. Grazie alla mia intraprendenza”. Penso che la sua intraprendenza gli avrebbe fatto accettare i diecimila euro, ma non dico niente: si altera facilmente in questi giorni.

È l’ora. Aldo freme vicino alla porta. Prendo la borsa rossa, è grande e ci sta un sacco di roba.
Una punta di rimorso mi chiude lo stomaco ma mi passa subito.
“Ti muovi?” Aldo mi guarda impaziente, vuole mettere le mani su quei soldi, dice di avere un mucchio di progetti per noi due. Ventimila euro: ne parla come fossero la strada per il paradiso.
In macchina Aldo cambia canale in continuazione, sentiamo brani di Vasco e di band degli anni ‘70. Sento che dice: “La felicità è un diritto”; spengo il motore, siamo a destinazione.
Il parcheggio è semivuoto: l’iper sta chiudendo e la gente si affretta alle macchine senza far caso a noi. Lui indossa l’abito del giorno prima, sempre più spiegazzato. Ci osserva arrivare, si guarda intorno e fa cenno di sbrigarci. Ci spostiamo tra due autovetture. Il ragioniere mi mostra la valigetta e io gli mostro la carta che Aldo ha firmato. Quella in cui dichiara di essere caduto in casa nostra, come ha detto al Pronto Soccorso quando l’ho dovuto accompagnare. Hanno creduto alla versione dei lavori di ristrutturazione e della scala scivolata sul terrazzo.
L’ometto tace, legge tutta la dichiarazione di Aldo alla luce dei lampioni, infine annuisce, piega il foglio e se lo infila in tasca.
Guarda perplesso i miei pantaloni bianchi, forse li avrebbe preferiti scuri. Scrolla le spalle, solleva la valigetta, fa scattare l’apertura e ci mostra il contenuto. Sfoglio qualche mazzetta mentre Aldo sorride.
Dopo mezz’ora siamo a casa. Aldo si siede in cucina, apre la valigetta e resta immobile. Accarezza le banconote; mi avvicino, lo abbraccio da dietro. “Saremo felici?” chiedo, gli giro attorno e siedo sulle sue ginocchia, mi passo una mano sui pantaloni. “Sì sì”, mormora, e aggiunge: “Ne possiamo fare di cose”.
“Non sono tanti. Qualcosa bisogna risparmiare”.
“Che problema c’è?”. Si stringe nella spalle: “Tu continui con le ripetizioni. Poi mi cercherò qualcosa. Devo guarire bene, ci vorrà tempo”. Gli accarezzo il viso, e sento come se qualcosa sotto le dita si sbriciolasse. È ancora Aldo quello che appare, eppure non è più lui. È un uomo con cui i miei ricordi faticano a restare in contatto.
Mi alzo, dico:
“Datti un rinfrescata, che sei sudato. Dopo mi farò una doccia”. Strabuzza gli occhi, mi fissa senza vedermi: “Buona idea”. Chiude la valigetta, si alza in piedi, incerto per qualche secondo. Poi la solleva, se la infila sotto il braccio. Impallidisco, dico: “Ma che fai?”. Si blocca, ruota appena il capo, sorride imbarazzato:
“È vero. Ci sei tu qui”. La posa sul tavolo e l’ultimo sguardo è per lei.
Si ritira in bagno; gli ci vorrà un bel po’ con quel gesso. Resto immobile finché non sento scorrere l’acqua.
Tutto si svolge senza esitazioni, o ripensamenti. Il parcheggio dei taxi è a un paio di minuti, l’aeroporto a trenta chilometri. Prendo la valigetta e la borsa rossa in cui metto qualche vestito. Scrivo un biglietto: “La felicità indossa pantaloni bianchi ma tu cosa guardi?”.
Mentre chiudo la porta mi sento leggera.

Racconti a 4 mani/1

La corsa e l’attesa

Il telepass ha fatto alzare la sbarra, sono in autostrada.
Sterzando al silenzio per evitare i pensieri che da giorni non mi lasciano dormire, pigio il tasto on del lettore CD dell’autoradio alzando il volume quanto basta.
Un dischetto audio in policarbonato incastrato lì da anni diffonde musica e parole che conosco quasi a memoria, Bruce Springsteen mi accompagnerà fino all’uscita del casello di Bergamo. The boss canta di uomini “on the road”, vagabondi perduti per le strade, come prima di lui il giovane Dylan e prima ancora Woody Guthrie.
“Born to run” nato per correre, non è il mio caso, ho sempre odiato guidare ma devo fare in fretta, non voglio farti stare in pena in quel letto bianco d’ospedale. Terrò il mio piede destro incollato all’acceleratore fino al limite della velocità consentita, non ci sono segnali di stop qui, nessuno riuscirà a farmi rallentare.

               Sembra così bizzarro questo tempo
               d’attesa in una stanza
               io che stavo al volante
               mentre lui raccontava le sue storie
               insieme ad ascoltare bella musica.
               Lo immagino alla guida
               distratto tra le nuvole e il paesaggio
               e prego Dio che lo conduca attento
               che me lo lasci accanto.

Sono tutto solo, solo con me stesso, come ogni vagabondo, su questo serpente d’asfalto, non posso tornare indietro.
Seduto al volante stringo la fiducia fra i denti per cercare di imparare a camminare come gli eroi che pensavo sarei potuto diventare, dopo tutto questo tempo in cui ho scoperto di essere proprio come tutti gli altri.
Uno stormo di gabbiani reali incrociando la mia corsa, sorvola il ponte sul fiume seguendo la traccia grigioverde dell’acqua inquinata di veleni e scarichi urbani.
Un’altra triste realtà della moderna quotidianità, queste creature del mare hanno scoperto l’inesauribile risorsa alimentare rappresentata dall’immondizia prodotta dall’uomo. Pendolari del cielo, ogni giorno percorrono la stessa rotta dal lago alla discarica e ritorno.
Se avessi le loro ali…
Il motore dell’anima corre su questa strada per un bacio senza fine, fino alla stanza d’isolamento, dove tu prigioniera aspetti me, il tuo barbiere.
Mi sembra di sentire piangere l’intera città, incolpando la verità che ci ha buttati a terra.
Leucemia.
Raserò il tuo cranio prima della cura, sezionerò il tuo dolore.
Come un angelo sfinito abbandonerai la testa sulla mia spalla, mentre sono io che ho estremo bisogno di te.
Mi aggrappo alla tua vita, sono innamorato con tutta la magia che comporta.

               Arriverà con il suo amore intenso
               principe della nostra consuetudine
               azzurro che colora la speranza
               e la tragedia vincerà per due.
               Non sarà certamente uno qualunque
               l’eroe che la sua donna vedrà bella
               anche quando sarà senza capelli.
               Io mi abbandonerò sulla sua spalla
               alla sua forza che sorregge entrambi.

L’autostrada prende fuoco, esplode di eroi a pezzi alla guida della loro ultima possibilità. Una trappola per topi invasori in un circuito pieno da scoppiare.
Ognuno è lì che corre fuori dal mio finestrino.
Evasi dalle loro tane di provincia, lanciati verso Milano, una trappola mortale, un invito al suicidio. Cerchioni cromati, motori a iniezione, diesel di muratori viaggiano a cavallo della linea di mezzeria.
Ogni muscolo del mio corpo è in tensione, questa corsa mi strappa i tendini.

               Starà correndo sull’asfalto ardente
               per essermi vicino a consolare
               quando intorno al mio viso
               non ricadranno più le chiome bionde.
               Ma lui che sa ogni cosa
               della mia vita, d’ogni spina e rosa,
               conosce le parole necessarie
               i gesti nati dalla tenerezza
               e pure nel dolore mi sa amare.

Correrò ogni giorno fino a che non cadrò, non tornerò senza di te, camminerò con te sul filo del rasoio perché sono un viaggiatore solitario e impaurito ma devo sapere cosa si prova.
Il sorriso è una ferita di un pallido rosa sulle tue labbra, la chemioterapia sta uccidendo il tuo sangue malato.
Vorrei morire con te stamattina, ma devo trovare il modo di arrivare presto all’interno del reparto di ematologia e andrà tutto bene, andrà tutto bene.
Mi stai aspettando, lacrime versate sulla città.

               L’attesa è un orologio che va piano
               ma lui chissà quanto si sente solo
               vorrei che fosse già passato tutto
               che mano nella mano
               percorressimo ancora tanta vita
               che finisse al più presto questa prova
               che ci tiene lontani
               a volte disperati, a volte soli
               ma guarirò, per abbracciarlo ancora.

Una fila ininterrotta di forze motrici con le ruote enormi occupa la prima corsia.
Non riesco a trovare spazio per muovermi velocemente, farebbero tutti meglio a scansarsi, perché sto correndo sulla corsia di emergenza.
Con la fede nella mia piccola utilitaria sto gridando il tuo nome nel freddo solitario mattino di marzo, sento il motore che romba.
Beh, io non sono proprio un eroe, tutto quello che posso fare è tirare il collo a questi sporchi cavalli, con la speranza di arrivare in qualche modo senza fare danni.
Mi manca l’aria, abbasso il finestrino.

               Sta correndo, lo so, starà sperando
               che nessuno gli ostacoli il sorpasso.
               Forse vorrebbe avere tra le mani
               la cloche d’una Ferrari
               o meglio ancora due potenti ali.
               Ma giungerà per tempo
               con lacrime nascoste nel sorriso.
               Gli dirò ch’è l’eroe della mia storia
               il dono più prezioso della vita.

Ti guardo nel portafoto di metallo. Sei così bella che mi perdo tra le ultime luci della notte.
Fuori la strada è in fiamme in un vero valzer di morte.
Freccia a destra, la sbarra mi apre le porte della città. Respiro veleno, rialzo il vetro.
Fermo la musica, non sono nato per correre.

riconteggiando…

… e controllando, e tenendo conto solo di chi ha espresso sei preferenze ecco, la classifica definitiva (spero)

1. Naturalmente (60)
2. Haynt (55)
3. L’uomo che vendeva sogni (53)
4. La neve che non c’era (51)
5. Stella madre (39)
6. Maria (28)

E poi:
7. Quattromani (23)
8. e 9. parimerito Scintille e Fuori dal villaggio (22)
10. Tutte cazzate (19)
11. Efedrina (18)
12. Evoluzione (15)

la votazione

Allora, i partecipanti (non tutti, ché è tempo di ferie, altri, poi, non si son pronunciati) di
Raccontiaquattromani
han deliberato che i sei racconti da impaginare di modo che l’E-book sia presentabile sono
1. La neve che non c’era (63 punti)
2. Naturalmente (60)
3. Haynt (55)
4. L’umo che vendeva sogni (53)
5. Stellamadre (44)
6. Maria (32).
Poi.
7. Quattromani (23 punti); 8. e 9. parimerito, Scintille e Furi dal villaggio (22); 10. Tutte cazzate (19); 11. Efedrina (18); 12. Evoluzione (15).

Infine.
In questa pagina
Raccontiaquattromani
troverete nomi e cognomi oppure nick di persone a me note e procedura usata.
(Il racconto La rotonde ha slo il nome degli autori; verrà completato al più presto).
Grazie
E se ho sbagliato avvisatemi.

Manca solo l’E-book credo.

Raccontiaquattromani: si vota

Allora si vota.
– Per due giorni, il 16 e il 17.
– Vota chi ha partecipato (più chi ha organizzato: io, Monia e T.) o chi ha aderito e poi non ha potuto partecipare.
– Vanno bene alcune deleghe che mi sono state comunicate via mail (Elena-Aitan; Rael-Damiel).
– Possono esprimersi anche gli altri, così poi, eventualmente, raffronteremo due classifiche (ma gli “altri” che voteranno dovranno avere o un nome e cognome o un nick a me noto). (Sul perché faccio votare solo chi ha partecipato è bene che io ridica un’altra volta: mi piace pensare a un lavoro di gruppo, con il gruppo che alla fine decide la migliore impaginazione dell’E-book).
– Chi vota.vota per tutti e sei escluso il proprio.
– Si fa così: 6 punti al primo, 5 al secondo, 4 al terzo 3 al quarto, 2 al quinto, 1 al sesto.
– I 24 capitoli poi vedranno questa impaginazione:
il primo racconto aprirà la raccolta;
il secondo la chiuderà;
il terzo sarà il secondo racconto impaginato.
il quarto sarà il penultimo;
il quinto sarà il nono e il sesto sarà il sedicesimo (così a puntellare…). (Gli altri li metto io, come capita).
– si vota solo e soltanto in questo post.

Finita la votazione pubblicherò due pagine
Raccontiaquattromani prima parte
Raccontiaquattromani seconda parte
in cui, oltre al racconto, ci saranno i nomi e i cognomi oppure i nick (ma trattasi di persone a me note) dei partecipanti, con le loro (eventuali) note biografiche.
e ci sarà – tanto qui quanto nell’E-book – un’appendice alla fine di ogni racconto (me ne manca ancora una) sulla procedura utilizzata.

Buone cose a tutti
(è sottinteso: chi non vuol votare non vota…)

Prima del voto

Mancano meno di 24 ore alla fine di raccontiaquattromani:
Possono ancora arrivare due, un o zero racconti.
Titolo, incipit e battute di quelli che han partecipato sono qua.

1. RUGIADA
Alla visione delle sue gambe lunghe e affusolate, distese ed allargate sull’erba umida di rugiada, cominciai a perdere l’equilibrio. E dovetti stringerle il ventre e le cosce per riprendere coscienza di me.
(4840 battute)

2. L’UOMO CHE VENDEVA SOGNI
”Quanto costa un sogno d’amore?” chiese Blankman.
”Dipende” rispose Necromandus.
”Da cosa?”
”Da quanto tempo è che non sogni più e da come vorresti che fosse il tuo sogno d’amore.”
(4461 battute)

3. LO SGUARDO INDIFFERENTE
Se con l’obiettivo si potessero catturare pezzi di anima, e non solo immagini, penso che sarei la regina di un immenso regno di spiriti.
Sarebbe un regno promiscuo, il mio. Anime buone e anime dannate danzerebbero insieme in una sarabanda di luci e ombre. Detterei tempi e ritmi.
E, invece, catturo solo immagini.
(4741 battute)

4. AMORETORICO SESSOLINGO
Una strada buia affollata solo di pensieri e qualche passante distratto.
Mi guardavo intorno. Stavo riscoprendo l’eccitazione di un gioco dismesso troppo presto. Più passa il tempo, più si diventa grandi, più ci si cala in una sciocca maturità che indurisce. Un involucro protettivo che fatalmente, prima o poi, si rompe.
(6828 battute, 1300 battute in più)

5. TUTTE CAZZATE
Il sole era basso, dietro il bosco.
Per questo non aveva visto subito l’auto parcheggiata in fondo al cortile.
Non aspettava visite a quell’ora. Non ne aspettava quasi mai: la posta gli arrivava ancora in città e chi altro poteva capitare lì, se non sbagliando strada in cerca di un’altra casa?
(5744 battute)

6. LA NEVE CHE NON C’ERA
Fu quando il Francin spalancò le gelosie sull’alba che vide cadere il primo fiocco. Rimase a naso all’aria, in uno stupore immobile, seguendo con gli occhi, ancora inciuccati di sonno, quel lento volteggiare.
(6627 battute, 1200 in più)

7. VENT’ANNI
Scrivo questa lettera mentre osservo il sole tramontare dietro quelle colline che da giovani hanno accompagnato i nostri passi. Quei passi verso sogni di cartone. Te li ricordi? Te li ricordi, anche se sono trascorsi vent’anni?
(4918 battute)

8. PUGNI DI SABBIA
Speravo che entrasse dentro di me nella sciocca illusione di farne un duplicato, pur se temperato nella turpe arroganza e malcelata timidezza. Ma lui mi fuggì via come sabbia tra le dita, e quando si alzò il vento era già sparso tra le onde in mille frammenti cristallini che brillavano nell’acqua.
(4531 battute)

9. ASIMMETRIE
Si aspettavano alle dieci fuori il suo portone, al bar di fronte, non c’era gente. Era il vuoto dentro loro e il vuoto fuori per la strada gremita del silenzio dei lampioni, che sembravano scimmiottare, ridere zitti zitti sotto i baffi.
(4890 battute)

10. CON GLI OCCHI SPALANCATI
Sillabavo quelle parole. Sillabavo “malattia” e “morte”. Ma-lat-tia, mor-te, e poi di nuovo e di nuovo: ma-lat-tia, mor-te. Contavo le lettere, le volevo imparare a memoria, sentire il loro suono, capirle finalmente quelle stronze di parole.
(5629 battute)

11. STELLAMADRE
Ho scelto questo angolo di cielo per nascere. Una volta strappata la volta celeste – così veniamo al mondo noi stelle – la vista era magnifica.
(2850 battute)

12. SCINTILLE
Andy si frugò nelle tasche. Niente spicci e comunque non sarebbero bastati neanche per lo zucchero filato. Svuotato, dentro e fuori. Pazienza, niente sorpresa per la cucciola.
Tornò a casa a testa bassa, fissando l’asfalto scomposto e tremolante per il caldo.
(3749 battute)

13. HAYNT
Oggi funziona a scatti. Perché il tempo non è un continuum come sembra, magra illusione dei sensi. Lei opera al presente, accumula eventi, simula il contemporaneo. Forma cubica, materiali diversi, caratteristica: l’adesso.
(1935 battute)

14. EFEDRINA
Si alzò a sedere di scatto: le era parso di sentire dei rumori. Tremante, rimase immobile in ascolto, ancora confusa dal sonno interrotto bruscamente. Adesso, però, le giungeva solo il battito amplificato del suo cuore.
(6528 battute, 1000 in più)

15. IL CANTO DEL GALLO
Persino le orme sulla spiaggia facevano pensare a un carattere piuttosto prepotente. S’infilavano nella sabbia quasi mordendola, a volte le piante dei piedi sollevavano grumi di sabbia che si attaccavano alle caviglie degli astanti o alle facce ignare dei bambini impegnati nell’eterno compito di svuotare il mare con un secchiello, o nell’impresa, altrettanto effimera, di costruire castelli.
(6024 battute, 500 in più)

16. ODIO L’ESTATE
Sono estremamente sorpresa. Davvero. Cinque minuti. Sono bastati cinque minuti.
Hai presente quei giochi a quiz, dove devi compiere in poco tempo tutta una serie di cose strambe… una manciata di minuti sembra così breve per fare tutto quello che ti dicono di fare…
(3265 battute)

17. FUORI DAL VILLAGGIO
La spiaggia. Solo loro, sedute sulla sabbia tiepida a guardare il sole che se ne va a dormire, il mare che si inquieta, pieno di riflessi tristi e dorati.
(2196 battute)

18. NATURALMENTE
“E’ la vecchiaia.”
E il dottore nuovo, giovane, lanciò uno sguardo saputo alla Benedetta, l’infermiera del turno di giorno. Quella scosse la testa, che sembrava dicesse: eh, che brutta malattia che ha preso questa, la vecchiaia, guarda te.
(5555 battute)

19. MILANO CENTRALE
“Caffè e cornetto”.
Voce metallica. Sguardo appena sollevato, occhi nascosti da un grosso paio di occhiali da sole. Come tutte le mattine è seduto al tavolino del bar, lo stesso tavolo.
Con aria svogliata, è sui trent’anni, recupera il primo quotidiano che trova sul tavolo vicino.
(5547 battute)

20. EVOLUZIONE
Resta poco di me al termine di una giornata di lavoro.
Trovare parcheggio è un’insperata botta di culo. Un po’ stretto vabbè, ma è proprio sotto casa, di fronte al portone. Due manovre, una toccatina alla berlina parcheggiata dietro, poi raccatto la valigetta dal sedile e scendo. Sono le sette di sera, il sole è basso e se Dio vuole i 42 gradi di oggi a pranzo sono solo un brutto ricordo.
(5560 battute)

21. QUATTROMANI
Sono andati, passati, i tempi in cui si viveva. Adesso è solo una lunga attesa. Attesa poi di cosa non ci è dato sapere. Se finora non ha gettato tutto è perché ogni tanto le piaceva venire a piangere sui ricordi. Ora non fa altro. Che piangere. La sento. Di là. Le sue mani, quelle mani bianche, lunghe e ossute, così eleganti, così curate, sensuali, non profumano più di limone. Sanno di fumo stantio e disperazione.
(5500 battute)

22. LA ROTONDE
Una pennellata dopo l’altra.
Gli occhi giallo febbre. Intenti. Come se avesse davanti un piatto di brodo e dovesse difenderlo da una torma d’affamati.
Scosta dalla fronte aggrottata un ciuffo di capelli con gesto delicato e automatico. E noncurante. Quel gesto lo sporca di colore ma continua il suo lavoro.
(4772 battute)

23. MARIA
Al pranzo di Natale mia madre invitò tutti i parenti.
Rifiutò solo la vecchia zia di mio nonno: chiusa in una casa di cura, centoquattro anni, ricordata solo se si parlava di eredità. E parlare d’eredità, be’, era la caratteristica dei miei parenti.
(5493 battute)

24. IL SONNO DELLA RAGIONE
“Adesso ti metto a dormire, Sara, ma considerato il fatto che il lettino della Barbie è troppo piccolo per te ed è anche un po’ rotto, ti metto in una scatola da scarpe.”
Martina aprì l’armadietto e ne tolse una scatola grigio/argento con scritte impresse in rosso. Era vuota.
(4474 battute)

Raccontiaquattromani/24

Il sonno della ragione

“Adesso ti metto a dormire, Sara, ma considerato il fatto che il lettino della Barbie è troppo piccolo per te ed è anche un po’ rotto, ti metto in una scatola da scarpe.”
Martina aprì l’armadietto e ne tolse una scatola grigio/argento con scritte impresse in rosso. Era vuota.
Sara però non ci stava, era troppo lunga. Martina optò per una scatola più grande e nel prenderla fece cadere l’intera pila di scatole di cartone e scarpe di varia foggia e colore caddero a terra mescolandosi. Per terra si sedette anche Martina, piagnucolando un po’. Quanto disordine! La frana di cartone l’aveva inoltre spaventata e non poco, ma tutto era accaduto e terminato nel volgere d’un attimo. Poco male.
“Non spaventarti, Sara e non piangere, sei una bambina forte e coraggiosa”.
Martina rimise a posto alla rinfusa tirando su con il naso. In fondo la scatola prescelta meritava quel caos, era capiente e dentro aveva tanta soffice carta velina bianca, era adatta alla sua bambola Sara, che la fissava con lo sguardo azzurro di sempre e le labbra imbronciate e appena dischiuse.
“Ecco, la mamma ora ti cerca una copertina”.
La scelta fu facile, Martina andò in cucina e prese un tovagliolo. La dimensione era giusta ed anche il colore, pensò, le margherite bianche stavano molto bene su una coperta per bambole grandi. Erano infatti margherite grandi. In cucina c’era ancora la mamma distesa per terra, stava dormendo, Martina aveva provato a strillare forte per svegliarla, ma non era successo niente, la mamma continuava a dormire sul pavimento. Era tanto stanca, aveva litigato per due giorni interi con il papà, prima che lui prendesse delle cose a casaccio per riempirne una borsa da viaggio. Quella grossa, nera, che usavano per andare al mare d’estate ed anche in Toscana dalla nonna.
“Sì, sarà andato al mare, il papà, oppure dalla nonna in campagna”.
In TV Martina aveva visto svegliare chi dormiva profondamente con una secchiata d’acqua, ma lei non l’avrebbe fatto mai, perché la mamma si sarebbe arrabbiata moltissimo. La mamma così arrabbiata non le piaceva, si mordeva il labbro inferiore e restava col muso per ore, poi però faceva una torta e le passava. Martina non aveva voglia di mangiare la torta facendo dapprima arrabbiare la mamma. Si sarebbe svegliata al ritorno del papà per portarle al mare. O dalla nonna.
Non restava che aspettare e, visto che la mamma dormiva, andare a prendere in salotto una caramella al liquore, che veniva offerta agli ospiti adulti e mai ai bambini, perché intanto a loro non piacciono.
A Martina invece piaceva, ma dopo che il liquore aveva pizzicato il naso ed era sceso giù in gola e restava soltanto il sapore dolce dello zucchero.
Era il silenzio la cosa che la disorientava di più.
Quando la mamma e il papà erano insieme c’erano sempre tante parole, spesso urlate, spesso erano quelle parole che la mamma le vietava di pronunciare. Adesso Martina guardava Sara e invidiava la sua beffarda indifferenza. In realtà non era spaventata, la sua bambola. Non aveva pianto. Era rimasta uguale a se stessa, come la mamma. Avevano entrambe gli occhi azzurri, la testa scarmigliata.
La mamma era ancora sdraiata sul pavimento, immobile, addormentata. L’unica differenza tra lei e Sara era che la bambola aveva gli occhi spalancati: vedeva, osservava, non le sfuggiva niente. Chissà se alla mamma, da sveglia, sfuggiva qualcosa. Qualche particolare importante. Comunque, rifletté Martina, è sicuramente più riposante dormire a occhi chiusi.
Martina si accorse, non appena ebbe completato quel pensiero, di avere sonno anche lei. Accantonò l’idea di adagiare Sara nella scatola grande e, tenendosela stretta al petto, si accucciò accanto alla mamma. Per un momento rimase seduta, a gambe incrociate.
La mamma era pallida, però perlomeno era serena. Aveva fatto bene a non insistere per svegliarla: aveva bisogno di starsene un po’ tranquilla.
Martina si sdraiò accanto a lei, le prese la mano. Le sue dita le parvero d’un tratto creature flaccide e informi. All’improvviso ebbe paura di quelle mani così arrendevoli. Gliene strinse una, intrecciandola alla sua, ma la mamma non reagì carezzandole il dorso della mano con il pollice come era solita fare.
Martina si staccò dalla mamma sobbalzando.
Prese Sara e la mise tra sé e la donna. Sistemò la mano della bambola sotto quella della mamma.
Poi rimase a occhi spalancati, distesa sul pavimento. Meglio dormire a occhi aperti, dopotutto.
Non voleva che le sfuggisse niente. Non le sarebbe più sfuggito niente.

Raccontiaquattromani/23

Maria

Al pranzo di Natale mia madre invitò tutti i parenti.
Rifiutò solo la vecchia zia di mio nonno: chiusa in una casa di cura, centoquattro anni, ricordata solo se si parlava di eredità. E parlare d’eredità, be’, era la caratteristica dei miei parenti.
Alle riunioni di famiglia, sotto Natale, si deve essere pronti all’ordine, alla fatica, all’esaurimento. Una catena di montaggio, oppure un’esercitazione militare, ognuno con un compito: io dovevo sistemare cappotti e soprabiti di chi arrivava in camera da letto e tenere chiuse a chiave tutte le stanze. Mia madre non voleva che i bambini giocassero soli nelle camere o che qualcuno potesse entrare nelle stanze per frugare tra le nostre cose. Quindi ogni porta aperta poi veniva chiusa con un paio di giri ben decisi, e la chiave finiva sopra il frigorifero in cucina: mi sentivo San Pietro. Uscii in giardino a farmi una canna – non potevo resistere a una serata del genere senza un tocco di marijuana- e chiusi persino la porta di casa, rientrando. Poggiai le chiavi sul frigo, in alto, con le altre.

La cugina Adele durante le lasagne aprì la bocca, la pasta triturata tra i denti, e disse:
-Quando muoio brucio tutto e a voi lascio niente. Tiè.
Poiché era famosa per ubriacarsi con un crodino, nessuno la ascoltò davvero. Ma quel “Tiè” attirò l’attenzione di mia madre, che inarcò un sopracciglio: io seguii il suo sguardo, rimanendo affascinato dal cibo masticato in bocca ad Adele che ripeteva a voce sempre più alta “A voi non lascio niente di niente brucio tutto e poi mi ammazzo. Tiè“.
Il brusio calò piano. Adele aveva tutte le cose dei trisavoli. Incartamenti. Foto. Lettere dal fronte, medaglie al valore. Porcellane, lenzuola ricamate. E niente era mai uscito da casa sua. Aveva foto mie che mia madre neppure ricordava di aver scattato. Nubile, unica figlia della sorella di mio nonno Mario e cugina prima di mia madre e delle mie zie: alla sua morte ci saremmo scannati, mamma vittoriosa su una collina di parenti cadavere, in mano un quadro e nell’altra un centrino.
-Ne parliamo un altro momento e comunque non è giusto che ti tieni tutto tu, uno di ‘sti giorni vengo da te e guardiamo assieme le cose.
Mamma Annamaria dice.
-Quando vai me lo dici che vengo anche io, comunque quello che prendi tu devo vederlo anche io.
Zia Luisamaria puntualizza.
-E io, che sono, la figlia della serva? Comunque il cavallo di ceramica è mio.
Zia Mariarosa risponde.

Mettere in tavola un coltello di venti centimetri per affettare il roast-beef è pericoloso. Non contando una cugina adolescente interessata solo al suo cellulare, due cuginetti impegnati a farsi dispetti e un tizio così fatto di maria da parlare con la bottiglia di vino davanti a sé, c’erano dieci parenti e un coltello lungo e affilato: Adele fu la più veloce. Zia Mariarosa gorgogliò cadendo dalla sedia.

Io mi ricordo solo di aver messo le chiavi di casa da qualche parte, o sul top del frigorifero oppure nel vaso del ficus in ingresso. Adele ha appena fatto fuori anche mia madre, mio padre e ora ce l’ha con zia Luisamaria.
Scappo sul divano con i due cuginetti e la quindicenne sempre attaccata al cellulare. A chi manda gli sms, cosa scrive? Spedisce un ultimo messaggino al suo ragazzo, tvttb io&te 4 mt sottoterra?
Adele ammazza tutti come mosche. Si lanciano per fermarla e lei sembra uno spadaccino: ferisce, colpisce, affonda la lama, è contro un angolo della stanza ma non è una posizione a suo sfavore, anzi, nessuno può prenderla alle spalle.
Lo zio che rubò le cornici d’argento chieste inutilmente? Abbattuto.
La prozia che volle in prestito una pelliccia e non la restituì? Eliminata.
I miei bisnonni fissano la carneficina dalle foto sulla credenza: vivevano con Adele dopo che la figlia, Vittoria, la mia prozia, morì di un brutto male seguita dopo pochi mesi dal marito. Quando anche i bisnonni morirono, rimase tutto ad Adele. I soldi erano scomparsi da tempo.
La cugina Flavia che ha telefonato ai carabinieri e poi ti si è avventata addosso? Uccisa.
Il marito di Zia Mariarosa, che ha chiamato la polizia e poi ha voluto fare l’eroe? Ammazzato.
Adele fissa me seduto sul divano che abbraccio i tre ragazzini. Dalla nebbia dello spinello natalizio mi rendo conto di essere orfano. Provo a salvarci, le parlo con calma.
-Dammi il coltello adesso, dài.
Subito me lo offre dalla parte del manico, educatamente. Sento le sirene, in strada, si avvicinano. Mi rendo conto che io e i tre cugini erediteremo tutto. Adele ha il coltello puntato contro il proprio ventre, porgendomelo dal manico: con una spinta del piede destro, veloce e pesante, glielo affondo in pancia.

Guardo mia cugina.
-Hai mica visto dove ho lasciato le chiavi di casa?
-Sì, in cucina sopra il frigo, ti ho visto metterle lì.
-Vai a prenderle e mettile nella porta. E anche le altre, mettile a posto. Come ti chiami che non mi ricordo mai? E loro due?
-Daniela. Loro sono Giuseppe e Paolo.
Vado in bagno: Daniela, sì, ora mi ricordo, mia madre la chiamava sempre Danielina, ha infilato nelle toppe tutte le chiavi. Vedo la maniglia della porta del bagno abbassarsi piano, non arrivare in fondo, risalire. Poi di nuovo giù, decisa, scatta, la porta si apre, Danielina è nello specchio con me, le mani sulle spalle di Giuseppe e Paolo, stravolti, bianchi e muti. Lei invece è tranquilla, come se avesse visto un film alla tv. Mi sta chiedendo qualcosa, gli ultimi fumi dello spinello spariscono del tutto.
-Domani o appena riusciamo andiamo a trovare anche la vecchia dell’ospizio? Sai, la zia dei nonni?
Rido.

Raccontiaquattromani/22

La rotonde

Una pennellata dopo l’altra.
Gli occhi giallo febbre. Intenti. Come se avesse davanti un piatto di brodo e dovesse difenderlo da una torma d’affamati.
Scosta dalla fronte aggrottata un ciuffo di capelli con gesto delicato e automatico. E noncurante. Quel gesto lo sporca di colore ma continua il suo lavoro.

Su una poltroncina, un lenzuolo a coprire les nudités.
Bella.
Carne sensuale, erotismo di occhi marrone terra calda del Sud, seni tondi, capelli d’indefinita tinta, ambrati al sole che penetra dal lucernario.
Immobile, impassibili le ciglia.
No, ecco, alza un braccio e lo poggia sulla spalla. Scivola il lenzuolo. La stoffa carezza la pelle scopre un seno ricade tra le cosce.
Impercettibilmente inclina il capo. Intenzionalmente. Vuole mostrare il collo delicato, lungo, sottile, che dà profondità alla simmetria del volto morbido che tante volte ha visto posarsi addosso mani desiderose ed eccitate, e labbra bagnate dalla voglia anche di un solo contatto.

Quel giorno su Boulevard Saint-Michel fu proprio quel viso a colpirlo, un viso stanco segnato da clienti insoddisfatti, e da una notte gelida che l’inverno parigino accentua e da cui lo scialle che tiene sulle spalle non protegge abbastanza.
Seppure estenuate, le sue movenze non perdono fascino e sensualità. Le anche ondeggiano, scampanella il vestito blu che imbriglia a stento le forme sul punto di straboccare dal bustino che appena le trattiene.
Un passo dopo l’altro e arriva a La Rotonde, un bistrot che ospita i migliori artisti del quartiere, ma anche vagabondi e perditempo. In fondo è quasi la stessa cosa, no? Ma è questo il lavoro che le offre un pasto caldo al giorno, sì, perché Céleste mangia solo quando e perché si offre agli uomini che cercano un po’ di compagnia, e canta e balla per divertire il pubblico, e si diverte o finge di farlo – anche a loro capita lo stesso? Troppe domande oggi – e… qual è la specialité du jour? Richard le rifilerà il solito manzo stufato.

Origini italiane forse, forse la madre, una ragazzina tutta pancia e ossa, dalla Sicilia cercò fortuna all’estero, le avevano parlato di una grande città, un nome solo un nome ma le sembrava grande solo a pronunciarlo. Parigi. Strana gente accoglie Parigi e forse in questa città c’era, un posticino per una come lei. Ma chi vuole se la crea, la fortuna. Si cerca la fortuna, è una puttana la fortuna ma non ti viene incontro sbattendoti in faccia le tette come fanno le puttane come fece sua madre e come fa pure lei, Céleste. Un po’ d’amore dis francs, meglio che au cinéma, qui tocchi ed è vero quello che vedi.
Céleste, ou la belle italienne, luminosa la carnagione, oscura di paternità di passato di destino.

Quel giorno, a spettacolo finito, pochi clienti annoiati assonnati abbuiati d’assenzio. Si arrampica su uno sgabello, davanti un piatto di stufato fumante e un bicchiere di rosso del Midi che le tinge le guance già sfregiate dal belletto scadente che le regala Richard.
Una cucchiaiata dopo l’altra, trangugia la brodaglia in silenzio, senza fretta.
La porta de La Rotonde – oh, perché Richard non ci passa un po’ d’olio? Sembra una porta da bordello di provincia – si spalanca. Entrano una folata di vento e la grossa risata di un uomo che bercia un altisonante Bonjour.
Lo riconosce, ne ha sentito parlare, pare sia un pittore promettente mais oui oui perseguitato dalla malasorte, la solita storia il solito imbianchino morto di fame. Eppure si vocifera che la sua vita sregolata – un lunario di alcool, oppio e donne, di un mal di petto che lo tormenta e ad ogni colpo di tosse lo strattona verso la morte – non lo strappi comunque alla ricerca di perfezione, a creazioni insolite. Sorprendenti.
Céleste continua, una cucchiaiata dopo l’altra. Niente la sorprende, a La Rotonde.
Il manzo raffredda.

Encore, Dedé, je t’aime Dedé…
Oui, Dedé, mon amour…
Encore…
Pomeriggi di sole di colore sulla tela sulla pelle sul divano. La modella il pittore il pittore la modella il quadro il divano pennelli colombi sul lucernario troppo tardi per dipingere baise moi non è ancora notte

L’ha lasciata Dedé.
Altri corpi, stesso divano per nuovi quadri.
Me lo sentivo, nelle ossa me lo sentivo, l’ho capito quando ha preso il pennello per firmare il quadro, dieci lettere, piccole, pure io so leggere e scrivere un poco, Dedé non lo scrivere Dedé, non…
Lo sapevo, lo sapevo, sei una stupida puttana, questo sei, e dire che per te pure le botte di Richard mi sono presa, e ora dovrò pure strisciargli davanti perché mi riprenda in quel foutu bistrot
Modigliani è morto.
Il mal di petto se l’è portato.
Ha lasciato quei quadri bislacchi di femmine cigno a collo lungo e puttane affamate in cerca di un nuovo pittore a cui allargare le cosce.

Céleste continua, una cucchiaiata dopo l’altra. Niente la sorprende, a La Rotonde.
Il manzo raffredda.

Raccontiaquattromani/21

Quattromani

Sono andati, passati, i tempi in cui si viveva. Adesso è solo una lunga attesa. Attesa poi di cosa non ci è dato sapere. Se finora non ha gettato tutto è perché ogni tanto le piaceva venire a piangere sui ricordi. Ora non fa altro. Che piangere. La sento. Di là. Le sue mani, quelle mani bianche, lunghe e ossute, così eleganti, così curate, sensuali, non profumano più di limone. Sanno di fumo stantio e disperazione.

Siamo arrivati in questa casa con Lui, dentro un grazioso pacchetto di carta blu. Le aveva detto, mentre lei ci estraeva compiaciuta e felice, che con noi non avrebbe mai avuto freddo. Capretto bianco ammorbidito come si deve, lavorato dal migliore guantaio della città, rinomato anche oltre confine. Sottili, delicati e abbelliti da una fila di piccoli bottoni di madreperla a chiudere i lembi sull’esile polso, creando un’asola in cui Lui amava passare il dito accarezzandole la pelle sensibile. E lei era percorsa da brividi. Come sono caldi, aveva sussurrato quella volta, indossandoci e facendoci assorbire il suo lieve profumo.
Siamo stati regalati per le ore d’amore. Siamo stati testimoni delle carezze fatte in parchi invernali. Eravamo le sue mani di battaglia, della sua personale battaglia d’amore. La sua seconda pelle. E ricordo come scivolavamo sulle dita bianche, lisce, sottili.
Ne abbiamo fatte di cose insieme. Era eccentrica, senza limiti, teatrale. Così unica. Così irresistibile. Speciale. Tanto da poter indossare guanti di pelle candida, le aveva detto Lui. E davvero si voltavano tutti a guardarla quando camminava per strada. Erano tempi di splendore. Di spensieratezza.
E lei era così presa. Persa. Di Lui, per Lui. Era felice in quei tempi, era innamorata.

Vorrei avere ancora il mio compagno. Chissà che fine ha fatto. L’ultima volta lo vidi sul sedile dell’auto mentre Lui le stava spezzando il sorriso. Credo lei abbia dimenticato lì il mio gemello e anche se stessa. O almeno i suoi sogni e la speranza. Quando siamo stati separati e mi sono trovato a essere un ricordo doloroso da chiudere in un cassetto, l’inverno stava finendo e non faceva freddo, ma lei ci aveva indossato ugualmente. Hai belle mani, perché le copri sempre? aveva detto Lui insofferente, quando eravamo arrivati al parco, di fronte allo stagno, dove era solito aspettarla. Sai che indossarli mi ricorda te, sono caldi, aveva risposto lei, con voce pacata. Ma quella fu la mattina in cui tutto naufragò contro gli scogli aguzzi dell’incomprensione. All’improvviso Lui era cambiato, non era più così sicuro.
E lei soffrì molto. Uscì veloce dall’auto parcheggiata sulla riva scappando fra gli alberi, dimenticando il mio compagno.
Mi usò per asciugarsi le lacrime, venni appallottolato nella borsetta, scagliato sul tavolo di casa.
Un giorno di sole come lo è oggi, mi ha preso con delicatezza, come se il dolore e la sofferenza avessero trovato un luogo mite nella sua mente dove riposare, e mi ha deposto con cura in questo cassetto.
Ora è il nulla di ore interminabili ad ascoltare i rumori di fuori e i sussurri degli oggetti che sono qui. Andati, passati. Delle volte mi perdo nei bisbigli delle lenzuola riposte in altri cassetti che raccontano storie di letto. Ricordi, solo ricordi. Nulla più.

Al buio, con il pelo del collo del cappotto che copre il mignolo, le piume stanche del boa sul palmo bucato.
Quando mi ha messo qui dentro lo ha fatto con attenzione, non mi ha gettato in malo modo come è capitato alla cintura di seta o alle calze verdi, mi ha steso in un angolo, quasi fosse un rituale. Ha sospirato e poi ha chiuso il cassetto.
Sarebbe stata dura, per Lei, separarsi definitivamente da me. Il cassetto ogni tanto lo si può aprire.
In questo caos di lacrime e sorrisi io sono senz’altro il ricordo più dolce e doloroso. Il boa spennato è il retaggio di una festa di fine anno, il collo d’ermellino una fugace vestigia da mercatino delle pulci, la cintura, le calze, la penna stilografica sono solo oggetti dimenticati, ma io rappresento il ricordo più intenso e passionale. Non il solo, certo. C’è il guanto bianco. Ma io racchiudevo, proteggevo la mano di lui.

Un tempo, eravamo in due e avevamo un senso di funzionalità. E’ stato lui a comprarci, in un laboratorio di una simpatica magliaia che cantava l’Aida mentre ci creava. Ci ha presi insieme a Lei, è stata Lei che ci ha scelti. Diceva che anche lui doveva indossare guanti per le carezze d’inverno. Le piaceva la morbidezza del nostro tocco sulla pelle, le dita passate tra i suoi lunghi capelli. E lui ci usava per racchiuderle il viso nel calore della lana riparandola dal vento. Riscaldandole le gote e il respiro. Erano felici. Fino al giorno in cui lacrime e dolore hanno invaso l’abitacolo dell’auto. Quando Lei ha aperto il cassetto del cruscotto per cercare un fazzoletto capace di arginare quella sofferenza, per sbaglio mi ha afferrato. Nessun fazzoletto nel cassetto, ma nel caos del momento mi ha riposto in borsa e non vicino al mio pari. Ore dopo, a casa, quando mi ha trovato, mi ha scagliato con rabbia per terra, sventrandomi il palmo con le unghie, per raccogliermi subito dopo e annusarmi cercando tra le mie pieghe tracce di lui.

E ora se ne sta di là. Tra fumo stantio e disperazione. Forse se pensasse che lui, quella sera, trovò nell’auto due di noi, quattromani di un amore invernale, e che lui da quella sera custodisce con nostalgia due di noi, quattromani di un perduto amore, forse si asciugherebbe le lacrime con quelle sue belle dita e uscirebbe a passeggiare nel caldo sole d’autunno.