Zucchero filante
Adoro l’odore dello zucchero filato. Fin da piccolo lo avvertivo da lontano, nascosto fra i mille odori del Luna Park e correvo verso il carretto dove un uomo sorridente riusciva a fare enormi fusi di filo bianco dolce e molliccio, in cui affondavo i denti soddisfatto e mi ritrovavo con la faccia tutta appiccicosa. Il suo profumo penetrava nel naso e diffondeva un senso di abbraccio che mi rilassava. Anche le ciambelle fritte erano una tentazione ma mia madre le vietava per la mia tendenza alla rotondità. Era per mangiare lo zucchero filato che accettavo di andare al Luna Park. Come ora, per mio figlio e per lo zucchero filato. A dire il vero, quando era più piccolo, lo chiamava zucchero filante.
Non ho mai amato il chiasso e la folla. Per non parlare delle mille luci lampeggianti delle varie giostre. Rosso, blu, giallo, rosso, blu, giallo, all’infinito. Mi turbava tutto quel colore pulsante. La ruota panoramica invece era qualcosa di fantastico. Esiste giostra migliore?
L’emozione più forte era restare lassù, seduto dentro il cestello, fermo, con il cuore che batteva forte, a scrutare l’orizzonte e cercare con gli occhi il punto in cui il cielo si fondeva con la terra, un punto così lontano che non ho mai ritrovato. Nella terra dove non si distingueva più nulla, immaginavo mostri da sconfiggere e principesse da salvare.
“Vieni qua, devi stare vicino a noi” ripeteva mio padre quando mi allontanavo per vedere i pesci rossi nuotare in circolo dentro bocce di vetro così piccole da far venire la claustrofobia. Sarebbe, pensavo, come tenere un uomo in una vasca da bagno: non è poi così comoda!
“Angelo, tieni i gettoni per le giostre. Quando sono finiti questi andiamo a casa” diceva mia madre mettendomi una decina di monete di plastica colorata in tasca. Mi chiedevo perché non potessi usare i soldi di carta del monopoli che secondo me valevano di più, e avrei potuto fare più giri. I gettoni, adesso, esistono solo per le giostre dei bambini nei centri commerciali. Se vai nei parchi paghi un ingresso, spesso salato, e accedi a tutte le attrazioni, ora le chiamano così. Mi spiace non ripetere il gesto di porgere il gettoni al giostraio che passava con il barattolo, udire il tintinnare del metallo, come autorizzazione per poter gioire ancora una volta di un volo, di un giro, di due urla di spavento.
Mi piaceva molto osservare mio padre che tentava di vincere il peluche gigante a forma di cane sparando su lattine disposte a triangolo come un castello di carte. Posava il fucile sulla spalla e, dopo avermi fatto l’occhiolino, sparava nel mucchio. Non aveva mira e quelle non cascavano mai, neppure quando diceva “Hai visto che le ho prese?” e io annuivo per farlo contento.
Non capivo perché i peluche erano sempre di improbabili colori: il cane giallo, l’elefante azzurro, la balena rosa. Giusto la rana era sempre verde, forse per farle un dispetto.
Ora che sono padre è tutto diverso: la ruota panoramica è la giostra più sfigata. “Vuoi mettere le montagne russe?” dice mio figlio per convincermi a fare un giro che in trenta secondi ti permette di vomitare l’intero pasto appena ingerito.
Il missile, le montagne russe, la nuvola, il galeone dei pirati mi scuotono fino dal profondo, risvegliano in me la paura della velocità o dell’altezza e non riesco nemmeno a pensare. Tutto si addensa in pochi secondi, brucia dentro l’adrenalina che esplode. È un viaggio mentale, e ne esco sempre shakerato, come dice mio figlio ridendo soddisfatto. Gli piace l’idea di diventare per qualche secondo più coraggioso e forte di me. Poi entriamo nella sala degli specchi come quando ero piccolo e in alcuni ritrovo la mia immagine tonda e burrosa di quell’epoca, in altri sono così basso da sembrare io il figlio e lui il padre, alto e magro.
“Papà, queste sono giostre antiche” dice facendomi sentire un relitto mentre mi trascina verso la nuovissima attrazione in 3D. Fingere di essere su un carrellino che percorre una miniera sotterranea è divertente. Come pure navigare dentro un fiume con le rapide e il rischio costante che la canoa si ribalti per la corrente vorticosa e le rocce che affiorano dal fondo scuro. Solo quando si riaccendono le luci ricordo che è tutto finto, tutto inesistente e noi ci troviamo nella pianura piatta, arida a volte. Mi piace questo mescolare la realtà dei sensi e scoprire il profondo coinvolgimento della realtà virtuale.
Mia moglie si rifiuta di venire con noi. Dice che è un modo stupido per buttare dei soldi, ma sospetto che voglia lasciarci soli, permettere a noi due di trascorrere del tempo insieme.
Dopo qualche ora di gioco ci fermiamo al carretto dello zucchero filato dove una giovane straniera ci sorride mentre affusola i cristalli di zucchero dopo aver chiesto “Volete bianco, rosa o azzurro?” ne gustiamo uno ciascuno, rigorosamente bianco, e troviamo la complicità che non ho mai avuto con mio padre. Fortuna, almeno lo zucchero filato è rimasto, quasi, quello di una volta.