Racconti a 4 mani/14

Il volo

Il corteo avanza veloce.

I bambini sono stati lasciati a casa.
“Alla rupe! Alla rupe!” si sente urlare. Di me, parlano. Il loro tormento è il mio nome. Il mare rumoreggia e spuma.
Ora si sente soltanto il rumore dei loro sandali, che, rapidi, si avvicinano alla scogliera.
Io non ho paura. Ho smesso di averne quando mi hanno scelto.
“Alla rupe, alla rupe!” hanno urlato a più riprese. E io a sorridere come fossi stata la regina del mondo nel punto in cui il mondo s’inerpica verso il cielo. In quel momento ho smesso di aver paura. Qualcuno mi ha vista impallidire, ma era stanchezza. Ora stanca non lo sono più
“Barbara”, dicevano, urlando sottovoce. Io pensavo “Eccomi”, e ho poi detto “Eccomi”. Ancora non sapevo che cosa m’attendeva, e ho sorriso. Ancora non avevo capito che avrei smesso di aver paura perché in quel momento la morte era entrata in me. Forse mi hanno scelto proprio perché sapevano che non avrei avuto paura. Non credete che ci sia un destino a determinare il nostro stare al mondo? A misurarne spazi, tempi, luoghi, necessità?
Io sono qui perché devo essere qui.
Hanno facce livide, abbruttite e occhi di fessura. Poi torneranno a casa con la coscienza mondata dei loro peccati, abbracceranno i figli sui quali non ricadranno colpe. Quelle no. Il senso di un qualcosa di irrimediabile, forse.
Questa terra rossa è dura, arida e solcata dal sole quanto le loro menti. Imbattuti i cuori.
Procedono come ciechi privati del cane guida. Sbattono gli uni contro gli altri per la furia di arrivare in cima e la fretta di lasciarsela, poi, alle spalle. La scogliera domina una gola stretta. Il vento fa il suo giro e qui torna a squassare il respiro e i passi. Il calore è un baluginio all’orizzonte, lungo il filo di lama del mare. Il sacrificio si sta per compiere e io non ho paura.
Le donne son cagne, gli uomini duri come sterco lasciato al sole. I loro figli, tutti storpi. È da un anno che i figli di questo popolo nascono storpi. Prima il figlio del macellaio, poi quello del biscazziere. A uno il braccio s’arrestava alla mano, come a limitargli la presa; all’altro mancava l’orecchio.
“È nato senza orecchio!” urlò il cugino, ridendo sguaiato a tavola e brindando alla sua schiava, che gli avrebbe partorito tre giorni dopo il primogenito. “A lei, che quando le mogli son terreni incolti le schiave sono piantagioni!” E giù un boccale a ridere per lei che, tre giorni dopo, il primogenito gliel’avrebbe dato davvero. Nato senza occhi, cuciti come la borsa dell’avaro; e Dio preso a parole di fuoco.
La rupe è adunca come il naso di una vecchia. Era là che in tempi lontani venivano gettati i figli storpi o non voluti; là che fece il suo volo, in una notte di pece, il figlio del biscazziere. Il padre non lo si vide piangere, ma bere; a chi gli chiedeva dov’era finito quel figlio ancora senza nome rispose girandosi piano “Figlio? Quale figlio?”
Io sfioravo la mia pancia, immaginando una sventura di lì a poco condivisa. E invece.
“Barbara!” si dissero al parto le bocche semichiuse e tumide di chi progetta un assassinio.
E non me lo perdonarono. Io, la tessitrice, che attiravo le elemosine di fronte alla chiesa perché sciancata da una caduta, sin da quando ero bambina, partorii una figlia bella, la pelle liscia, i capelli sottili.
Maddalena, l’avrei chiamata. E Maddalena non ha il maleficio di una privazione. Il peso di un marchio di dolore.
Nemmeno il tempo di tagliarle il cordone e le parole volarono di bocca in bocca come sassi a lapidare la nostra sorte. Dalla levatrice alle altre donne e poi agli uomini che tornavano dal mare, le reti a secco e pochi pesci per sfamare.
Poi, una processione. Tutti a vedere. Tutti a stupirsi prima e a sussurrare; poi ingiurie. Le voci montavano come marosi in tempesta. Si fecero più alte. Le cagne diventate lupe assetate di sangue; gli uomini cinghiali. Affilarono i denti e dissero che non era giusto. Era, peggio, un affronto.
Gli uomini si guardarono, capendo che dovevano fare qualcosa. Subito. Per sedare tutta la rabbia di essere così impotenti di fronte alla vita.
“Barbara!” si dissero, le bocche semichiuse e tumide di chi progetta un assassinio.
“Solo una strega poteva interrompere il sortilegio che il fato ci ha riservato!”.
“Strega!”, si dicono ancora su questa rupe.
Sono tutti d’accordo. Non si leva una voce contraria; nessuna compassione. Sono loro, i giudici di questo destino che li ha resi genitori di figli storpi, segnati per sempre nella loro sorte di reietti. Le donne, che hanno sfiancato i loro ventri pur di riuscire a figliare. Le ragazze, che sanno di non avere un futuro perché nessuno le vorrà più, portatrici di una matrice marcia che mina i corpi come una malattia di cui nessuno conosce il rimedio. Gli uomini tutti, grandi e piccoli, che sanno di non avere nulla da offrire se non un seme infetto. Nessuno sa di chi sia la colpa. Ciascuno la sente su di sé con la forza di un peso che non sa sopportare. Che è peggio della fame, del dolore di una ferita di lancia, del travaglio di un parto.
Le donne mi guardano, in attesa; alle loro spalle i cani ringhiano.
Dio intanto ha scelto di prendere una corda e appendersi al ramo della grande quercia, accanto a un burattino di legno messo tempo fa.
Prendete pure la mia vita, penso. Tenetela, penso, e forse lo grido.
“Tenetevela, la vita!”, grido stavolta davvero.
La scogliera è alta. Sotto, gli spuntoni cambiano colore se bagnati dal mare. I cani ringhiano più bassi e minacciosi; le donne mi puntano.
“Tenetevela!” urlo di nuovo. La voce del mare aumenta il proprio clamore.
Maddalena è già lontana, ormai.
Sono sull’orlo del precipizio.
Guardo giù e penso che non ho paura.
Le loro mani non le vedo perché chiudo gli occhi.
Le sento. Sento le loro mani. Prima di darmi la spinta sono colpi violenti contro di me.
Sono pugni. Sento le unghie. Sono graffi. Le loro voci, ormai indistinguibili.
Un urlo collettivo che sale dalle loro viscere e si propaga riecheggiando nella gola sottostante.
Nemmeno il rumore del mare riesce a tacitarlo.
Poi, come ad ubbidire ad un comando che non vedo né sento, le mani tutte mi spingono.
Inizia il mio volo.

8 pensieri su “Racconti a 4 mani/14

  1. Buono, archetipico, con accenti sentimentali ben calibrati. Buonissima fusione delle due (quattro?) mani.

  2. Lo stile, per quanto ponderato, curato, non mi è piaciuto. La vicenda, ponderosa, mi ha ricordato una storia vista su Linus trent’anni fa messa insieme da una coppia di disegnatrice e scenegg. su un fatto simile. Forse Queirolo e..non ricordo più. Comunque si vede un forte sintonia tra i due autori.

  3. @ lucypestifera.
    No, no: l’enfasi è in senso positivo!
    Niente affatto pomposo, ma solenne, con un senso di ineluttabilità che richiama la Tragedia.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...