Appello a 4 mani

Non sono Remo (si capisce).

Mancano molte note biografiche. Non metto qui l’elenco, tanto ciascuno di voi sa se l’appello lo/la riguarda o no.

Non vale dire “usate quella dell’anno scorso”; usatela, se volete,  ma me la dovete inviare: orasesta@gmail.com.

A votazione conclusa impaginerò l’e-book inserendo le “bio” che avrò ricevuto. Per gli altri metterò nome cognome e l’indicazione “note biografiche non pervenute”.

Confido inoltre nella gentilezza e nella disponibilità  (come da “tradizione”, ormai) di Mario Bianco per la copertina.

Domani sera il blog ritorna nelle mani del padrone di casa. Approfitto perciò di questa occasione per salutare tutti/e come dal centro del palcoscenico all’ultima serata del tour :)

t.

Racconti a 4 mani/13

Lo strappo

(…) Perché la calma mortale di quelle strade, in quella non ora,
in quella non-stagione, poteva davvero uccidere. (…)
Jonathan Frenzen, Le correzioni, Einaudi, Milano, 2002

(…) Ma il mio volto non cambia per questo. E i miei battiti restano gli stessi.
Non mi muovo neppure, anche se dentro mi sento straziare. (…)

Roberto Bolaño, Il Terzo Reich, Adelphi, Milano, 2010

L’aria era ferma, sembrava quasi di riuscire a stringerla tra le dita. Zoe afferrò un fagiolino e strappò le estremità con tagli secchi, decisi. La busta di carta paglia era umida di frigo e si stava lacerando sul fondo. Quello strappo, quel lento disfacimento lanciava una eco di dolore, una ferita che assecondava l’agonia dei fagiolini.
– Hai finito? Guarda che sono per cena… –
Zoe non rispose, accennò un sorriso sbeccato, la bocca allungata e le finestrelle dei denti in vista, poi con lentezza afferrò un altro fagiolino.
La morbidezza delle colline le ricordava i seni della mamma arrossati dal sole, un sole sfinito che stava per annegare tra filari e girasoli, case abbandonate e ulivi.
Zoe buttò un occhio alla bicicletta pensando che se la gomma non si fosse forata quel pomeriggio avrebbe potuto fare un salto dall’Agnese per poi arrivare fino all’orto ad aspettare il buio, quello vero, e poi di corsa a casa, i pedali impazziti, il fiato corto. Quell’estate dei suoi nove anni le giornate si srotolavano come gomitoli senza fine: sale, onde leggere, e poi stoppie bruciate e corse in bici, raspi d’uva e sabbia nelle scarpe.
L’ultimo fagiolino tintinnò nella terrina. Sua madre la vide allontanarsi di corsa, una sagoma di carta, a due dimensioni.
Dopo la discesa, la strada che portava a casa dell’Agnese era sterrata. Il profumo dell’eucalipto le suggerì di riprendere fiato prima di affrontare la salita, di respirare a polmoni aperti. Le giornate si stavano irrimediabilmente accorciando, i primi lampioni cominciavano a rischiarare l’asfalto della statale in cima alla collina.
L’Agnese non se la finiva mai di parlare. Zoe, invece, non riusciva a farsi uscire le parole di bocca, rimanevano intrappolate sotto la lingua come se ci fosse qualcuno a tirarle in basso, in gola. La Gina, sua madre, era convinta che prima o poi sarebbero arrivate come un fiume in piena, gli argini rotti e tutto un tracimare. Suo padre invece aveva perso speranza. A settembre niente scuola, le aveva detto ben sapendo di mentire. Ma Zoe quella notte aveva pianto aggrappata al lenzuolo in un silenzio umido e cattivo.
La Gina pulì il tavolo con un panno bagnato, poi accompagnò i residui dei fagiolini al compost canticchiando un motivetto che aveva sentito quella mattina in radio. In lontananza vide passare una macchina grigia e pensò che la vicina ne aveva trovato un altro, quell’ubriacona. Si strusciò le mani sul grembiale pensando che in fondo non le sarebbe dispiaciuto fare quella vita lì. Ma poi ritornò ai fagiolini. Ciabattando, raggiunse la cucina dove li abbandonò al loro destino di bollori.
La macchina grigia tirata a lucido sputava pietre al suo passaggio, sembrava appena uscita da un autolavaggio. Questo pensò Zoe e pensò anche a suo padre Ottavio che proprio quello faceva di mestiere, lavare macchine, dentro e fuori, i rulli e tutto quel rumore, acqua, spazzole e sapone. Quando era piccina le piaceva da matti restare accovacciata sul sedile posteriore a guardare l’acqua sui finestrini, si sentiva protetta, a casa.
La macchina grigia frenò di colpo, proprio come le spazzole a fine lavaggio.
Non l’aveva mai visto prima. Forse voleva un’informazione. Questo pensò Zoe mentre l’uomo abbassava il finestrino, mentre lei arrossiva perché sapeva che la voce proprio non le sarebbe uscita e immaginava che lui, come tutti, avrebbe letto nel suo silenzio una sfida o una sgarberia, o una madre troppo severa che le aveva proibito di parlare con gli sconosciuti. Pensieri claudicanti, come i suoi passi corti e affaticati dalla salita: il fiatone, il cuore a stantuffo, le ginocchia molli.
– Come ti chiami? –
Zoe avrebbe voluto rispondere ma ancora non era arrivato il momento giusto.
Nessuno la capiva. Sua madre era riuscita a intuire pur non avendo concretizzato una risposta. La voce era annidata nel petto, sotto l’abbozzo di seno sinistro, e pulsava ogni notte più forte. Zoe si sdraiava, appoggiava il palmo per ascoltare e cercare di capire quando sarebbe affiorata, come una di quelle boe del lago che sembrano affondate poi, un bel giorno, saltano fuori pulite e scrostate dalle alghe. Non si sa come, ma vengono su e galleggiano bianche come cigni. Peccato che non si decidesse a farlo ora, l’uomo sembrava simpatico e sarebbe stato divertente ritornare a casa canticchiando garrula come se niente fosse. Ma non era ancora tempo. Provò ad appoggiare la mano sotto l’abbozzo di seno e sentì le pulsazioni, erano forti ma non abbastanza.
A lei nessuno aveva mai raccomandato di non dare confidenza. Si vergognava, scappava se a qualcuno saltava in testa di rivolgerle parola.
– Ti hanno detto che non devi dare retta, che gli sconosciuti sono pericolosi. Ma io non sono pericoloso. Sai dove abitano i Fabbri? Li conosci, vero? Lui è alto, porta un cappello… lei invece è molto giovane e… ma sei straniera? –
Mentre si affannava per convincerla a parlare, aveva fatto scattare la serratura, aperto la portiera, e si sporgeva verso di lei con un sorriso grande così.
– Sei proprio carina, sai? Mi porti dai Fabbri o mi indichi la strada, per favore? –
L’uomo allungò il braccio abbronzato. Dal polsino della camicia verdina spuntò un orologio pesante, d’acciaio con il quadrante nero. Sotto l’ascella, un alone di sudore, come quello che dava tanto fastidio a sua madre. Un uomo sudato che chiedeva informazioni sui Fabbri. Non era cognome di quelle parti, lei conosceva tutti. Forse aveva sbagliato strada al primo incrocio, ma lei non poteva dirglielo. Si spostò di lato e indicò la strada.
– Indietro? Che ne dici di accompagnarmi? Altrimenti mi perdo di nuovo, ho molta fretta, sai? questi Fabbri sono parenti lontani e abbiamo anche un mezzo affare… dai, sali, forza… –
Si sporse ancora, le sue dita la sfiorarono e fu allora che la mano scattò, a tenaglia. Afferrò il polso e tirò avanti, verso la macchina. L’alone di sudore puzzava, il sorriso era scomparso. Zoe sbatté contro la portiera, il ginocchio sinistro iniziò a sanguinare. La mano dell’uomo allentò per un momento la presa e Zoe cominciò a scappare. Iniziò a correre nell’unica direzione possibile: doveva andare via. Lo sentì arrancare per riprenderla ma non si fermò. Gambe, piedi, gambe, piedi, gambe, piedi. Correre e basta, senza trascinare i passi. E accelerare il respiro per non crollare subito. Il sapone e le spazzole di Ottavio riapparvero nella sua mente, ma li cancellò subito e ancora gambe e piedi, gambe e piedi.
Qualcosa le agganciò la spalla. Era la sua mano. Una scrollata, e avanti, il fiato corto e il cuore che batteva. Forte. Più forte.
– Aiuto! –
Da principio non capì chi avesse urlato. Una voce nuova, da giovane donna bambina, le spaccò le orecchie. Sotto il seno, la pulsazione piena, a onde, come un grumo di sangue da sputare, era scoppiata.
– Aiuto! –
Quando si gettò sulla porta di casa si accorse che l’uomo non c’era più. E neanche la macchina sulla strada. Entrò e crollò sul pavimento.
Quando raccontò per la decima volta la sua storia, solo la Gina volle crederle. Lei sì, lei quella macchina l’aveva proprio vista.
Era l’uomo che aveva fatto parlare Zoe. E così fu ricordato.