Come fu che Malik perse il suo sogno
La motoretta doveva essere rossa.
Di questo Malik era sicuro. Si sedeva sulla collina, appoggiato a un cespuglio, e voltava le spalle alla città, puntando lo sguardo all’acqua lontana. Chiudeva gli occhi. Chiudere gli occhi era necessario: ingrandiva il rumore del fiume che, affamato di spazio e di caduta, precipitava e rombava portando con sé il terreno secco sfiorato dai suoi palmi, l’aria calda che gli respirava addosso, la camicia strappata e il buco allo stomaco. Così, poteva vederla bene, la sua motoretta, e lucidarne i metalli cromati, facendo splendere con uno sputo deciso e un panno robusto il sedile di cuoio, e riempiendo il serbatoio dietro al grande fanale che avrebbe illuminato loro la strada quando fosse venuto il momento.
Le gerbere dovevano essere gialle.
Oppure rosa. Samirah cambiava spesso idea, almeno tante volte quante cambiava il vestito prima di accettare con buona grazia di far visita alla zia Nabilah, che bisognava tener buona e onorare con cortesia, prima che il demonio del pozzo, per punirle dello scarso rispetto, cavasse loro un occhio ciascuna, come alla moglie del mercante e a sua sorella. Per quanto, Samirah pensava a volte che sua sorella si sarebbe meritata di rimanere senza un occhio, visto che le rubava sempre il vestito a fiori e le sandalette bianche con i buchi, che avrebbe messo con la fascia rossa sui capelli e il mazzo di gerbere in grembo. Gerbere gialle, oppure rosa, questo era da vedere.
La casa doveva essere quella ocra, l’ultima dopo la svolta del sentiero che abbandonava il villaggio.
Il tetto appuntito sfociava nel loggiato, per ripararsi dalla luce del giorno, e il cortile era interno, con le palme a svettare spumose, dove trascorrere le serate con i bambini in giochi di biglie di terra seccata. E anche, dovevano esserci i limoni e gli aranci, che fanno succosa abbondanza, e l’ibisco con le sue corolle opulente e i gelsomini a contornare le finestre.
Una casa perfetta per Malik e Samirah, così doveva essere.
Poi Malik è sceso dalla collina dove portava il gregge a racimolare sterpi e ramaglie, ha svuotato le sue tasche e quelle dei fratelli. Il gruzzolo riluceva sulla stuoia al centro della stanza, sotto la luce della lampada di pelle di capra. Non era più tempo di restare, non c’era posto per tutti nella casa del padre. Per lui, Mbatu ha indossato il copricapo e versato sangue di bue, e ha danzato sotto il Grande Albero. Ora Malik è pronto, in tasca la piccola pietra nera di ossidiana a proteggerlo, sulla spalla il fagotto di sua madre e in testa un pensiero per non dimenticare.
Il rumore del fiume è scomparso, e davanti ai suoi occhi si muove pigra la schiena chiara e verde del mare, che è così grande da mangiarsi ogni spazio e ogni possibilità e così fiocamente rumoroso da imporre a tutti il silenzio. C’è il sole, oggi, e la città alle spalle si è già dimenticata di Malik e degli altri che lo spingono, muti, verso la passerella, e sfiorano la sua pelle sudata, urtano sgarbati la schiena rigida, si accomodano accanto a lui sulla panca affollata e stringono i corpi per far posto. Un uomo ha i capelli grigi e racconta piano che quello sarà un buon viaggio, tutti seduti, mare calmo, c’è acqua e un filo di speranza, e un paese dove il palo del mondo tiene alto il cielo e si potrà crescere. Malik vuole sapere se in quel luogo si potranno anche trovare motorette rosse, e se lui potrà portarci Samirah, e se si faranno fotografare seduti sul sedile di cuoio. Lui indosserà un abito con i bottoni e un paio di scarpe robuste, e avrà in mano una sigaretta; lei avrà una fascia rossa in capo e un mazzo di gerbere e le sue sandalette bianche.
Malik vuole sapere, ma non chiede. È un mondo nuovo, quello, e si vergogna. Così tace, e continua a lucidare il suo sogno.
Ben presto la schiena del mare si gonfia, la percorrono crepe gorgoglianti, spinte dal vento che straccia, scuote e spazzola le vesti e le facce silenziose. Ogni viaggiatore guarda avanti nell’angolo visuale improvvisamente ristretto, sempre mutevole, e il fissare diventa l’àncora in un mondo senza confini. Cigolano i legni, piangono la loro lunga esistenza, offrono il ventre screpolato alla ruvida forza del sale. Malik sospinge lo sguardo oltre la prua, dove s’inarca lo scafo e scoppiano boati di madreperla: eccola, ora la vede, come l’aveva sempre immaginata, Nabuch, la Regina delle Acque, avvolta nella sua spuma scintillante, che offre le lunghe braccia, li accarezza sulla cresta dei flutti e li chiede per sé.
Ma più indietro, tanto più indietro, sul patio polveroso, le preghiere di Samirah si alzano forti e precise a spingere avanti la nave sconosciuta, ché arrivi nel mondo nuovo col suo carico scuro e amato.
Nel mondo nuovo ci sono campi di pomodori, rossi come il sangue dei buoi della prateria, frutti succulenti che Malik deve strappare alle piantine prostrate sul terreno e infilare in grandi secchi da svuotare sul carro. Nel mondo nuovo le motorette sono rosse, blu, nere, con i cerchioni cromati e lucenti, i sedili in pelle morbida, e appartengono ai padroni. Malik ogni sera, steso sul vecchio materasso, conta gli spiccioli, monete di troppo poco valore per comprare un sogno. Il sonno arriva e non lascia tempo per guardare la luna o le stelle, così spente e solitarie nel mondo nuovo. L’alba giunge presto, caliginosa e soffocante; non ha colori che incendiano le nuvole e vapori rosati che inarcano il cielo. Con il mattino giungono i distributori di braccia, a portare Malik e gli altri sulle strade polverose che separano le piane, e a pagarli con scarse monete.
E qui l’acqua è lontana, il tempo poco e la fatica troppa, per poter sognare. Malik raccoglie, dorme, raccoglie, impara parole nuove e straniere, raccoglie, ha una maglietta rossa e un nuovo paio di scarpe di pezza. Se passa una motoretta, non si gira più a guardarla.
Più indietro, tanto più indietro, su un patio polveroso, qualcuno vede seduta una ragazza con un vestito a fiori. Che farà Samirah con le sue gerbere?