Racconti a 4 mani/6

Sanfermines

No, non è quello. È il modo in cui ti guardavano in piazza quando ti sei alzata maglietta e reggiseno. Capisci? È il modo in cui tu guardavi loro, il modo in cui sorridevi, le cose che ti urlavano. Io ero di sotto, le sentivo.
– Anche te, dico, potevi urlarmi qualcosa di bello, no? Perché mi urli ora, stronzo! Sono stanca di essere trasparente per te! Non mi vedi, mi sposti se passo nuda davanti alla tv quando guardi quelle partite del cazzo, non E-SI-STO per te! Ma io esisto, eccome, hai sentito cosa mi dicevano, no? Io esisto!
– Ho sentito, ho sentito anche troppo bene. Contenta tu…
– Ma che cazzo ne sai tu di quello che mi fa contenta? Parli solo di estratto conto-mutuo-banca-lavoro-modellounico-5permille!
– Appunto. Si era detto: veniamo qui a Pamplona e facciamoci tre giorni fuori di testa, senza pensare alle solite menate così stacchiamo la spina per un po’. E infatti…
– E infatti… mi hai riempito il bicchiere troppe volte, e sono andata fuori di testa, guarda, sono ancora fuori di testa… disse lei togliendosi la maglietta lì. Traballò sui tacchi e un sorriso sguaiato la fece sembrare più brutta. Ma erano le tette sbandierate che attiravano l’attenzione e non la sua faccia stordita…
Lui si girò e si incamminò verso una strada laterale.
Fu l’ultima volta che lo vide.

Dieci anni dopo sono ancora qua – pensò la donna uscendo dalla pensione.

Non c’era stato verso di ritrovare quella in cui erano stati quella volta, in un vicolo della città vecchia. Meglio così. Troppo ricordi. Chiedendo informazioni riuscì ad arrivare all’inizio della salita di Santo Domingo, dove innalzavano i recinti dei tori. Senza la folla che intasava le strade nei giorni di San Firmino gli spazi sembravano più ampi, le prospettive si dilatavano. Prese la foto del giornale dalla borsetta, la studiò per l’ennesima volta e cominciò a cercare quel tratto di strada ritratto nello scatto.

Ogni giorno ti ho visto di spalle mentre andavi via da me… Ora devo ritrovare quell’angolo di questa maledetta Pamplona da cui sei svanito per sempre quel dieci luglio di dieci anni fa per correre in mezzo i tori mentre io ero fuggita da te… solo per qualche minuto di sesso con quel tipo che mi diceva cose con lo stesso accento accattivante di Antonio Banderas.

Nella foto lui è a terra, il tronco girato in una strana torsione. Indossa la tenuta del mozo: pantaloni bianchi, maglietta bianca, una sciarpa rossa a fare da cintura e un fazzoletto rosso al collo. La testa è rivolta verso il suolo, con il braccio cerca di attutire la caduta. L’orologio al polso è quello al quarzo che gli ha regalato la donna. Alle sue spalle il toro. Nell’istante successivo allo scatto ucciderà il ragazzo fracassandogli il cranio con il suo peso, dopo averlo incornato al deltoide. In terra c’è un paio di occhiali da sole bianchi. Sembra che siano caduti a lui ma lui non ha mai avuto un paio di occhiali così. Forse sono del ragazzo con la felpa della tuta sopra la tenuta da mozo. O forse del ragazzo di fianco con la polo verde. La donna non l’ha mai saputo. La polizia spagnola non ha rintracciato nessuno di quei ragazzi. Scomparsi. Mai esistiti.

Ricordo quando la mattina dopo la notte con lo sconosciuto, aprii gli occhi in quella squallida stanza di albergo: corna dorate di toro, nacchere, sullo scalcinato  frigobar un apribottiglie a forma di torero panciuto, ventagli aperti appesi alle pareti… tutto girava intorno a me. Non si sarà mica fatto incornare… due volte? E lo pensai sorridendo stupida e stupita in preda agli ultimi sgoccioli di sbornia. È questo pensiero che non mi perdono, questo tradimento. Devo ritrovare quell’angolo. Devo.

La donna attraversò la piazza del Municipio. Entrò in Calle Mercaderes e si fermò nella curva a gomito all’entrata di Calle Estafeta, dove i cronisti si accapigliano per scattare foto ai tori che scivolano. Arrivò fino al Callejón della Plaza de toros. Si fermò e si guardò attorno. Ottocento metri di strada, nemmeno cinque minuti di corsa fra tori, gente che cade, si rialza, perde scarpe, cappelli, fazzoletti, ride, urla, si piscia addosso la birra della notte prima, si aggrappa…
Tornò indietro fino al Calle Estafeta. Riconobbe le beole della fotografia, il muro, il tombino su cui sta scivolando il toro. L’uomo è morto lì. La donna lo sentiva.

Lo sento. È qui. Striscio il piede in questa fetta calda di strada, è come se ti accarezzassi. Guardo la foto, di nuovo per esser più sicura, ma è qui. La tua morte è qui. Dove quelle corna ti hanno ammazzato, e ci hanno spezzato la vita… Non serve a niente esser qui a immaginarti insanguinato e senza vita. Non serve a niente. Ma dovevo venire. Dovevo vedere. I miei sensi di colpa, assurdi forse, tramutati in incubi notturni mi seguono da dieci anni, non che con oggi mi sentirò più leggera… O forse sì.

La donna arrivò all’aeroporto la sera stessa. Si imbarcò che il sole cominciava a calare. All’edicola comprò il Corriere ma a bordo le passò la voglia di leggerlo. Le passò la voglia di fare tutto. Si mise a fissare il buio del finestrino.
Il vicino di posto, un uomo che assomigliava a Paolo Villaggio con una quarantina di anni in meno, le chiese il giornale.
– Se non lo legge… –
Glielo passò.
L’uomo aveva voglia di attaccare bottone. Sfogliò il giornale si fermò su una delle ultime pagine.
– Questa è buona. Vasco Rossi ha detto che smette di fare dischi. Ha sentito? -.
Alla donna venne in mente un concerto di Vasco Rossi a cui aveva assistito con il suo compagno pochi mesi prima di Pamplona. A lui piaceva Vasco. Pensò a tutti i dischi che non avevano ascoltato insieme, a tutti i concerti a cui non erano andati, a tutte le cose, i viaggi, le pizze, le incazzature, le parole e gli odori che in quei dieci anni erano andati persi da qualche parte. Sentì muoversi dentro come una frana, terra senza radici che scivola su strati di roccia, e sentì le lacrime annebbiarle gli occhi.
– Ma che fa? Piange perché Vasco Rossi ha smesso di fare dischi? – le chiese l’uomo.
– Sì –