Racconti a 4 mani/5

La prima volta

Sospinta dalla fiumana di gente frettolosa, Elena lesse il nome della sua stazione della metro con un moto d’orgoglio. Lei, che proveniva da un paesino di mille anime, dove la distanza più lontana da un punto all’altro era di dieci minuti a piedi, aveva vinto la riluttanza a farsi inghiottire dall’oscurità del ventre profondo della città e a essere trasportata nelle sue anse tortuose, come un boccone da digerire.
Appena arrivata a Milano, sei mesi prima, il suo timore peggiore era stato non saper calcolare il percorso, di non riuscire a raggiungere la sua destinazione. Invece non aveva mai sbagliato nemmeno uno scambio. E ogni arrivo era come una vittoria sulla sua insicurezza.
“Quando hai fatto una cosa la prima volta, le successive sono molto più facili.” si disse, mentre riemergeva all’aperto.
Sua madre lo ripeteva sempre e, per quanto evitasse il più possibile di pensare ai suoi genitori e ai luoghi comuni intrisi di saggezza popolare che le avevano propinato fino allo sfinimento, non poteva non riconoscere la profonda verità contenuta in quella frase. L’aveva fatta propria. Probabilmente era stata l’unica loro eredità che avesse accettato.
Nessuno l’aveva criticata per aver abbandonato il paese natio, appena seppelliti i suoi. Né per aver venduto la casa dove era nata e tutto quello che conteneva: mobili, libri, oggetti personali carichi di storia familiare. I suoi concittadini erano sempre pronti a dare consigli non richiesti, che erano in realtà velati giudizi maligni. Ma avevano trovato comprensibile il suo desiderio di fuggire da quel posto dove un pirata della strada, rimasto tuttora impunito, l’aveva privata degli unici affetti della sua vita solitaria. Per loro una nubile di trentasette anni era un’attempata zitella, cui non restava che accudire con dedizione i genitori. Lo avevano pensato anche quei vecchiacci egoisti dei suoi, mai abbastanza sazi della vita che lei si era lasciata succhiare, paralizzata da un intreccio di pochi ricordi felici, molto senso del dovere e troppa sfiducia in se stessa.
Invece qui a Milano era una giovane single, libera da obblighi e con infinite opportunità. Non era mai stata bella, per questo non aveva trovato un fidanzato al paese, ma aveva garbo, si vestiva con gusto e conosceva l’inglese. Dopo sei o sette colloqui aveva trovato un posto come commessa in una boutique del centro.
In realtà il primo incontro non era stato facile. Si era seduta senza appoggiarsi alla spalliera, rigida, arricciando di continuo le dita dei piedi, mentre l’esaminatore leggeva il suo curriculum.
“Do you speak English?” le aveva chiesto, senza alzare gli occhi dal foglio.
Aveva annaspato, in cerca di ossigeno e di coraggio, pensando di non farcela. Mentre stava per alzarsi e rinunciare, le era parso di vedere sua madre inarcare un sopracciglio e suo padre scuotere la testa.
“È una fortuna per la povera Elena che noi siamo ancora in buona salute.”
Sempre la stessa mimica e la stessa frase a ogni sua goffaggine, che le fosse caduta una pentola o che avesse inciampato in un gradino.
“Yes, I do. Fluently.”
Non aveva risposto all’uomo ma ai genitori e al loro scetticismo nelle sue possibilità.
“Quando hai fatto una cosa la prima volta, le successive sono molto più facili.” si era complimentata con se stessa dopo il colloquio.
Infatti agli incontri seguenti era stata molto più rilassata e al quarto tentativo le avevano assegnato il posto.
Mentre entrava nella boutique, pensò che era giunto il momento di tornare al paese per far vedere a tutti come la scialba, impacciata e triste Elena fosse diventata elegante, autonoma e determinata. In fondo era partita subito dopo il funerale, non aveva neppure visto la tomba dei suoi, si era limitata a commissionare la più costosa in assoluto, con sculture di angeli piangenti e aiuole fiorite.
Sorrise alla prima cliente, una giapponese con le gambe storte e il portafoglio pieno e decise che sarebbe andata il prossimo week end.

Elena girò stizzita intorno alla tomba dei genitori. Lei aveva dato disposizioni precise. Un’aiuola di begonie, adatta alla mezz’ombra, non di ortensie. Stupidi fiori né celesti né rosa.
Si guardò in giro, cercando il giardiniere.  Il cimitero era deserto, solo più in là si udiva un leggero tramestio. Guidata dal rumore trovò l’uomo poco lontano, intento a lavorare inginocchiato sull’orlo di una fossa scavata di fresco. La vanga era poggiata dietro di lui.
“Avevo detto begonie.”
Il giardiniere, colpito alla testa, crollò sul fondo della buca.
Elena pulì il manico della vanga con un lembo del cappotto e si sciacquò le mani alla fontanella del cimitero. Poi tornò alla tomba, dove i suoi genitori, persino nelle foto un po’ sfuocate, mantenevano il consueto sorrisino maligno.
Lo avevano perso solo nel vederla guidare verso di loro il trattore a tutta velocità. Aveva faticato un po’ a mettere i corpi in macchina, ma nemmeno più di tanto. Dopo cena aveva scaricato i cadaveri sulla strada provinciale, in un ansa buia dopo una curva, luogo di numerosi incidenti. Tutti sapevano che i suoi amavano fare una lunga passeggiata a piedi, nelle sere d’estate. Tornata a casa, il cuore che le si frantumava nelle orecchie, aveva parcheggiato la macchina in garage. La polizia l’aveva controllata, giusto per scrupolo, ma nessuno aveva pensato a guardare il trattore. Comunque non era stato semplice, non era riuscita a dormire finché l’inchiesta non era stata chiusa.
Stette qualche minuto in raccoglimento, le mani giunte e le palpebre socchiuse. Prima di andarsene gettò un’occhiata verso la fossa. Poi alzò le spalle.
“Quando hai fatto una cosa la prima volta, le successive sono molto più facili.” mormorò, chinandosi a baciare le foto dei genitori.