un’amica

In università conobbi una ragazza speciale. Mi colpì. Non ricordo perché cominciammo a parlare, prendere caffè insieme, fare qualche passeggiata per via Po.
Ricordo perché mi colpì.
A lezione, quando i docenti sentivano come si chiamava, la guardavano e le dicevano: Scusi, ma lei è mica la figlia di…?
E lei secca: No.
E invece lei era la figlia di…
Suo padre era un pezzo grosso di una importante case editrice, un intellettuale, anche; ma lei non voleva che si sapesse.
Son vent’anni che non la vedo.
La sento una volta all’anno, credo.
Parliamo, diciamo cose contro Berluscono e contro la sinistra, ridiamo, ci promettiamo di fissare un incontro, poi per mesi e mesi e mesi più nulla.
L’ultima volta mi ha detto.
Guarda, guadagno mille euro al mese, ho una macchina scassata e non me la passo proprio bene, ma almeno faccio quello che piace a me, la mia vita è questa.
Si occupa di cose d’arte, lei.
Ma il punto è un altro.
Mille euro, e ceti mesi non avere i soldi per pagare la bolletta, ma alzarsi al mattino e dire vado a lavorare, sorridendo.
Gran cosa no?
(Il peggio del peggio el peggio è guadagnare mille euro e lavorare nello stress).

Io, quando conobbi questa ragazza, ero un disoccupato.
Facevo lavori saltuari. Per esempio pulire soffitte o cantine. Mi ero appena licenziato dalla fabbrica. Contando i soldi che avevo da parte mi ero detto, Mi bastano per due anni di libertà.
Parenti e amici dissero: E’ impazzito.
Quella ragazza fu una delle poche che mi disse: Hai fatto bene. 
Per questo la sento ancora. 

Buona giornata
 

Segnalazione.
Su Blog & Nuovole è on line la prima storia.

Gian Renzo Morteo

Ho avuto la fortuna di conoscere un uomo che si chiamava Gian Renzo Morteo. E’ stato un mio docente di storia del teatro a Torino (Lettere, Palazzo Nuovo), se ho anche recitato lo devo a lui, è stata una persona che ho avuto il piacere di conoscere anche fuori dall’università.
Se qualcuno di voi ha quei librettini Einaudi della collana teatrale vedrà che diversi autori francesi (mi pare Artaud, mi pare Genet, di sicuro Ionesco, di sicuro La cantatrice calva) furono tradotti da Gian Renzo Morteo.
Che non era mai perentorio.
Non ricordo di averlo mai sentito definire un’opera o schifezza o capolavoro.
Una volta a lezione disse, Va bene che il teatro concede tutto, ma che Lea Massari (classe 1933) nell’Edipo Re sia la mamma di Vittorio Gassman (1922) mi lascia un po’ perplesso.
E’ difficile giudicare un’opera, sempre.
Decontestualizzarla.
Ci diceva.
Possiamo fare tante ipotesi, ma nessuno mai riuscirà a capire come mai Goethe definisse Goldoni un autore crudele.

Sapeva prendere la vita con ironia, Gian Renzo Morteo.
Ricordo quando andai a trovarlo in ospedale, era stato appena operato. (Avrei dovuto laurearmi con lui, non feci in tempo, ché se ne andò prima…).
Disse.
E’ pieno di suore, qui, sono talmente buone che il mio tumore lo chiamano ciste.
Disse anche.
Come è strana la vita. Ho visto qui, in ospedale, un mio vicino di casa. Sono vent’anni che ci incrociamo per le scale o in ascensore salutandoci, e basta. Qui invece ci siamo raccontati quel che non ci siamo detti in vent’anni.
A Morteo piacevano alcune citazioni.
Di Antoine.
Bisogna costringere gli spettatori a guardare uno spettacolo come si guarda dal buco di una serratura.
Poi ne ricordo una, che ripeteva sovente, ma non ricordo il nome del sociologo francese che la inventò.
Il primo uomo che disse che la donna è bella come un fiore fu un genio, il secondo un cretino.
Questa è perentoria, ma la condivido.
Specie quando penso al gregge.
(Credo che Torino debba molto a Gian Renzo Morteo; quando divenne direttore dello Stabile portò il teatro in periferia, nelle fabbriche, nelle scuole, in carcere. Un teatro didattico, semplice. Gli era caro il termine di fruizione. Far capire il messaggio. Partire da chi ti ascolta, altrimenti parli a te stesso. E’ da tempo che non mi occupo più di cose teatrali; ma so che molte compagnie nacquero dietro il suo impulso.
Il teatro è vita, la vita è teatro.
Già.
E buon lunedì

(Gli sono grato anche io: ché quando scrivo cerco di applicare il metodo Stanislavskij)

mah

questa nuova vita davanti al pc di sicuro ha costi altissimi.
e illusioni varie.
due tre mail, qualche commento scambiato, magari una chiacchierata usando messenger o skype e si diventa amici.
e pensiamo di conoscere quando invece, nella vita reale, non conosciamo nemmeno chi conosciamo da anni.
a volte da una vita.
comunque.
ho beccato un virus.
avevo un paio di antivirus, di quelli che si scaricano, senza pagare, che mi segnalavano queste presenze.
troian, che sembra una parolaccia.
però il computer, quello di casa, mio, vivacchiava.
venerdì vado al giornale e, mentre vado, vedo una cosa.
vetrina di una tabaccheria. pipe di schiuma bianca in offerta speciale: 70 euro.
dico: ah.
ah.
a luglio, quattordicesima in tasca, ne avevo presa una, senza badare a spese: 200 euro. in un’altra tabaccheria.
bene, vado a lavorare augurando emorroidi prurulente al tabaccaio che me l’aveva venduta a 200, assicurandami che mi aveva fatto uno sconto.
e comunque non era il caso di farne una tragedia, ma di pensare che quello era un segno premonitore, invece, era il caso.
vado al lavoro, dunque, e chiedo consiglio alla regazze che si occupano di informatica, al giornale.
mi consigliano un antivirus a pagamento.
bene dico, lo prendo.
lo prendo: 60 euro.
ci sta.
vado a casa. installo l’antivirus. mi dice che però, prima, devo disinstallare gli antivirus che ho nel pc.
eseguo.
come un coglione. eseguo come un coglione e senza pensare perché, oppalalà, il pc, appena disabilitati gli antivisur e in attesa del nuovo, è preda dei trojan, maledetti.
mi connetto, e cade la connessione.
accendo, e si spegne.
poi vedo cose strane.
messaggi strani, x rosse.
allora faccio il numero verde dei tipi dell’antivirus.
gentili, mi dicono che ho il pc infettato.
ma che forse, forse.
ma mandano per e-mail una ventina di cose da fare.
bene, prendo mezza giornata di ferie e passo così venerdì pomeriggio a installare programmi, inserire codici, tutto questo mentre il pc, ogni tanto, si spegneva, per cui dovevo ricomnicare.
alla fine ce l’ho fatta.
io che sono una chiavica ce l’ho fatta.
dieci ore.
evviva.
poi ho ripensato a quando ho iniziato a scrivere di notte.
anni ottanta.
olivetti, radio accesa, gatta che saliva e scendeva, radio che non si sentiva quando battevo sui tasti, fogli bianchi stropicciati sul tavolo, niente virus, e-mail, amici.
mah.

Ho ricevuto due mail stamattina.
due persone che mi hanno scritto dopo che hano letto del suicidio di Foster Wallace.
Qui un ricordo. 
E poi, avrei voluto segnalarlo ieri ma lo segnalo, oggi, ché va ancora bene.
Questa cosa qui, dal blog di Loredana Lipperini -a ma scritta da Monica Pepe -, è da leggere.
E’ l’italia di oggi. 
E buona domenica
(la mia è davanti al pc, che devo lavorare sul nuovo romanzo; a novembre, invece, esce il mio racconto Tamarri, su carta, per Historica, ma ne parlerò ancora. Insieme a Tamarri ci sarà qualcos’altro, di personale).

verrà la morte e

Giovedì ho parlato con due persone. Avranno avuto la mia età, lui qualche anno in più lei qualcuno in meno, ma sembravano molto più vecchi. Sembravano morti.
Quando perdi un figlio, all’improvviso come è stato per loro o poco a poco come succede, quel figlio, morendo, ti trascina nella tomba.
Non è lui, siamo noi, i nostri pensieri che diventano lui.
Quando eravamo piccoli, purtroppo, non ci hanno insegnato a sorridere alla morte. Che è l’unica certezza.
Mancano il dove e il quando.

Morena Fanti è apparsa in questo blog e ha partecipato a raccontiaquattromani.
La scorsa settimana ci siamo scritti.
Le ho detto: scusami ma non sapevo né che tu avessi un blog (quando lo so, io per cortesia, linko) né che tu avessi scritto un libro.

Di questo libro di Morena Fanti, Il dolore più grande, orfana di mia figlia, si parla nel blog del mio amico Massimo Maugeri.

Ci sarà sempre la morte nei miei libri
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne
anzi: vorrei che ci fosse maggiormente nei miei pensieri.
Pensarla serve: a non far morire il tempo.

Quando facevo l’università a Torino conobbi una ragazza. Sorrideva sempre. Io quasi mai. Una volta, era primavera, andammo a fare una passeggiata al parco del Valentino. Raccolse un firellino, di campo, me lo porse, mi disse, sempre sorridendo, senti come profuma?
Lo avvicinai, sentii poco, io.
Era malata, grave, e non lo diceva a nessuno. E dava esami, sorrideva, respirava a pieni polmoni ogni suo giorno e ci insegnava, a noi, che ci lamentavamo del cielo che era grigio e degli esami e di questo e di quest’altro.
Lei, che doveva fare flebo e che, le dicevano, non aveva futuro, sorrideva.
A volte – certe volte – bisogna tenerla lontana.

Perdere un figlio però è un’altra storia.
Non potevano sorridere i genitori di quel ragazzo morto, l’altro ieri, mentre mi raccontavano.
Non potevano e non potranno pensare ad altro.

il topo

MI addormento avvolto dal silenzio delle cinque di mattina, mi sveglio nel silenzio, ché son solo in casa, perché anche il cane e il gatto sono usciti.
Mi piace svegliarmi nel silenzio, solo.
Quasi assoluto. Magari sento un’auto che passa, o un bimbo che si lamenta o gioca.
Il caffè, la posta elettronica, la prima sigaretta o sigaro; poi, se non sono in ritardo e se il tempo è bello, un giro in bicicletta, mezz’ora almeno.
A Vercelli, in mezz’ora, si attraversa tutta la città; in una grande città, al massimo, si raggiunge una fermata dell’autobus.
Io mi dirigo verso il fiume, facendo tappa in un quartiere dove ho vissuto per anni. E il secondo caffè lo prendo in un bar dove c’è un continuo andirivieni di gente che gioca, s’interroga e discute sui numeri del lotto e sulle vincite all’enalotto.
Ho però un problema, io. Il cellulare. Sempre acceso. Di giorno, di notte, quando vado in ferie, quando sono in bicicletta.
Stamattina ha squillato, due volte. MI son fermato per sentire meglio, poi ho raggiunto il giornale che era tardi. Caffè, il terzo, posta su carta, posta elettronica.

Ieri sera, quando invece dal giornale sono uscito, era buio ed io ero l’ultimo, mentre prendevo la bicicletta ho visto una “cosa nera” attraversare il cortile e nascondersi sotto un’auto. Ho realizzato che non poteva essere che un topo (c’è una gatta che ogni tanto passa giornate e notti nel cortile della redzione, ma è grossa e tigrata, e non ha paura di me).
Allora, io non penso di essere un codardo. Anzi.
A vent’anni mi successe di calmare un tipo che dava in escandescenze e che non era troppo rassicurante, il tipo: perché urlava e tremava e mentre tremava in mano stringeva il manico di un coltellaccio a serramanico; io mi avvicinai, gli parlai, e stupendo anche me stesso, gli misi una mano sulla spalla.
E quello si chetò, dicendomi cose che ora non ricordo e che, mi pare, allora non capii.
Forse qualcuno l’aveva deriso, forse.
Ci ripenso spesso a quell’episodio. Forse non fui solo coraggioso, forse esagerai ma forse, e dico forse perché di anni ne son passati, era la prima volta che avevo a che fare con la mia depressione, ciclica, e quando sei depresso pensi male, pensi strano.
Un’altra volta, invece, ero a Torino, 1980 o giù di lì, vidi una rapina a mano armata finire male per i rapinatori, chè il gioielliere aveva sparato, ferito un malvivente che passò proprio davanti alla mia fiat 500 di terza mano che avevo allora, e quello aveva una pistola, mi guardò, andò via. MI voltai e vidi che chi guidava le altre auto, incolonnate e ferme, si era abbassato sentendo i colpi d’arma da fuoco e vedendo il tipo insanguinato correre in strada.
Io no, volevo vedere, non mi sfiorò minimamente l’idea che era un’imprudenza guardare in faccia una che aveva appena cercato di fare una rapina a mano armata.
Comunque: io l’altra sera del topo ho avuto paura. Depresso o no, i topi mi fanno paura da sempre (e mio padre, da sempre, mi prende in giro).

Scritto di corsa e non corretto, mangiando e, ora, fumando il toscano.
Vado a lavorare, ora, fino alle 22, 23.
Poi pizza, poi pc fino a domattina.

Poi.
Ogni tanto segnalo (volentieri) “cose” pubblicate da feaci.
Oggi volentieri tre volte: perché potete leggere qualcosa scritto da una “quattromanista” amica mia.

povertà

Fino a pochi mesi fa, mi piaceva andare a fare la spesa al supermercato.
Ogni tanto, lì, rivedo le ragazze della mia età, ma questo è un altro discorso…
Ogni tanto, lì, alle casse, si incontra la povertà.

Due, tre mesi fa.
Una signora arriva alla cassa, ha preso due o tre cose, Fa quattro euro e tot centesimi dice la cassiera, la signora guarda nel borsello, non vede bene, tira fuori tutta la moneta che ha, la mostra alla cassiera che, pazientemente, conta tutto quel che c’è nella mano tesa della signora anziana e poi, dopo aver contato, emette il verdetto, Mi spiace, non bastano.
La mano tesa della donna anziana, ora, non è più tesa, ma indecisa: deve scegliere, la mano, a cosa rinunciare, e fare in fretta; c’è gente coi carrelli pieni, che aspetta.

E avevo incontrato la povertà un anno, o due fa, e lo scrissi nell’altro blog. Una donna giovane, in pasticceria, che chiede, quante paste vengono con due euro?

E arrivano, al giornale, storie di povertà.
E’ passato tanto tempo…
Mi telefona una donna. Le voglio raccontare perché voglio che sappia, ma non potrà scrivere mai.
Ci vediamo.
Un bar. Non mi dice né come si chiama né dove vive.
Vuole solo raccontare.
Io conosco lei, ma lei non mi chieda chi sono, mi dice.
E mi racconta.
La storia di un’aziendina, condotta dal marito e che dà lavoro a un po’ di gente. Lui coordina, lei tiene la contabilità e gli fa da segretaria. Decidono di ingrandirsi. Con cautela. Ma chiedono un finanziamento. Succede quel che non deve succedere. Lui, improvvisamente, sta male; ha bisogno di cure, lunghe, di assistenza anche; e lei, da sola, non è in grado di mandare avanti l’azienda.
Poi succede che piove sul bagnato.
Un malessere anche del figlio che hanno, pare epilessia, poi forse no, ma intanto i debiti aumentano, le banche non fanno credito, e loro, dopo aver venduto tutto, hanno una strada obbligata: rivolgersi agli usurai.
La donna mi vuol parlare, sfogarsi. Non ha soldi per fare la spesa, non ha futuro. Mi diche che ha chiesto aiuto ad a e ad a.
Ce l’ha col mondo. Banche, partiti, amici, parenti.
Brancola. Tra rabbia, sfiducia, povertà.
Mi saluta.
(Mi ritelefonerà, tempo dopo, per raccontarmi che qualcosa, poco, è migliorato).

Al giornale, a un piccolo giornale di provincia, alla reception arrivano anche quelli che dicono d’essere poveri, alzano la voce, dicono che le assitenti sociali son delle merde e le case popolari e il lavoro vengono dati solo agli extracominitari eccetera, e che non è giusto, che faranno lo sciopero della fame e telefoneranno al Gabibbo, qualcuno di loro, per restare in tema, dice, Se scrivo un libro e racconto la mia vita di sicuro divento ricco, e ci fanno anche un film ci fanno.
Spesso chiedono dieci euro, spesso se ne vanno sbattendo la porta. A volte minacciano.
Hanno cellulari nuovi di zecca, fumano Marlboro.
Ma ci sono anche quelli che chiedono un colloquio privato: e raccontano.
Chissà chi era quella signora anziana che al supermercato ha dovuo restituire, perché non aveva soldi?
E la donna della pasticceria?
Non sono mai venute, loro.
Le riconoscerei: avevano gli stessi occhi.

Ci sono commenti interessanti nel post sugli scrittori stranieri d’oggi.

e buon lunedì

A proposito di scrittori italiani d’oggi.
Ieri, per una mezz’ora ho fatto di conto. E ho visto che, esattamente come un anno fa, i più citati sono Eco, Camilleri e Busi. Poi, appena più sotto, Ammaniti e Vassalli e Consolo e Tabucchi.
E, appena sotto (ma mi son perso a far di conto, quindi non sono affidabile) Lucarelli e Carofiglio.
(Mi vien da chiedere: Carlotto no?).
Ho pensato a chi abbiamo dimenticato. E mi sono venuti in mente due nomi. Aldo Nove e, soprattutto, Gianni Celati, che ho letto (e apprezzato) su consiglio di Zena (colfavoredellenebbie).
E chissà quanti non sono stati citati.
Silvana Grasso per esempio…
Sempre a proposito di autori contemporanei. Ad agosto ho letto Chiedi alle nuvole chi sono, di Giorgio Bona (Besa) e Mangiacuore di Francesca Bonafini (Fernandel).
Due libri diversi, soprattutto nello stile. Pià classico, quello di Bona, più tendente all’imitazione dal vero quello della Bonafini.
Due buone letture, comunque.

Allora.
E’ strano ma è così. Quando, nel vecchio blog, avevo cose da raccontare a fine sera vedevo sul contatore 100, 200 visitatori per grazia ricevuta. Oggi i visitatori sono aumentati ancora (ieri, domenica, quasi 1000) e io da raccontare penso di avere poco poco, ormai, qui. E nei blog collettivi dove figuro (La poesia e lo spirito e Cabaret Bisanzio) son mesi che non scrivo più una riga.
O mi invento qualcosa, oppure posto brani di poesie e di libri.

Poi.
Il racconto collettivo diventa un racconto interrotto: con l’ultimo contributo, che posto qui.
Non tutte le ciambelle riescono col finale.
Grazie a tutti quelli che hanno partecipato.

Poi c’ Facebook, ora. Dove sono approdati già diversi blogger. E su Facebook uno può mettere di tutto. Ci sono indicazioni, come libri letti, i migliori film visti, le citazioni preferite. A me son venute in mente queste:
… Più vivo di così non sarò mai (da una poesia di Penna)
Non bere e non fumare, morirai sano (proverbio cecoslovacco)
Non siamo gente che festeggia i compleanni, noi (mio padre, classe 1927)
Fa che tuo ogni giorno conti (un certo colonnello Possis, noto nel vercellese)
Avere paura non serve a non morire (Fatih Terim)

Son quelle che mi son venute in mente; da ragazzo me ne piaceva una di massima.
La parole che ti tieni dentro è tua schiava, la padrona che ti sfugge è tua padrona.
Ora no, da tempo me ne frego. Mi sento schiavo quando non dico o non posso dire.

Quella che invece mi piacerà sempre è questa:
Ogni fiore si sente un po’ rosa
ogni fiume si sente un po’Po.

da una poesia di Ernesto Ragazzoni (d’Orta).
Con dedica: a chi si prende troppo sul serio, dimenticando che alla fin fine…

e buon lunedì

PS Sto leggendo Inutile prudenza, di James Hadley Chase, noir Feltrinelli (8 euro). Un libro senza pretese, mi sembra, ma quando lo leggi ti prende e ti porta via. E’ già tanto.

E infine.
E’ uscito l’ultimo (cioè il secondo) numero di Blogtime
Altra segnalazione: un bel post su Consolo, dal blog Orasesta

autori stranieri… conosciuti

“E lei, come si chiama, già?”
(Così è la vita: ci sono i conosciuti e gli sconosciuti. I conosciuti ci tengono a farsi riconoscere, gli sconosciuti vorrebbero rimanere tali, e a tutti e due va male.)
“Malaussène,” dico, “Banjamin Malaussène”.
“Di Nizza?”
“Almeni di nome, sì”. 

da La fata carabina di Daniel Pennac, Feltrinelli.

Dagli italiani agli stranieri. Grandi autori d’oggi. Parlando degli italiani, ho visto che c’era interesse per questo argomento.
Scrivete quel che volete, i migliori cinque, i migliori tre, uno solo, dieci.
Ma forse forse quel che occorre è un perché?
Perché Saramago?
Perché La strada, perché Espiazione?
E i giallisti nordici?
E Qiu Xiaolong?
L’importante è cercare di incuriosire, far leggere cose buone, se possibile.
Un po’ di sano passaparola, in rete (così da non sprecare soldi quando si va in libreria).
E buona domenica.

PS Ho come il sospetto che il racconto collettivo sia destinato a fare una brutta fine.

Racconto a più mani: racconto interrotto

Gli impreparati alla vita, come Giulio. Anna, che di professione fa l’assistente sociale, ma se facesse altro, tipo rappresentante di tanga e ragazza cubo sarebbe meglio, mi ha detto: “Tina, cosa credi, guarda che Giulio ha quarantatré anni”. Quarantatré, ma come quarantatré, ne dimostra più di sessanta, pensavo io. Giulio ha dentro secoli, ma questo io non lo sapevo. Io volevo sapere chi fosse, ringraziarlo, per questo avevo chiesto di lui a quell’oca di Anna.
(remo bassini)
“Ha avuto un trauma, sai?” Aveva l’aria soddisfatta, mentre lo diceva. Appagata da questa sua diagnosi spicciola. Un trauma spiega tutto, no? Anche i serial killers ne hanno avuto di certo uno. E bello grosso. Ma Giulio non è un assassino. Non quel tipo di assassino, almeno.
(Gea Polonio)
Non uno che avesse scelto di ammazzare qualcuno insomma, ma uno che ci si era trovato perché la vita, chissà perché, ce lo aveva portato, proprio lì, in quella famiglia, in quella cucina, quella sera. Perché di un ragazzino sconvolto, che afferra il coltello della cucina e che, con un colpo solo, uccide il padre che da una vita ammazza di botte moglie e figli, tutto si può dire, ma non che sia un assassino.
(Elena del blog motivixalzarsialmattino.splinder.com/)
Dove fosse poi sparito per tutti quegli anni dopo l’Istituto, non era stato possibile saperlo con certezza, aveva detto Anna. Di sicuro si era comunque tenuto lontano dai guai, perché di lui non si era più saputo niente, e per una vita iniziata in quel modo, non era cosa da poco. Che poi avesse dentro tante altre vite, accumulate confusamente, una sopra l’altra, lo si capiva guardandolo negli occhi, per chi avesse avuto voglia di guardare negli occhi un uomo come Giulio. Uno che faceva del suo meglio per passare inosservato e che però, quella sera, nel parco, non aveva esitato a correre in mio aiuto.
(Elena del blog motivixalzarsialmattino.splinder.com/)
Anna non si era accorta dell’errore. Guardarlo negli occhi, aveva detto. Proprio a me.
Con le mani gli avevo toccato il volto quel giorno che mi raccolse da terra che avevo perso il bastone. Barcollavo senza riferimenti.
E che potevo saperne dei suoi quarantatré anni, dei suoi occhi da assassino, se le dita rimandavano al cervello rughe di cartapesta. Solo il tempo di accarezzarlo, solo un attimo, per capire a chi dire grazie.
Ma Giulio era già scappato via, ombra nell’ombra che mi avvolge.
(Silvia Leonardi)
C’erano le stelle. Me le raccontarono mentre mi riaccompagnavano a casa.
“Stiamo passando sotto Altair e Canis majoris”, mi dissero.
Sollevai la testa, come se davvero potessi guardarle. “Non le vedo ma le sento”, dissi.
Ma pensavo a Giulio e da quale stella fosse sceso lui. Ormai ne ero certa, Anna era una stronza.
Il mio cellulare squillò. “Scusa se sono scappato, proprio non potevo. Lei, hai capito chi, no? Lei mi pedina, mi perseguita”.
“Anna, vero?”
Silenzio.
“E allora basta, la facciamo finita. Una volta per tutte”.
(Enrico Gregori)
Quando Giulio arrivò a casa mia feci per stringergli la mano, ma afferrai una “cosa” freddissima.
“Vino – disse – una bottiglia. Tante volte ne avessi voglia mentre mi spieghi quello che hai in mente”.
“Tu non sei quello che sembri – attaccai subito – e non me ne frega di sapere la tua verità. So soltanto che Anna deve sparire, crepare deve. E tu…si tu, sai come fare. E non venirmi a dire che non hai mai ucciso nessuno, perché io non ci credo”.
Non potevo vedere la sua faccia mentre lui rideva, ma lo sentii sghignazzare.
“Cazzo c’è da ridere?”
“Anna mi ha chiesto di far fuori te, non è buffo?” 
(Enrico Gregori) 

 

La donna che parlava con i morti: pareri

Da tempo, una stroncatura su Anobii.
(di un’attenta lettrice, devo riconoscerlo)

Una commessa frustrata, ossessionata dal ricordo del padre anarchico, frequenta platonicamente un ispettore di polizia, vedovo e tutto dedito al culto della moglie morta. Quando l’uomo sparisce, la donna si dà da fare per rintracciarlo e, aiutata da un anziano carabiniere, cerca di capire che cosa attirasse il suo amico verso con una donna che si dice che parli coi morti. Il ricongiungimento avverrà ma forse l’ultima separazione sarà definitiva.
Di questo libro mi ha indisposto il turpiloquio costante ed artefatto, nel vano tentativo di infondere vita a dialoghi legnosi, ma anche la trama, fumosa e difficile da seguire. E poi ho provato un’antipatia immediata per la protagonista, a mio avviso troppo sopra le righe per essere credibile, così come poco credibile mi è suonata la conversione dell’inafferrabile vedovo, per tutto il libro più ritroso del casto Giuseppe, poi inopinatamente trasformatosi in tenero amante, quasi – è il caso di dirlo – in articulo mortis.

Per la verità non posso lamentarmi, ché soprattutto sulla carta stampata (Pulp, Queer, Repubblica, Famiglia Cristiana) ho avuto solo recensioni positive.
Così pure in rete, per esempio questa, che ho appena letto.

Nella triste storia di una commessa anarchica, con un fardello di orgoglio e ricordi impressionante, c’è parte di un’Italia che oggi non si ritrova più.
L’intera recensione.

racconto a più mani: nel mezzo del cammin

Gli impreparati alla vita, come Giulio. Anna, che di professione fa l’assistente sociale, ma se facesse altro, tipo rappresentante di tanga e ragazza cubo sarebbe meglio, mi ha detto: “Tina, cosa credi, guarda che Giulio ha quarantatré anni”. Quarantatré, ma come quarantatré, ne dimostra più di sessanta, pensavo io. Giulio ha dentro secoli, ma questo io non lo sapevo. Io volevo sapere chi fosse, ringraziarlo, per questo avevo chiesto di lui a quell’oca di Anna.
(incipit, mio)

”Ha avuto un trauma, sai?” Aveva l’aria soddisfatta, mentre lo diceva. Appagata da questa sua diagnosi spicciola. Un trauma spiega tutto, no? Anche i serial killers ne hanno avuto di certo uno. E bello grosso. Ma Giulio non è un assassino. Non quel tipo di assassino, almeno.
(Gea Polonio)

Non uno che avesse scelto di ammazzare qualcuno insomma, ma uno che ci si era trovato perché la vita, chissà perché, ce lo aveva portato, proprio lì, in quella famiglia, in quella cucina, quella sera. Perché di un ragazzino sconvolto, che afferra il coltello della cucina e che, con un colpo solo, uccide il padre che da una vita ammazza di botte moglie e figli, tutto si può dire, ma non che sia un assassino.
(Elena del blog motivixalzarsialmattino.splinder.com/)

Dove fosse poi sparito per tutti quegli anni dopo l’Istituto, non era stato possibile saperlo con certezza, aveva detto Anna. Di sicuro si era comunque tenuto lontano dai guai, perché di lui non si era più saputo niente, e per una vita iniziata in quel modo, non era cosa da poco. Che poi avesse dentro tante altre vite, accumulate confusamente, una sopra l’altra, lo si capiva guardandolo negli occhi, per chi avesse avuto voglia di guardare negli occhi un uomo come Giulio. Uno che faceva del suo meglio per passare inosservato e che però, quella sera, nel parco, non aveva esitato a correre in mio aiuto.
(Elena del blog motivixalzarsialmattino.splinder.com/)

Anna non si era accorta dell’errore. Guardarlo negli occhi, aveva detto. Proprio a me.
Con le mani gli avevo toccato il volto quel giorno che mi raccolse da terra che avevo perso il bastone. Barcollavo senza riferimenti.
E che potevo saperne dei suoi quarantatré anni, dei suoi occhi da assassino, se le dita rimandavano al cervello rughe di cartapesta. Solo il tempo di accarezzarlo, solo un attimo, per capire a chi dire grazie.
Ma Giulio era già scappato via, ombra nell’ombra che mi avvolge.
(Silvia Leonardi)

C’erano le stelle. Me le raccontarono mentre mi riaccompagnavano a casa.
“Stiamo passando sotto Altair e Canis majoris”, mi dissero.
Sollevai la testa, come se davvero potessi guardarle. “Non le vedo ma le sento”, dissi.
Ma pensavo a Giulio e da quale stella fosse sceso lui. Ormai ne ero certa, Anna era una stronza.
Il mio cellulare squillò. “Scusa se sono scappato, proprio non potevo. Lei, hai capito chi, no? Lei mi pedina, mi perseguita”.
“Anna, vero?”
Silenzio.
“E allora basta, la facciamo finita. Una volta per tutte”.
(Enrico Gregori)

Si procede, siamo a metà.
Ci sono incongruenze? Quando si scrive succede. Quindi facciamo così: i prossimi contributi (ancora sei) possono (tanto per incasinarmi la vita) proporre anche degli editing ai contributi procedenti, affinché tutto fili (e finisca).
Chi vuole inviare un propro contributo, la mail è la solita
raccontiaquattromani@gmail.com.
fino a domenica a mezzogiorno; poi da mezzogiorno a mezzanotte si vota.

Sui cinque scrittori d’oggi da segnalare: lascio aperta la discussione, forse ci sono nomi non ancora citati.

scrittori d’oggi: i migliori cinque

Sul vecchio blog proposi una discussione, che si fece anche animata:
Tre autori d’oggi: da segnalare.
Lo feci perché, puntualmente, mi capita di ri-leggere che i contemporanei son da buttare via, meglio i classici.
Io sono combattuto.
Quando vedo affermazioni perentorie di questo tipo penso quattro cose cose quattro:
uno, che per fare un’affermaziione del genere bisognerebbe conoscere almeno cento autori contemporanei italiani;
due, che però in fondo in fondo non è del tutto sbagliata l’oservazione dal momento che io, periodicamente, se voglio concedermi una lettura purificante ricorro a Céline o Fitzgerald Scott o Chandler o Pratolini, Fenoglio, Calvino, Pavese eccetera;
tre, penso anche che il discorso “i contemporanei son tutti da buttare a mare” è un discorso ricorrente; Pietro Pancrazi, noto critico cortonese (mi pare che Laterza stia ristampando alcune cose sue), tra il 1930 e il 1940 diceva: gli scrittori d’oggi stanno mandando a rotoli la buona letteratura;
quattro, che se vado su Anobii mi vien voglia, spesso, di dare ragione a chi rimpiange. La settimana scorsa ho visto che qualche utente ha dato 4 stelle a certi contemporanei che scrivono cose molto commerciali e 2 stelle (che equivale al Così così) a Vittorini.

Insomma, io alla fin fine penso che i contemporanei non sanno giudicare i contemporanei.
e che il discorso sugli scrittori d’oggi ha più valenze psicologiche che oggettive.

Comunque, il gioco dei tre migliori contemporanei, sul vecchio blog (27 gennaio 2007) dava questo risultato.
Mi piacerebbe riproporre quel gioco, chiedendo di indicarne una cinquina di contemporanei.
Con variazioni sul tema.

Faccio poi una pubblica confessione, che non mi fa certo onore, ma tant’è.
Per quanti anni ho mandato manoscritti senza ricevere risposta oppure ricevendo la solita risposta prestampata (la ringraziamo per essersi rivolto a noi, MA quanto ci ha proposto, benché abbia… eccetera, NON rientra nella nostra linea editoriale).
Per forza pensavo, pubblicate solo robaccia.
Meglio i classici, pensavo.
Oggi in quella robaccia ci sarei anche io.

e buona giornata

Racconto a più mani: i contributi son cinque, adesso

Segnalazioni (in ritardo lo, in questi giorni faccio tutto in fretta e male):
– Laura e Lory propongono Letteriadi 2008.
– Giorgio Sannino segnala Belle bandiere.

(stamattina tanto per dire. Caffè, posta elettronica, prima sigaretta, esco, arrivo in strada, torno indietro ché, come sempre, ho dimenticato il cellulare, intando sgrido il cane che ho beccato mentre aggrediva il gatto, poi chiamo il gatto che per dieci minuti fa avanti e indietro, casa cortile cortile casa, quindi,vedo che si è deciso, evviva, cortile, esco di nuovo, cerco la bicicletta, penso me l’abbiano rubata, telefono, chiedo ma dove cavolo è la mia bicicletta, intanto esco di nuovo per strada e vedo la bicicletta, che avevo appoggiato io al muro quando mi ero accorto del telefono mancante, e mentre pedalo penso a un nome che non ricordo, e mi girano le scatole quando non ricordo un nome, così arrivo al giornale, ed è passata più di un’ora dal risveglio, sono in ritardo, caffè, seconda sigaretta, riunione, vedo che nella pausa panino devo rispondere a dieci mail circa, penso, mentro rispondo e mangio il panino, a poster di Claudio Baglioni, e andareee, lontanooo…).