vedere una pianta

Se nei precedenti post ho dato l’impressione di essere uno che è stato morso da una taranatola dico che mi spiace: per quanto riguarda il mio essere scrittore non covo, in questo momento, né rabbie né rancori.
Nel 2009 esce un mio nuovo libro. Spero vada bene; non dovesse andare pazienza, se dieci anni fa mi avessero detto che avrei pubblicato cinque romanzi non ci avrei creduto.
Se potrò continuare a scrivere bene: e non mi frega un fico secco – giuro – di pubblicare con mondadorifeltrinellilonganesi.
Poi certo: certe insoddisfazioni restano.
Ma la vita non è fatta solo di libri.

Qui però io o racconto storie o parlo di ibri e di editoria, a ruota libera.
E cerci di dire quel che penso, punto primo, e cerco anche di allontanarmi dai problemi quotidiani.

I libri, le maledizioni che si lanciano contro le case editrici, le lunghe discussioni che sembrano le stesse identiche discussioni che fanno i tifosi delle squadre di calcio.
Tondelli è un brocco.
Sarà bravo Coelho, sarà.

Scrivo di libri, a volte, per non pensare.
Io due mesi, forse tre, avrei scritto questa cosa qua.

Sono appena uscito. Sto guardando il cielo, ora una pianta. Sto guardando le foglie. Sto respirando. Sono vivo.
Sono uscito da un reparto ospedaliero dove si respira la morte.
La si attende.
Nella penombra delle camere c’è il silenzio dell’attesa della morte.
E del pianto.
Ci sono figli che che assistono madri.
Padri che assistono figlie.
C’è una dottoressa che mi ha ricevuto. Abbiamo parlato di alcune cose che volevo sapere. Mi occupo di cose sanitarie, io.
Lei mi risponde gentile, e mi sorride anche.
Io, mentre lei mi parla, faccio fatica a seguirla, perché la rivedo: pochi minuti fa entrava ed usciva da quelle stanze dove si attende la morte. Faceva piano, diceva qualcosa ai parenti. Poi se ne andava, lasciandoli con gli occhi bassi, a cercare chissà cosa nel pavimento.
Ora sono fuori, io.
Fermo, davanti a questa pianta. Non fossi stato lì dentro non ci farei caso a lei.
Penso che è bello guardare una pianta.
Che è importante.
Penso che certi pensieri fanno solo male a pensarli.
Ma se non si pensasse alla morte, almeno ogni tanto, riusciremmo a vedere, ma per davvero, una pianta?

Buona giornata (e scusate)

La canzone del giorno, che c’entra niente col post.
Di Gianmaria Testa, capostazione di Cuneo. Amico dei miei amici della Banda Osiris.
Come le onde sul mar

ah

Il mio vecchio, 81 anni fatti a giugno, è più tamarro di quel che immaginassi.
Forse peggiora.
Dunque, tanto a Follonica, dove è andato in ferie, quanto a Vercelli, dove vive, ha fatto il tamarro al supermercato.
E’ successo questo, due volte, stesso film.
Il mio vecchio fa la spesa, e carica il carrello.
Ha un modo tutto suo di fare la spesa, lui. Per esempio, essendo pratico di macellazione, quando va al banco delle carni indica un pezzo e dice: Mi dia quel pezzo lì.
E non accetta consigli.
A Follonica e a Vercelli è successo questo. Finito – meglio: quasi finito – di fare la spesa, il mio vecchio si avvicina alla cassa e chiede dov’è il tal prodotto.
La cassiera non ha tempo e non lo sa.
Lui dice, Ah.
Lascia il carrello pieno di roba e se ne va, e magari la cassiera gli dice, Mi scusi, ma ha lasciato tutta la roba nel carrello, e lei non ha fatto la spesa.
Non ho tempo, dice lui.
(Per la verità questo è successo a Follonica; a Vercelli invece ha lasciato il carrello pieno alla cassa perché quando stava pagando si è accorto che un prendi tre e paghi due era un prendi tre e paghi tre.
Ma non era un tre per due? ha chiesto alla cassiera.
Sì, ma l’offerta è finita, dobbiamo ancora togliere il cartello con l’offerta dagli scaffali).
Ora, mica ha tutti i torti, lui.

Io per esempio odio gli aeroporti.
Mi sento scemo, non so dove andare, e non c’è nessuno che ti dia informazioni, han tutti fretta, e poi gli aeroporti sono terribili: non si può fumare e son pieni di gente che ti sembra che parli da sola e invece parla con qualcuno al cellulare, camminando… come i pazzi.

Tra “energia per il tuo….” e l’offerta i microspie stamattina trovo una mail.
Una ragazza. Ha scritto dei racconti.Candidamente mi chiede: a chi posso mandarli, va bene Mondadori?
A me sta cosa non fa ridere.
A me sta sul gozzo chi fa quello che sa.
Traduco. Se una ragazza o chiunque mi chiedono consigli o informazioni io penso che magari… è la prima volta che prendono l’aereo.
E penso che anche Umberto Eco dovrebbe fare così: dare consigli.
(E invece il mondo è pieno di mezze calzette che non ammettono certe lacune: provassero, loro, a scrivere e, al contempo, far certi lavori che dico io…).
Se invece mi arriva una richiesta perentoria, e me ne arrivano, leggimi, penso che devo difendere anche il mio tempo.
Pochi mesi fa un ragazzo mi ha lavorato ai fianchi.
Ogni giorno una mail.
Sono disperato, tu invece…
E io: pensi che sono Lucarelli, io?
Ti prego, leggi il mio manoscritto.
E io: sono mica Mozzi, io, mandalo a Vibrisse.
E lui, no, io voglio sapere cosa ne pensi tu, ti pago.
Uno, due, dieci giorni.
Alla fine gli dico. Mandami il primo capitolo.
Lui, grazie, ma mi raccomando, dimmi quello che pensi.
Era orribile.
Gli scrissi che non solo non filava, ma che era pieno di errori, di grammatica e di sintassi.
Non mi ha scritto più.
(Però sulle cose che ho ricevuto ci torno: anche solo per dire che mica le capisco certe scelte editoriali).
E buona giornata

(Son partito da mio padre ma mica lo sapevo che tappe avrei fatto, poi).
(E non ho tempo di rileggere, scusate).

No, un’altra cosa. Io penso che in rete, in particolare, ci sia una proliferazione di sapientoni.
Esempio.
Un sito letteraio, anni fa.
Un tale mi scrive e mi chiede consigli su autori che scrivano che racconti.
Mi dice: Non mi piacciono e quindi non ne ho letti, mai.
Io gli consiglio due autori completamente diversi: Carver e Piero Chiara (preferisco Chiara, io).
Dopo un po’ di giorni, stesso sito, altra discussione, leggo che una persona scrive: Non ho mai letto nulla di Carver.
E quello a cui io l’ho consigliato da pochi giorni, inorridito, scrive:
Non hai letto Carver? Ma come si fa?
Ah, ho pensato.

Dimenticavo. Son contento di conoscre alcuni scrittori e alcuni scrittrici disponibili con il prossimo.
Dovrei fare alcuni nomi, ne faccio uno: Marco Salvador.
Lo conobbi che avevo scritto, ma non avevo ancora pubblicato.
Lui, se non sbaglio, era stato per diverso tempo in classifica tra i più venduti (mi pare con il romanzo storico Il longobardo, della Piemme).
Ma non faceva il grande scrittore, lui. Anzi.
E ho in mente, ora, almeno tre scrittrici, gentili e disponibili col prossimo. Non solo: anche valide.
La leggenda che chi scrive deve essere anche un po’ stronzo è una leggenda.
(G. ricordi quando ti dissi? Vai tu da De André, ho paura che sia uno stronzo.
Tu ci sei andata, lo hai conosciuto, mi hai portato il suo autografo e mi hai detto: è timidissimo, è un grande).

dalla fabbrica all’editoria

Quando a vent’anni andai a lavorare in fabbrica la fabbrica mi fece ricordare alcune cose.
Un ricordo tira l’altro, ora.
Presente a scuola il compagno che sorride a ogni minchiata che dice l’insegnante e che annuisce sempre e che dice buongiorno signor professore più forte degli altri dimodoche lui senta?
Due miei zii col cappello in mano in un fattoria toscana che aspettano l’arrivo del padrone; lui arriva in moto, faccia scazzata, loro con un sorriso da coglioni stampato in faccia, ché al padrone davanti si sorride e dietro gli si dice… di tutto.
Ecco la fabbrica.
In fabbrica ci sono i capi.
E una buona fetta di capi fa così.
Non dà confidenza al popolo lavoratore (a meno che tra il popolo lavoratore non ci sia qualche ragazza particolarmente carina).
Però quando si vedono tra loro, i capi in fabbrica, cambiano espressione del viso e tono di voce e trovano interessante quel che uno dice all’altro.
Per non parlare se, per caso,in mezzo a loro arriva un dirigente.
Di sicuro dice cose interessantissime e di sicuro è un simpaticone.
Basta che dica, Che figa quella, e tutti giù a ridere.
Su Face in questi giorni c’è tutto un gran parlare d scrittori che se la tirano o meno.

Non so perché ma m’è venuta in mente la fabbrica.
Oddio una grande differenza c’è.
Una volta, almeno, in fabbrica c’era una cosa chiamata solidarietà.
Io feci fare due giorni di sciopero (feci fare è cosa giusta: ero rappresentante di fabbrica) perché c’erano stati due licenziamenti che potevano starci: di due persone anziane che non superarono i 12 giorni di prova. 
La solidarietà tra scrittori a volte c’è: certo, tra gli affermati.
O tra gli sfigati.
Però è successo anche a me.
Qualcuno mi ha accusato: Sei cambiato.
E io a negare.
Certo, è da tempo che non leggo più manoscritti altrui. Che do risposte lampo o che mi dimentico, certi giorni, di rispondere alle mail.
Ma dipende dal carico di lavoro che ho al giornale; certi giorni è pesante, certi giorni sogno di lavorare in un’impresa di pulizie.
Ma sulla scrittura avrò sempre un atteggiamento, come dire, cauto.
Ho fatto fatica a definirmi scrittore per tanto tempo (ché mi veniva da ridere, giuro).
La cautela, però, deriva da altro.
Quando vedo uno scrittore trombone penso che magari in quello stesso luogo ci può essere un altro scrittore di cui nessuno sa perché non ha mai pubblicato e che magari è un bravo scrittore.
E mi fa una certa impressione quando vedo scrittori affermati che si fan complimenti a vicenda.
(Gli uomini soprattutto, son peggio).
Poi, certo, ho anche io le mie paturnie, mica sono un santo, io.
Buona domenica

Una canzone, in tema. 

king e Gramsci: siamo anche ciò che leggiamo?

Mah, questa settimana avrò iniziato quattro libri. Poche pagine e poi accantonati.
Basta una frase che a me sembra così così e li accantono. Più che altro si tratta di libri scritti da autori contemporanei. Quotati.
Così ieri sera volevo leggere Oz, che non tradisce mai. O un classico qualsiai. Invece mi son messo a rileggere La strada, di McCarthy. Quelle frasi così secche, precise. E le virgole, a dettare il ritmo.
Una grande scrittura (e traduzione).
Stamattina, invece, mi sono fatto un piano di lettura.
Allora, ci son manoscritti e racconti di gente che conosco che prima o poi devo leggere, e lo farò (spero). Ma la lettura vera è quella che si sceglie (per questo non ho detto mai a nessuno leggi unmio libro; anche quando lo regalo, dico leggi quando vuoi; è una sorta di immedesimazione) in libertà assoluta.
Per affinità o altro. Intuito.
A me piace comprare libri sconosciuti, annusati: si legge qualche pagina e si rischia (visti i prezzi).
Comunque stamattina, dopo caffè, sigaretta, caffè e prima di andare in redazione (dove son ora ora, inpausa panino-sigaro) sono andato prima in cantina e poi in libreria.
In cantina volevo trovare qualcosa di Gramsci, letto e sedici anni, riletto durante le (indimenticabili) lezioni dello storico Corrado Vivanti, a Torino. Non ho fatto in tempo a cercare Gramsci relegato con Trotzki e Marx in un baule, il gatto mi ha fatto perdere tempo, torno domani.
In libreria sono andato a colpo sicuro.
Due libri (28 euro).
Uomini che odiano le donne, di Stieg Larsson (anche dopo aver letto questa recensione).
E Dolores Claiborne, di King.
Partirò da questo, stasera. E’ stata Biancamara a convincermi.
Avevo detto, a Biancamara: Ne ho iniziati tre o quattro di King, e poi non li ho finiti (una volta non l’avrei mai fatto; finivo sempre).
Lei mi ha detto, Non hai letto quelli giusti. E mi ha suggerito tre titoli.
Dolores Claiborne, dunque, stasera. E domani anche Gramsci. Certo, ci azzeccano niente, ma tant’è.
Sto leggendo anche un manuale sulle virtù salutari dell’argilla.

Ma… siamo anche ciò che leggiamo?

Buon sabato
(e speriamo che la Fiorentina, stasera, non mi tradisca).
(Di King ho finito solo, si impiega un’ora, Colorado King: ma i suoi estimatori, e ne ha di estimatori che… io stimo, per esempio Barbara Garlaschelli, i suoi estimatori, dicevo, m’han detto che non vale).

non solo corna

Alla giornalista il direttore chiese di scrivere qualcosa di diverso.
Lei disse. Gli investigatori privati.
Lui disse. Gli investigatori privati, embè?
Lei disse. Gli investigatori privati campano e come campano in una piccola città come la nostra?
Lui disse. Fai.
Così lei, prima mossa, cercò sulle pagine gialle. Poi chiese ai carabinieri. Poi contattò tutti gli investigatori privati della città.
Si fecero intervistare tutti.
Parlarono tutti, raccontando.
Uno di loro, per anni, aveva fatto pubblicità allo stadio di calcio. Allo stadio di calcio, tra il primo e il secondo tempo, l’altoparlante diceva:
Voi siete qui, ma sapete dov’è vostra moglie? Investigazioni….
Tutti confermarono: che gli investigatori lavorano soprattutto su questioni di corna.
(La giornalista si ricordò un racconto, di suo zio: Credo che mia moglie si sia rincoglionita, è diventata gelosissima, e io, guarda sbaglierò, ma vedo sempre un tipo che mi segue, ha l’impermiabile e vede che lo guardo apre il giornale e legge. Se tua zia sciupa i soldi con quel coglione…).
Un intervistato però, alla giornalista, disse, Ah no, io lavoro anche e soprattutto per le aziende. Senza precisare, poi, cosa volesse dire quella frase.
Comunque si fece fotografare. Bella espressione, sorridente. Una bella foto su due colonne a pagina dieci, il giorno dopo.
Titolo dell’articolo. Investigatori privati di provincia.
Sotto titolo: Non solo corna… eccetera.

Pomeriggio dello stesso giorno, in una fabbrica della città.
Son giorni che gli operai si interrogano su un tecnico, che gira, fa controlli, prende appunti, non parla con nessuno. E’ un esterno, venuto a fare chissà cosa. Magari un consulente per la sicurezza. E comunque: cazzi della direzione.
Improvvisamente il tipo, tutto concentrato a lavorare, sente una risata. Poi due, poi tre, poi diffusa.

Alza gli occhi, si sente osservato. Da gente che guarda lui e guarda il giornale dove, pagina 10, c’è la foto di un investigatore privato che dice di lavorare anche per le aziende e che gli somiglia tantissimo.
Lo spettacolo è finito, dice un dirigente dell’azienda che prende sottobraccio il tecnico, si fa per dire, e lo allontana dagli schiamazzi (ché in fabbrica quando si schiamazza si schiamazza alla grande).

C’è chi dice che ora lavori solo sull’infedeltà coniugale.
C’è chi dice che non faccia più nemmeno quello.


scrivere in fretta

Ho scritto un libro, Lo scommettitore, in 18 giorni. Anzi, 18 notti.
Dalle 11 di sera fino alle 5 del mattino.
Ma non era un libro, era la traccia di un libro. Non mi interessava né la forma né la grammatica, dovevo solo andare in fretta perché avevo la storia in testa e temevo mi scappasse.
Poi, quel libro, l’ho rivisto una ventina di volte nell’arco di cinque, sei mesi. E infine, lo rilessi almeno tre, quattro volte quando ci fu l’editing.
Ho appena terminato un libro, il mio quinto romanzo, Bastardo posto, che uscirà per la Newton Compton (per la prima volta esco con la stessa casa editrice).
Ho impiegato due quasi tre mesi a scrivere il primo capitolo; son cinque capitoli, cinque notti.
Poi c’è la scrittura giornalistica.
Tremila battute in trenta, quaranta minuti. Si scrive in fretta, nei giornali. Ci sono alcuni che dicono Si vede, ché i giornali sono scritti male.
Mi ripeto. Vorrei vederli certi scrittori o certi sapientoni scrivere un pezzo alle dieci di sera dopo aver rincorso notizie tutto il giorno; con la voglia di una doccia, e di un piatto di pasta.
Però almeno la scrittura giornalistica ha una sorta di editing.
Il tuo caposervizio “passa” il pezzo, insomma rilegge; e magari corregge.
Poi c’è il blog.
Io certi giorni accendo, poi scrivo la prima cosa che mi viene in mente e non correggo e non rileggo, ché ho altro da fare.
(Poi, e succede spesso, qualcuno mi inoltra una mail o spedisce un sms, guarda che hai scritto Francesco anziché Giuseppe).
Il post di ieri, per esempio.
Ho dimenticato di dire una cosa, una cosa importante.
Quell’uomo aveva la faccia di un uomo sconfitto dalla vita.
Si sentiva stupido. Per aver sciupato il tempo ad amare una donna che credeva diversa. Per aver trovato un’alternativa di cui, io così ho percepito mentre lui mi diceva, un po’ si vergognava.
Non ho un bel ricordo di quell’uomo.
Provai pena, ne provo ancora ripensandoci.
Tutto qui.
Succede di non dire cose importanti quando si scrive in fretta.

Pensa succeda a tutti. Ricordarsi di una vecchia canzone, all’improvviso.
Mamma giustizia, dei (vecchi) Nomadi.

un incontro

Il ricordo è impreciso, ché ne son passati di anni.
Lavoravo in fabbrica e studiavo, e dal momento che mi ritenevo un intenditore di calcio (e mi ritengo) giocavo la schedina, tutta le settimane, stesso bar (ho fatto solo qualche 12, guadagnando spiccioli), così mi concedevo un’ora di pausa con aperitivo e, al tempo stesso, speravo di vincere ma mica tanto: quel tanto che potesse farmi proseguire gli studi senza dovermi alzare alle 5 del mattino.
Dunque.
Gioco la schedina, sono al tavolino.
Mi si avvicina un tipo, abbastanza elegante ma trasandato. Ha un bicchi

ere di vino bianco in mano, ha voglia di attaccare bottone. E io son combattuto.
Ho poco tempo ma, al tempo stesso, mi piace ascoltare storie di sfiga, e quello la sfiga ce l’aveva stampata sul volto.
Faccia da perdente.
Guardo l’ora, è tardi, non sto a sentire quel che mi dice; gli sorrido, ma poi guardo la “mia” schedina, facendogli intendere che devo pensare.
1, x, 2.
Finisco di giocare e vedo che quello, emminchia, viene verso di me. Ho intravisto, prima giocando, che  continuava a bere.
Mi fa, Scusi?
Prego?, dico io.
Mi darebbe un passaggio in macchina, sto a…
Dico di sì, mai negato una sigaretta o un passaggio in macchina (non sempre sempre, è chiaro).
Certo che sì, aveva bisogno di un passaggio. E di raccontare, anche.
Si presenta.
E’ un dirigente d’azienda.
Di una determinata azienda.
Ah.
Poi (qui sono impreciso), sebbene io non gli domandi nulla, mi racconta una cosa di molto privato.
Che ora ri-racconto, pensando a chi ha scritto che vivere con una persona che mente è la cosa peggiore, perché questa persona ti fa perdere tempo…
Mi racconta, il tipo, d’essere stato sposato per anni e anni con una donna che amava tanto e che credeva per bene ma che una sera l’aveva tradito: nel suo stesso letto e, cosa classica, con un amico e collega di lavoro, un donnaiolo, mi racconta il tipo, che comunque diceva, come tanti donnaioli: Vado con tutte ma mai e poi mai andrei con la donna di un mio amico.
Infatti.
Ma il tipo mi dice: Ho sciupato la mia vita, pensavo che lei fosse un angelo (o qualcosa del genere).
Poi succede una cosa che ha dell’incredibile.
Mi fa: Così l’ho lasciata, sono andato in un night e adesso vivo con una che è libera di andare a letto con chi vuole, vuoi salire?, ne vuoi approfittare?
Mentre mi chiede siamo arrivati a casa sua. Vedo che non ha mentito: Davanti all’uscio c’è una donna, penso sia del centro america, che ci guarda.
Non so perché ma ho la netta sensazione che sappia cosa mi stia proponendo il tipo, ed è seria.
Dico no grazie, e lo saluto.

tradimenti… non si sa come

Ho tradito e sono stata tradita, mi ha scritto, tempo fa (parecchio tempo fa) un’amica mia.
Non le chiesi nulla, poi.
Cosa si prova a tradire, cosa si prova a scoprire d’essere stati traditi.
Si può chiedere, certo, ottenere risposte e non risposte ché, tanto, siam fatti diversi.
C’è chi urla, chi aspetta che passino le burrasche. Tanto.
E siamo pieni di luoghi comuni.
Gli uomini sono.
Le donne sono.
Frasi fatte figlie delle nostre esperienze, di una società ancorata, fortemente, al maschilismo.

Un paio di mesi fa, ero in birreria.
Quattro ragazzi a un tavolo, vicino al mio, anzi attaccato al mio. Incuranti del fatto che fossimo quasi a gomito a gomito, tre interrogavano il maschio del gruppo. Ma come te la sei fatta? Che troia.
(Nome e cognome della ragazza, naturalmente).
E siamo nel 2008.
Quando avevo vent’anni, nell’anno del signore 1976 dunque, per la prima volta, da un siciliano, sentii dire la frase che L’uomo è cacciatore.

Giorni fa ho cestinato una lettera, di un novantenne (piemontese). Mi scrive spesso. Lettere anche intelligenti.
Stavolta, avendo letto non so che cosa, a proposito della violenza carnale ai danni di una donna, ha, più o meno, scritto così: Dal momento che non è facile, perché l’organo della donna eccetera eccetera, c’è da supporre che molto spesso la donna sia d’accordo.
Cestinata (la lettera).

Tradire già.
Di Tradimenti di Pinter, ho sentito parlare giorni fa.
Ma resto alla vita del giornale.
E torno indietro, nel tempo.

Un mio collega va a seguire un piccolo processo. Scrive il pezzo, divertito. Un tipo va al fiume con una prostituta e in pieno giorno, in mezzo a pescatori e ragazzini, dà spettacolo.
Lo fanno in macchina, ma con le portiere aperte.
Il processo (non ricordo il capo d’imputazione) si svolse a porte aperte, quindi sul giornale uscì tutto: il resoconto, e il nome e il cognome.
Quando la notizia fu pubblicata il tipo telefonò, indignato.
MI avete rovinato.
Frase giusta.
I giornali, spesso, soprattutto in passato, mettevano in piazza i panni soprattutto dei soggetti meno tutelati (ancora oggi, per la verità).
Comunque, quel mi avete rovinato aveva una spiegazione.
Cazzo, mi sono spostato da poco, mia moglie ha avuto una crisi di nervi quando ha letto il giornale, cosa le racconto?

(Oppure: Grazie B).
Il marito di Ginny è scappato con una portoricana che si radeva in mezzo alle gambe. E’ una cosa risaputa da tutti, altrimenti non la racconterei. Quando Ginny venne a sapere che andava in giro con quella ragazza, pensò bene di raderseli anche lei, i peli in mezzoalla gambe, nella speranza di riconquistarlo, ma lui si disgustò e voltò pagina. Gli uomini, man mano che invecchiano, si rincoglioniscono per donne sempre più incredibili
… da Enormi cambiamenti all’ultimo momento, di Grace Palej, Einaudi.

Io comunque credo, convinzione spicciola ma tant’è, che il tradimento sia anche figlio del caso: E che non ci siano grandi differenze tra uomini e donne.
Negli ambienti semplici si tradisce di meno, si è soliti dire.
Non lo so. Che nel mondo dello spettacolo e dell’arte, per esempio, ci sia una “maggior movimentazione” forse è dovuto al fatto che si sa, e che si dice.
(In un testo di storia del movimento operaio, mi pare del Merli, lessi che a cavallo tra Ottocento e Novecento c’era un alto numero di delitti d’onore che vedevano imputati i panettieri: a volte di notte tornavano a casa di nascosto, oppure avevano saputo).
Più facile raccontare storie che concludere.
Certo, posso dire che non mi piace chi tradisce e ancor meno mi piace chi mente.
E che mi piace molto un’opera di Pirandello: Non si sa come.
Non si sa come… già.
Piuttosto (altro ricordo): alcuni sociologi, cone Ian Robertson (uno dei due, tre sociologi che ho letto) affermano che si possono amare due persone contemporaneamente.
Ognuno ha una risposta, che ha due direttrici, credo: la risposta dettata dall’istinto (forse sì) e quella dettata dalla paura (non vorrei mai che lui-lei…).
E la sintesi non è per niente facile.

Buona giornata.

non vorrei dire, però

Sto mangiando. Mi trovo in città di mare, di passaggio, dopo essere stato in un’altra città di mare.
Cucina indiana. Sono in un angolo, angolo sinistro, parete sinistra, vedo tutta la sala, che è semideserta; in diagonale, angolo destro, parete opposta, in fondo, c’è una coppia.
Lui è girato di spalle, è un gigante; che stia mangiando e bevendo lo si intuisce da come muove e braccia. Lei, carina (di fronte a luie di fronte pure a me), è sui 35-40, mangia e, tra un boccone e l’altro, gli sorride, col viso inclinato (e io quando al ristorante vedo qualcuno con il viso inclinato mi ricordo, vagamente però, di un libro letto una vita, di Hubert Montagner, dove si spiega che certe mimiche dei bambini, ma non solo, son simili a quelle degli scimpanzè, insomma: si inclina il capo per comunicare affetto, apertura, dolcezza soprattutto).
Lui è pelato, grosso. Lei mingherlina.
Mangio.
Pure loro.
Mi dimentico di loro.
D’un tratto vedo che lei si alza e si dirige verso il bagno; e vedo che lui, appena lei gli dà le spalle, veloce, tira fuori il portafoglio, estrae qualcosa, son distante, vedo solo che è una fotografia, vedo che la bacia, la guarda, anzi no, la fissa tenendola sotto la tovaglia, vedo il suo cranio lucido che è fermo, immobile, a guardare quella piccola foto, e mentre lo osservo (fa quasi tenerezza quel suo cranio abbassato come in preghiera), vedo anche che, d’improvviso, rimette a posto nel portafoglio e alza la testa, e fa tutto piuttosto in fretta perché lei sta tornando, anzi è tornata, è stata veloce.
Vedo che lei, mentre si siede, lo fissa, senza inclinare il capo.
(E penso che forse mi sono immaginato troppe cose.
Penso che sono troppo lontano, certo, era un’immagine, ma io mi sono immaginato che lui accarezzasse la foto di un figlio, o di una figlia. Suo o sua, e di un’altra donna.
E penso, anzi mi ricordo, che nei giorni scorsi una persona mi ha raccontato di suo padre, che aveva due famiglie, e magari quel racconto mi è rimasto impresso a livello inconscio, mentre guardavo il testa pelata che era una testa pelata china, su qualcosa, una foto, certo, ma non so mica se era un bimbo, una donna, un cane, una casa).
Poi.
Vedo che si alzano. Lei gli sorride, lui ricambia. Lui, galante, le fa cenno, di andare avanti. Vengono verso di me, ché la cassa è proprio alle mie spalle.
Lei ha la solita espressione di prima, vivace, allegra. Lui, non visto da lei, mentre la segue, si morde un labbro.
Mah.

E poi voglio segnalarvi questo vecchio post del vecchio blog (dove cercavo altro). Lo scrissi mesi prima che uscisse La donna che parlava con i morti.

dignità

Raffreddore, riunioni, telefonate. Pranzo di lavoro, anche. E mail da leggere. Tanti giorni, non tutti, è così.
Comunque.
E’ appena uscito il Dizionario affettivo della lingua italiana, Fandango.
330 voci, 315 autori (scelti da Matteo B. Bianchi, anche grazie al passaparola; io sono stato segnalato da una editor).
Funzionava così.
Ogni autore contattato scriveva un termine, definendolo.
Quando ricevetti la mail di Matteo B.Bianchi scrissi di getto questa cosa qui (ora pubblicata, quindi).
(Io non potevo definire, ma raccontare sì).

DIGNITA’
La spiegazione di cosa significhi me l’ha data un cingalese, anni fa. Ero in una località di mare, in ferie, e questo mi si para davanti con una rosa e un sorriso ebete. No grazie, dico. Mi dice qualcosa, credo in cingalese, e insiste, insiste con gli occhi: il sorriso è da ebete, ma gli occhi sono buoni. E poi. Chi sorride da ebete non è detto che lo sia, ebete. E soprattutto. Mille lire, penso, posso permettermele, no? Gliele scucio, lo saluto, mi giro, me ne vado: ma senza rosa. Tienila, gli dico, altrimenti, penso girandomi, la butto via. Dopo qualche minuto sento qualcuno che, da dietro, mi tocca leggermente la spalla (o il braccio, non rammento). Ancora lui, ma con un’espressione da bambino triste e un po’ adirato. Stringe in mano la rosa che non ho preso, me la porge e, serio serio, dice: Dignità. Stringe la rosa e, nel dire “dignità”, stringe pure i denti, come se stesse male. Prendo la rosa sorridendogli. E mi sento stupido, o ebete; è lo stesso, no?

PS
Grazie Marina per questa recensione sul mio primo libro, Il quaderno delle voci rubatre

dignitosa povertà (da “Lo scommettitore”)

… a proposito di povertà, vecchie e nuove.
un estratto da “Lo scommettitore”, casa editrice Fernandel.

Al discount ho visto una donna che si è arrabbiata facendo la spesa. Ha preso dei pomodori da una cassetta, li ha messi dentro a quei sacchettini di plastica che fanno bestemmiare perché non sai mai da che parte si aprono e sono sottili sottili, poi, quand’è andata a pesarli, premendo il tasto corrispondente ai pomodori, ha avuto dei dubbi sul risultato. Testarda, ha cambiato pesa che, sorpresa, indicava peso e prezzo inferiori. La donna, evidentemente ha un occhio da contadina mica da ridere, se l’è presa con un commesso, gridando, Siete dei ladri.
A me, invece, ha fatto venire un’idea.
Quand’ero ragazzo certe volte, così per passare il tempo, risparmiavo, fregando il piccolo supermercato del mio paese con il cambio delle etichette: staccavo quella da cento lire da un quaderno proletario e l’attaccavo, sovrapponendola, a quella, da duecento lire, di un bel quaderno, con la carta spessa. Se la cassiera se ne fosse accorta non poteva certo dimostrare che ero stato io. Era un trucco noto, già collaudato da altri miei amici, quindi lo usai poche volte, appunto: come passatempo.
La signora incavolata per il peso e quindi per il prezzo, entrambi sbagliati, mi ha invece suggerito un altro piccolo stratagemma. Così stamattina ho preso dell’uva, che mi rinfresca la gola quando fumo troppo queste schifezze di Esportazioni senzafiltro, e l’ho pesata, tenendo però il sacchetto aperto. Poi, dopo aver appiccicato l’etichetta, prima ho aggiunto un altro grappolo e poi ho chiuso l’involucro. Non credo mi fermeranno mai: sono un cliente che, magari solo per mezzolitro di latte, viene qui tutti i giorni, è affabile con le commesse, ogni tanto scambia qualche parola con il direttore.
Sopravvivo ma non è bello vivere così.
Comincio a odiarla questa stanza, comincio a soffocare.
E non mi piace essere povero come Ornella e Giacomo.
In questo periodo, lei si mantiene facendo le pulizie: nell’ufficio del dentista al piano terra, dove viviamo, un’ora tutte le mattine, e da una signora, titolare di una macelleria, da cui va, a giorni alterni, tre volte la settimana. Mi ha detto che, fra l’uno e l’altra, guadagna settantacinque euro a settimana, in nero, più gli sconti sulla carne che le fa la signora.
Giacomo è a suo carico, non percepisce nessuna pensione di invalidità, Non vogliamo nemmeno prenderla in considerazione, deve guarire, quasi tutti gli epilettici guariscono, mi ha detto Ornella.
Non le ho mai domandato se il suo ex marito le passa gli alimenti.

Quello che so e che vedo è che vivono e sopravvivono risparmiando come formiche. Quando escono da una stanza spengono sempre la luce, il boiler per l’acqua calda del bagno, mi ha detto Giacomo, prima che io arrivassi lo accendevano solo il sabato. Sono poveri, e tanto. Hanno vestiti vecchi, le lenzuola, quando Ornella le stende dal balconcino della sua camera, dalla strada si vede che hanno strappi, ricuciture. Sono persone eccezionali, ricche di dignità: mai una lamentela, un’imprecazione. Nessuna invidia verso chi sta meglio. Mi piacerebbe aiutarli, ma anch’io sto come loro. Forse peggio, perché se riesco ad andare avanti, pagare i cento euro di affitto, lo devo a Zagor. Lavoro per uno zingaro, io.

a occhi aperti

Torno agli anni in cui facevo il pendolare, studente lavoratore con destinazione Torino, partendo da Vercelli.
Incrociavo spesso un bancario, stessa faccia imbronciata, tutte le volte.
A differenza degli altri non leggeva giornali e non parlava mai con nessuno.
Sempre lo sguardo a trapassare il finestrino, guardando risaie e nebbia e squarci di luce, rari.
Una volta sbottò.
Non vedo l’ora di andare in Sicilia, disse, quando vado in pensione vado in Sicilia, mi prendo una baracca vicino al mare e passo le mie giornale al sole e a pescare, e con diecimila lire al giorno vivrò benissimo, diecimilalire.
Ci penso spessissimo, io, a lui.
Cambiando quattro cose:
La Puglia, anziché la Sicilia.
Leggere e scrivere, anziché pescare.
Venti euro, anziché diecimila lire.
Non aspettare la pensione, soprattutto.
Boh.

E buona giornata.

E poi. Su facebook, ieri, ho scritto i miei film preferiti. Alcuni. Di tanti non ricordo il titolo.
Questi ho messo, che mi ricordo.

Un cuore in inverno.
Film rosso.
Il migliore.
Leon.
Nikita.
Harry ti presento Sally.
I fiumi di porpora.
Al di là del bene e del male.
Il paziente inglese.
La figlia di un soldato non piange mai.
Film d’amore e d’anarchia.
Un’arida stagione bianca.
Good mornig Babilonia.
Sostiene Pereira.
Fragole e sangue.
I cento passi.
Via da Las Vegas.
Soldato blu.
Fiorile.
Regalo di Natale.
Storia di ragazzi e ragazze.
I soliti sospetti.
The sixth sense.
Un’altra donna.
Pane e tulipani.
Mississipi burning.
Pomodori verdi fritti alla fermata del treno.
Un viaggio chiamato amore.
Profumo di donna (quello con Gassman).
Del perduto amore.
Prendimi l’anima.
La finestra di fronte.
I diari della motocicletta.
Lezioni di piano.
Tutto su mia madre.
Stand by me.
Mare dentro.
Sotto falso nome.
La giusta distanza.
La ragazza del lago.

Questa è la scheda dell’ultimo film con Daniel Auteuil; una grande storia, e non c’è nessuno, a mio avviso, migliore di Auteuil a interpretare il ruolo del dannato perdente.
Mi pare invece che non abbia avuto successo, sempre con Auteuil, il film Sotto falso nome, che consiglio, di un giovane regista italiano, Roberto Andò.