si ascolta sempre troppo poco

Sono andato a vedere la “pancia” di questo blog. Ho trovato le cose scritte, poi messe da parte, perché inconcluse, magari, o da rileggere, o altro ancora.
Questa cosa quei è la più vecchia. La scrissi il 24 gennaio del 2008, 4 anni fa, insomma. Una sorta di autobiografia.
La ripropongo così com’era: refusi compresi.

La scuola, gli amici dei diciott’anni. Le prima fughe a Torino, di nascosto.
A nemmeno vent’anni la fabbrica. Sette anni. Entri che siete in 80, timbri l’ultima volta il cartellino che siamo più di 300. Li conoscevi quasi tutti. Anzi di più: facendo il sindacalista avevi conosciuto anche i turnisti disoccupati, quelli che facevano il turno dalla 4 alle 4. (Sveglia alle 4, due ore di pullman, 8 ore di fabbrica, altre due ore di pullman. Operai sfaticati).
Nel frattempo avevi ripreso a studiare. Lettere a Torino. E ti sembrava di avere a che fare con due mondi lontani: quando andavi a seguire le lezioni di Lettere la fabbrica ti sembrava lontana lontana, quando eri in fabbrica ti sembrava impossibile che tu fossi lo stesso che poche ore prima alzava la mano per fare una domanda al prof.
E poi c’era il treno, dove i due mondi – fabbrica e università – quasi si saldavano; il treno già: c’era tanta gente che si raccontava lì, e non ti faceva studiare perché preferivi ascoltare storie.
Come il bancario che – è un giorno d’inverno, il treno è pieno di gente, fuori c’è nebbia – sbotta e dice che non vede l’ora d’andare in pensione così andrà in Sicilia e farà il pescatore, e vivrà con 10mila lire al giorno, niente più treni, niente più banche, niente più smog.

Poi un giorno lasci la fabbrica, ti fai qualche mese da disoccupato (facendo di tutto, però: pulizia cantine e soffitte, per esempio) e poi trovi, anche perché hai una bima piccola, un altro lavoro: portiere di notte in un albergo.
Succede spesso, in un albergo, che a notte fonda scenda un cliente o una cliente. Sono le quattro del mattino, non riesce a dormire,quel o qualla cliente. Ha bisogno di ripensare alla sua vita. Magari è uno famoso che ha firmato autografi. Ricco. Ricco, infelice e solo.
C’è un mondo alla rovescia, spesso, di notte: prostitute che si comportano da signore, signore che fanno le prostitute.
E intanto prosegui con l’università: un giorno un docente psicanalista ti dice che percepisce la sua esistenza come di uno che entra nelle viscere di 150 persone e che, in cambio, offre le proprie viscere a quest 150 persone. E tu non glielo dici ma pensi che anche nella scrittura ci sia qualcosa di analogo.
E intanto inizia il giornalismo: altri incontri. Poi la parentesi del teatro. Poi quella del carcere. Vai a fare un corso di scrittura e ti trovi davanti un tuo compagno di classe: dentro per omicidio.
Ciao.
Ciao.
Ti scappa la domanda infelice: Come stai?
Sto meglio qui, dice.
Capisco, dici.
Ti sorride. Avete rotto il ghiacchio.
Rompi il ghiaccio con tanti, in carcere. Così altra gente ti entra dentro con le sue storie e tu le ascolti, quelle storie, e anche se fanno male vai a caccia di altre storie ancora, magari altrove: nelle corsie di un ospedale, nei bar frequentati da ragazzi di periferia, segnati dalla vita, perdenti già a sedici anni, e poi continui a conoscere e più conosci e più vorresti conoscere perché succede che più conosci e meno capisci.
Così ti metti a raccontare: degli altri.
Perché di te, in tutti questi anni, cos’hai capito?
(E ti spiace non aver ascoltato con attenzione anche prima: in fabbrica, in albergo di notte. Si ascolta sempre troppo poco…)

7 pensieri su “si ascolta sempre troppo poco

  1. Fabbrica per me oggi vuol dire operai schiacciati sul posto di lavoro dal capannone o dalla fabbrica già lesionata dalla scossa di nove giorni fa, che nonostante questo erano lì e le loro storie se le è portate via la terra in rivolta, sì, ma soprattutto l’imperizia umana. Caro Remo, in questa mia terra così fiera del lavoro, dei suoi capannoni che deturpano la nostra pianura ma che sono il nostro orgoglio, dire fabbrica oggi vuol dire più che mai dire morte, ricatto, sacrificio umano, vite più che inascoltate: perdute per sempre. Non è giusto e spero che, a freddo, ci si ragionerà sopra, si cambierà. Nessuno è morto in casa… le persone sono morte nei capannoni e nelle fabbriche (e un parroco in chiesa) mentre lavoravano di notte, di prima mattina, con le crepe nei muri e le scosse che da quel 20 maggio non hanno mai smesso. Scusa ma mi sento sconvolta per questi operai, so che tu mi puoi capire.

  2. Siamo tanti ad essere soli. E manco ricchi, per giunta. E penso che la solitudine peggiore sia quella di chi non trova orecchi che lo ascoltino. Uno che ha una storia dentro e nessuno a cui raccontarla, muore un pochino ogni volta. Non riguarda solo pochi sfortunati: è capitato a tutti di iniziare a raccontarsi per poi venire quasi subito investiti dal solito odioso “io allora, io, io io…” ecco, lì, la solitudine annega nel fragore di una speranza accarezzata e subito respinta. Tremendo. Oggi più che mai trovare ascolto, quello vero, onesto, è una tale rarità che non si può non amare chiunque ti mostri quell’interesse sempre negato e tanto anelato. Ascoltare qualcuno per davvero è oggi un atto rivoluzionario a cui ben pochi sono disposti. Forse anche perché fa poco rumore. Ci vuole silenzio per ascoltare. Tutti avvitati ai nostri ombelichi?

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