Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia intitolata Ribelli (Robin edizioni), due anni fa.
Un brano fu letto e interpretato, nel corso di una serata organizzata dalla Cgil ad Alessandria. Ci fu anche un canto delle mondine, mi dissero. Non c’ero io quella sera, perché avevo la chiusura del giornale.
Per scrivere questo racconto ho utilizzato la raccolta del giornale La Sesia del 1906 e i racconti che mi ha fatto Mimma Bonardo.
Attesero e poi salirono insieme sul treno. Maestra Angelina Rossi di anni ventinove e don Gualtiero Scorsi, cinquantenne. Lei si sedette subito, in una carrozza affollata. Per bagaglio aveva solo un borsone nero da viaggio, di medie dimensioni. Don Gualtiero invece, trascinando la sua grossa valigia, cercò e si accomodò in un vagone senz’anime, in fondo al treno. Quella mattina alla stazione di Vercelli, erano stati in sei a salire sul treno. Don Gualtiero, osservando gli altri cinque, quattro uomini e una giovane donna, pensò che non ne conosceva alcuno, e si sentì bene, ché non aveva voglia alcuna di parlare o, peggio, d’essere oggetto di attenzioni; la maestra Rossi, invece, non guardò nessuno in faccia. La testa bassa, il volto pallido, fissava mesta la pavimentazione. Fu l’unica a non girarsi verso sinistra quando arrivò il treno da Torino. Fu anche l’ultima a salire, parve avere un ripensamento; tant’è che don Gualtiero, dietro di lei di un paio di metri, per non inciampare dovette schivare la borsa nera di lei. Non ci fece caso, il sacerdote, che tra i manici del borsone c’era, piegata, una copia del giornale sovversivo “La risaia”. L’avesse vista, mosso dalla curiosità, forse avrebbe cercato di parlare con la maestra Rossi. Si fossero intrattenuti a conversare, avrebbero così scoperto di essere due esiliati. Avrebbero anche detto, l’uno dell’altra: Dunque lei è… di cui tanto ho sentito parlare.
Madre adorata,
ora che il giornale mi ha licenziato ho tanto tempo a disposizione e quindi vengo a rispondere alle domande dell’ultima vostra lettera, di un mese fa; domande a cui io, sopraffatto dagli avvenimenti, colpevolmente non ho risposto. Provvedo senz’altro adesso. Prima voglio che sappiate questo cara mamma: quando mi sveglio al mattino sono fiero di me, non pensate adunque ch’io soffra. Certo, s’è infranto il mio sogno di fare il giornalista, ma non è detta che io non riprenda la mia amata professione. Ho fatto domanda all’Avanti, il che, lo so cara mamma, non farà di certo piacere al babbo. Se mi pigliassero, pensate voi a chetarlo, magari a organizzare una bella festicciola.
Nell’ultima vostra mi chiedevate informazioni di don Gualtiero, un curato certo strano, che vi incuriosiva. Ricorderete che quando giunsi a Vercelli ero disperato. I sindacalisti più importanti, Cugnolio e Somaglino, ma non solo loro, gentilmente, declinavano l’invito a farsi intervistare da un giovane giornalista. Col senno di poi, dò loro ragione: facevano bene a sospettare del mio giornale. Rammentate cara mamma che cercai di parlare, e il suggerimento fu vostro, con alcune mondariso? Voi avevate visto un’immagine loro pubblicata in qualche rivista. Avevate letto che cantavano, gioiose.
Cara mamma, gettatela via quella fotografia, ché la mondine con le camicette bianche e il cappellino in testa non sono mondine vere. Le mondine, cara mamma, vestono di stracci, o sono secche secche, per via della malnutrizione, o sono gonfie, perché mangiano solo patate e polenta. Mamma vedete, le vere mondine non sono quelle che arrivano nel vercellese dall’Emilia. Le vere mondine sono quelle locali, vivono di stenti, fanno la fame, muoiono di malaria. Molte di loro, a trent’anni, sembrano avere la vostra età, e sono cagionevoli di salute.
Ricorderete che mi fu difficile parlare con loro: comprendevano le mie domande ma mi rispondevano in dialetto vercellese, che somiglia al francese, ma la parlata è veloce e io facevo fatica a seguirle. Poi vi confesso una cosa cara mamma: io, che sono cresciuto nella bambagia, avevo in uggia di entrare in quelle case che puzzano di umido e, se ci sono anziani o bimbi piccoli, anche di urina. Il marito di una mondina, un pomeriggio, mi offrì da bere, ma io cortesemente rifiutai, dicendogli di non aver sete. In verità ne avevo, ma avevo altresì visto che quello era l’unico bicchiere che possedevano e che conservavano, con una tazza, un tegame e una pentola di rame, in un recipiente ai piedi del letto.
Ora vengo a don Gualtiero e a come lo conobbi. Un collega del giornale locale di Vercelli, La Sesia, una sera, cenando, mi parlò di lui. Mi disse che di sicuro era un bravo prete, ma che essendo di idee socialiste l’indomani sarebbe stato richiamato, e severamente, dall’Arcivescovo. Il giorno dopo, incuriosito, mi svegliai alla buon’ora e mi appostai davanti al palazzo Arcivescovile. Lo vidi arrivare in ora tarda. Non più giovane, con la barba lunga, aveva lo sguardo di un moccioso. Questa mia impressione si rivelò azzeccata. Uscì dopo un’ora e mezzo. Mi presentai, e per cercare di stargli simpatico gli dissi che sapevo, sapevo che era lì per essere redarguito dai suoi superiori in quanto socialista. Mi sorrise, ma non proferì parola. Poi, da una sacca estrasse un Vangelo e, mostrandomelo. mi domandò: Secondo lei il Vangelo è socialista? Penso proprio di no, dissi io, stoltamente. Mi guardò, mi sorrise e mi disse che era in ritardo e che doveva scappare. Io, incoraggiato dal suo sorriso lo seguii, e gli posi mille quesiti mentre, a passo sostenuto, ci recavamo verso il centro della città; gli chiesi della frazione dove viveva lui, si diceva a Vercelli che fosse la più scalmanata in fatto di rivendicazioni, gli domandai cosa pensasse degli scioperi per le otto ore, dei socialisti, dei giovani facinorosi di cui si diceva un gran male, gli domandai se conosceva Cugnolio, l’avvocato di buona famiglia che stava dalla parte delle mondine e dei contadini. Spazientito, davanti al ristorante “I tre re” si fermò e, sbuffando, mi invitò a prendere nota di alcuni nomi. Me ne dettò almeno trenta. Gli domandai: Chi sono? Invece di rispondere soggiunse: E aggiunga la maestra Rossi, che non conosco e della quale non conosco il nome di battesimo. Dopo aver annotato “Maestra Rossi” domandai: Di grazia, chi sono queste persone? Brave e rette persone di mondo che possono fare al caso suo, lei vada da loro e domandi, domandi degli agrari, delle malattie, dei bimbi di dieci anni che mondano il riso, vedrà che ne scoprirà di cose, io sono solo un curato di campagna un po’ matto, disse, per poi soggiungere: Le avranno detto dei canti delle mondine? Risposi: Son belli, li ho sentito con le mie orecchie. Severo mi rimbrottò: Allora non ha sentito bene, sembrano canti di gioia, ma sono nenie funebri. Quelle donne muoiono prima delle altre, perché la risaia uccide. Gli dissi che sì, sapevo della malaria. Buio in volto mi disse: La fame, la mancanza di medicine, di latte per i bambini, la sporcizia, lo sa che le loro case non hanno pavimenti? Stavo per dirgli che ne avevo vista una ma che, sinceramente, non ci avevo fatto caso, del resto la giovane coppia di contadini che mi aveva offerto da bere viveva in una stanza buia, illuminata solo da una fessura sulla parete, solo che non ebbi modo di proferire altro. Don Gualtiero entrò infatti nel grande e bel ristorante lasciandomi in istrada, a grondare sudore. Pensai male di lui, allontanandomi. Parlava di fame e intanto andava a ingozzarsi di cose buone in un posto che io, essendo in economia, non potevo permettermi.
M’era venuta fame, così andai in una bettola proprio di fronte e ordinai un piatto di pasta e ceci e un buon bicchiere di barbera. Mentre attendevo sentii degli strepiti in istrada. Era don Gualtiero che inveiva. Lo vidi allontanarsi pieno di rabbia, rosso in volto. Fui fortunato: ché nella stessa osteria dove stavo assaporando frutta di stagione sopraggiunse un cameriere del “Tre re” a raccontare l’accaduto. Don Gualtiero, approfittando della bontà d’animo del proprietario del “Tre re”, era andato a ritirare il pane raffermo avanzato, come usava fare ogni giorno, per poi poterlo dare ai contadini più poveri. Mentre stava uscendo con il suo sacco di pane duro in spalla aveva incontrato due alti prelati che stavano entrando insieme ad altrettanti proprietari terrieri. Forse, ma questa è una mia supposizione, gli stessi che poc’anzi lo avevano redarguito. C’era una tavola imbandita, tutta per loro. Don Gualtiero, lì per lì, aveva finto di non vedere, ma poi era tornato indietro e, indicando i cibi già serviti in tavola, aveva urlato ai quattro se sapevano cosa significasse la parola fame.
Cara mamma, tutti hanno in grande considerazione i sindacalisti e i socialisti che sono a capo della piccola rivoluzione a Vercelli. Ne ho anche io di considerazione per loro. Ma il coraggio di quel prete, la sua rabbia, non li dimenticherò mai.
Caro cugino,
mi hanno espulso dalla scuola. Ho stracciato il documento del Ministero dove c’è scritto che io ho sobillato i fanciulli e arrecato danno alla comunità vercellese. Sì sono colpevole. Ho portato i bambini al fiume un giorno di marzo. Ho chiesto loro di fare un gioco. Li ho portati in una “lama”, che è una sacca d’acqua calda, dimenticata dal fiume, e ho detto loro di entrare, poi di piegarsi, come le mondine, e di stare così, per qualche minuto, sotto il sole. In classe ho poi chiesto loro di immaginare e di raccontare per iscritto quanto faticoso sia lavorare per ore e ore sotto il sole, tra zanzare e bisce. Lo so ho esagerato, sono tutti di buona famiglia, ed è scoppiato il putiferio. Una maestra anziana mi ha aggredito… sdegnati, i genitori delle famiglie più facoltose si sono rivolti al prefetto e al sindaco. Essendo io la figlia di un generale, prefetto, sindaco ed alte autorità scolastiche, sebbene io abbia dato scandalo, hanno temporeggiato, comunque no, caro cugino, l’origine vera della mia espulsione è stata un’altra.
A gennaio ho partecipato ad alcune manifestazioni organizzate dalla Lega delle mondine. Sì, hai sentito bene, mi son mescolata a loro, come una di loro. Le frequento da mesi, quando posso partecipo anche alle riunioni di quelle donne che invocano otto ore di lavoro e un aumento di 25 centesimi. Lavorano come bestie, quaranta, a volte cinquanta giorni l’anno, lavorano per comperare farina, medicine, la lana per fare calze, coperte per i bambini.
Ora cugino ti farà male leggere quel che sto per scriverti, ma debbo farlo affinché tu capisca e poi siamo cresciuti insieme, ci vogliamo bene. Ho bisogno di confidarmi almeno con una persona che sappia comprendere.
Quella notte di gennaio, era il giorno ventitré, rientrando da una riunione, io e una lavandaia, moglie di un muratore socialista, siamo state assalite da cinque animali. Ci hanno schiaffeggiate, poi hanno abusato di noi. Io lo so chi sono: squadre di crumiri assoldati dai terrieri. I gendarmi che ci interrogarono, fummo infatti soccorse da una ronda di soldati, invece erano di altro avviso: dissero che si trattava di alcuni estremisti, che dovevano essere puniti severamente. Le mie indicazioni affinché i veri colpevoli fossero condannati furono evase bellamente. Ci fu poi una complicanza di non poco conto: la lavandaia, che è anche madre di tre bimbi, implorò ai gendarmi di non dire nulla sull’accaduto, ché avrebbe preferito non far soffrire suo marito… Fu accontenta.
Caro cugino, il ricordo di quella notte è terribile. Per me si tratta del primo ricordo, ora velenoso. Il primo uomo a cui mi son concessa è dunque un essere immondo e malvagio. Anzi son due… Si può sopravvivere a un ricordo così brutale? Caro cugino, non è tutto. A gennaio scoprii d’essere gravida. Tu non ci crederai, ma quella notizia non mi recò sconforto, anzi, allontanai le mie tristezze e aspettai con ansia la primavera. Per quella creatura sarei stata il padre e la madre. Per quella creatura avrei rinunciato all’insegnamento, a tutto. A testa alta avrei portato avanti quella maternità svergognata agli occhi del mondo. Presi una decisione. Avrei portato a compimento l’anno scolastico, sarebbe stato l’ultimo, la mia creatura, che cresceva piano piano, non avrebbe dato nell’occhio… Fosse nato maschio l’avrei chiamato Modesto, come l’avvocato che difende le mondine in lotta. Fosse nata femmina l’avrei chiamata Teresa, come una mondina di vent’anni che è morta di malaria alla vigilia delle nozze: ho visto quando han chiuso la bara, l’hanno sepolta col vestito da sposa.
Forse ho sbagliato a sognare di chiamare Teresa la mia creatura, forse quel nome, Teresa, era una maledizione, o un presagio di morte.
Ora ti racconto le mie pene, caro cugino, tu cullale se puoi.
Due mesi fa centinaia di mondine si son recate di corsa alla stazione. Era arrivata la notizia che stava per arrivare a Vercelli un treno carico di crumire venete e romagnole, i padroni rispondevano così agli scioperi. Bisognava impedire che quel treno arrivasse. Alla stazione, nonostante i carabinieri a cavallo che minacciavano di caricare, le mondine, con coraggio, si sono stese sui binari, cantando: quel treno, se proprio doveva arrivare, doveva calpestarle, farle a fette. C’ero anche io, ma in disparte, ché temevo per la mia creatura. E fui felice quando il treno di crumire indietreggiò. Ne gioii, abbracciando le altre donne temerarie. Quel giorno fu vinta una gran battaglia. Caro cugino, devi sapere che le mondariso quando vengono attaccate dalla cavalleria si difendono con il “pucio”. Si tratta della spilla che viene usata per tenere i capelli durante la monda. Durante i cortei serve per far imbizzarrire i cavalli. Alla stazione non ce n’era stato bisogno. Quando pòarve tutto finito successe che in un vicolo, io e altre mondariso, incontrammo dei carabinieri in sella ai loro cavalli. Ci riconobbero e ci sfotterono, nulla più. Una sciagurata, però, senza motivo alcuno punse un cavallo, che si imbizzarrì e mi travolse. Caddi, cercando di proteggere il ventre con le mani, ma non feci a tempo…
Quando mi sono svegliata all’ospedale ho pianto e non ho chiesto niente a nessuno. Sapevo di aver perso la mia creatura.
All’ospedale venni anche interrogata dai gendarmi e intanto si sparse la voce: oltre a essere una socialista ero anche una donnaccia.
E’ questo il vero motivo per cui sono stato espulsa.
Riparerò in Svizzera, ho venduto la casa. Presto mio fratello, che è all’oscuro di tutto, riceverà la sua parte. So che disapprova il mio modo di pensare e anche il mio agire. Tu, che sai tenergli testa, raccontagli tutto, ti prego. Io penso di essermi comportata rettamente.
Ti abbraccio caro cugino,
tua Angelina.
Cara madre,
la pagina più bella della rivoluzione vercellese è avvenuta il primo giorno di giugno. Quando ci rivedremo vi farò leggere l’articolo che telegrafai a Milano e che è all’origine del mio allontanamento. Al posto del mio ne han pubblicato un altro, pieno di fandonie. Hanno scritto che a Vercelli c’è stata una manifestazione di tremila contadini. Gran falsità. Pensi madre che i sindacati hanno controllato e annotato tutti i gruppi provenienti dal circondario, contando quasi undicimila presenze. Alle mondine e ai mondariso maschi si sono uniti i metallurgici, i muratori, i garzoni dei forni dei panifici, anche i commercianti della città hanno abbassato le serrande e si sono messi a manifestare. Le mondariso cantavano le loro canzoni, oppure urlavano “otto ore, otto ore”, e le strade e le piazze erano più belle, sembrava che le bandiere rosse fossero fiori. L’avvocato Cugnolio ha poi incantato la piazza con un discorso che ha rapito i cuori: i più hanno applaudito, con forza, ma tante donne han pianto per la grande emozione.
Il momento più bello è stato quando dal balcone del municipio sono uscite due mondine che hanno annunciato la gran vittoria: e cioè la firma sul contratto per le otto ore di lavoro in risaia. Seguì un boato di gioia grande come il cielo. Ora non lavoreranno più dall’alba all’imbrunire come schiave piegate, mentre una capa, da dietro, le controlla, o mentre il padrone, a cavallo, ordina loro di fare più in fretta. Hanno alzato la testa, quelle disgraziate. Madre, io sono convinto che il mondo da oggi sia migliore.
Signorina, signorina, il biglietto per favore. Sta bene?
Ennesimo bel racconto Remo, grazie di cuore