Auto intervista (che credo sincera)

Domanda a bruciapelo: lo scrittore che più ami. Il migliore, per te.
Pirandello.

Il tuo piatto preferito?
Insalata di pomodori conditi con cipolle, sedano e soprattutto olio di oliva di Cortona.

Dove vorresti vivere?
Davanti al mare. Puglia o Liguria non importa.

E se fossi costretto a vivere in una città?
Firenze.

Remo Bassini, sono più di vent’anni che scrivi. Fanucci, Newton Compton, ma soprattutto tanta piccola editoria. Avrai passato notti a scrivere, leggere, roderti. Altra domanda a bruciapelo. Ne è valsa la pena?
Fino a tre anni fa dicevo che sì, ne valeva la pena, perché scrivere per me è come respirare, così dicevo; adesso non so, non lo so più, ecco.

Tutto perché non hai sfondato? Da Fanucci, che è un signor editore, a Golem, che è piccolo piccolo..
No, non c’entrano i riconoscimenti (che poi con Golem ne ho ottenuti: un primo posto ex equo al Premio internazionale città di Cattolica, o un terzo al prestigioso Premio Monti), e non c’entrano le vendite, il mondo dell’editoria…

E quindi? Una sera all’improvviso ti è passata la voglia di scrivere così, senza un perché?
No, il perché c’è. Ascoltami. Quando uno scrive ha in mente dei lettori. Purtroppo quel che è successo nei due anni di Covid me li ha portati via…

In che senso? Puoi spiegarmi meglio?
Prendiamo il Green pass. Un sabato sera passando davanti a un negozio sento una signora che urla al telefono: Chi non ha il Green pass a casa mia non mette piede. Prendiamo il vaccino: sulla bacheca facebook di uno di sinistra che conosco lessi: Calci in culo a chi non si vaccina. Prendiamo ora alcuni esaltati novax che arrivano quasi ad augurarsi che gli effetti avversi del vaccino aumentino sempre più… ecco… non trovo più i miei lettori. I miei lettori non odiavano, non sapevano odiare. Non giudicavano.

Però proprio durante il primo lockdown hai scritto La suora…
La suora è un libro contro quel clima. Una sera, mentre passeggiavo col cane in una città morta, mi feci una domanda: dove vorresti essere tu, ora? Mi venne in mente Orta e il suo lago; così tornai a casa e invece di guardare facebook o di leggere i giornali online mi misi a scrivere. Si stava meglio a Orta, anche se era inverno, e la suora fu un’apparizione… a volte penso che Nora o suor Beatrice sia reale e che viva davvero nell’isola di San Giulio… Tutto qui.

Ho capito, intervista finita?
Ma no, possiamo continuare, parlare del passato per esempio. Magari della buona piccola editoria, come I Buoni cugini del mio amico Ivo Tiberio Ginevra (che mi ha pubblicato “Il bar delle voci rubate”), oppure come Perdisa Pop, bellissima esperienza con Luigi Bernardi e con Alberto Perdisa, editore galantuomo.

E Fanucci?
Mi ha pubblicato due libri (“La notte del Santo” e “La donna di picche”) credendo in me. Non posso che dirne bene. La mail che Fanucci mi inviò dopo aver letto la bozza de “La donna di picche” prima o poi la incornicio.

Nel tuo blog citi spesso Giulio Mozzi.
Nel 2003 e negli anni successivi mi svegliavo al mattino, preparavo la moka, poi mi piazzavo davanti al pc. Prima leggevo la posta elettronica e poi il blog di Mozzi. Leggevo, rileggevo, imparavo. Mozzi è un grande… Sai che invidiavo quelli che pubblicavano con lui, alla Sironi? E il bello è che non gli inviai nemmeno un manoscritto, allora.

Ma la tua stagione migliore la vivesti quando pubblicasti Lo scommettitore, con Fernandel, giusto?
Giusto. Recensioni, interviste. La Newton Compton che mi chiede di scrivere un libro. E comunque: se vissi un periodo d’oro lo debboca Radio Rai 3 e alla trasmissione Fahrenheit, diretta allora da Marino Sinibaldi. “Lo scommettitore” fu il libro del mese a luglio 2006, e finalista del libro dell’anno… certo, feci una cazzata…

Quale?
Non mi presentai alla trasmissione finale del libro dell’anno di Fahrenheit, a Roma, alla Feltrinelli di Piazza Colonna. Vinse Saviano. Non andai e (giustamente) non fui citato in trasmissione.

Dì la verità: ti rode di non essere diventato un grande scrittore?
Forse sì e forse no. Sai, ho in mente una persona… non importa se uomo o se donna. Aveva pubblicato un libro di successo, che era stato tradotto e che era diventato un film, un bel film. Eravamo sotto i portici di una grande città, parlavamo, pioveva. Mi disse: Da nove mesi non mi cerca più nessuno… Stavo per rispondere: a me succede da una vita…

E quindi?
E quindi quegli scrittori che vivono soprattutto per avere successo sono degli infelici, mi è venuto di pensare quel giorno…

Ma avrai conosciuto scrittori felici?
Sì, magari poco noti. Però sai…

Sì…
In parte l’infelicità degli scrittori è comprensibile. Quando metti al primo posto la scrittura e dalla scrittura ricevi solo maldipancia non puoi che vivere male.

Ci sarà qualcosa di bello nella scrittura…
Sì. Scrivere. Il momento della scrittura.

Dopo il diploma hai fatto l’operaio, poi ti sei rimesso a studiare e ti sei laureato, poi hai vissuto facendo il giornalista e lo scrittore. Domanda: se la scrittura non avesse fatto parte della tua vita, cosa avrebbe voluto fare ed essere Remo Bassini?
L’allenatore di calcio, sono un patito degli schemi, di tattica. Oppure no, mi sarebbe piaciuto insegnare, magari italiano e storia alle scuole medie, e nel tempo libero allenare una piccola squadra di paese. Un paese di mare, naturalmente…

Sbaglio, o tu tendi un po’ alla depressione?
Non sbagli, è una compagna fedele, purtroppo.

Stai meglio quando scrivi?
Forse sì, di sicuro smetto di stare bene alla fine, quando cerco di piazzare il manoscritto e aspetto la telefonata o la mail che non arriva.

Non puoi lamentarti, di telefonate o mail ne hai ricevute.
Hai ragione. Magari dopo tre quattro anni aver finito un libro, ma ne ho ricevute, sempre. Quello che ho scritto è stato sempre pubblicato, ed è un miracolo…

Perché?
Perché mando sempre delle bozze da rivedere e che rivedo poi cento volte prima della pubblicazione.

Hai scritto ancora, ultimamente?
Sì, un libro per la gente che ama ascoltare le storie. Senza odiare.

Titolo?
Il sentiero dei papaveri, che uscirà a febbraio 2024 sempre con Golem.

No aspetta, racconta qualcosa su di te (so che non ami andare sul personale) che non hai mai raccontato.
Amo il mare, vivrei in un paese di mare. Ma non sopporto la gente in spiaggia. Il mare mi piace quando piove, mi piace al mattino presto o la sera, quando gli ombrelloni sono chiusi. E mi piace anche la montagna, ma non programmo mai una camminata, anche perché sono pigro, anche perché a me piace camminare di notte. Poi c’è la città, ecco in città io sogno d’essere al mare, o davanti al lago d’Orta, o su un sentiero della Valsesia. Delle città mi piacciono i bar, le chiese quando non ci sono preti e messe, e le stazioni. A volte, mentre mi addormento mi vedo che sono alla stazione di Vercelli; sto salendo su un treno, per dove, però, non so.

Tra rotonde sul mare e vecchi addormentati: idee insomma

L’idea per un libro può essere come un’idea che dà vita a una canzone. Prendi (per chi la conosce) Una rotonda sul mare. La canzone dice:
Una rotonda sul mare
Il nostro disco che suona
Vedo gli amici ballare
Ma tu non sei qui con me…
In realtà il paroliere Francesco Migliacci (che la scrisse) non era al mare. Era in collina, a Cortona. Italia centrale insomma. Pare fosse triste perché una morosa l’aveva lasciato. Una sera, guardando il Trasimeno (al confine con Cortona) gli venne in mente di scrivere di una rotonda eccetera… ma dal momento che una rotonda sul lago non andava bene, non “suonava” bene, il Trasimeno diventò mare.
Dimenticavo. L’ho scritto sul mio libro “Vicolo del precipizio”. Migliacci, nato a Mantova ma di origini cortonese, si è ispirato a Cortona quando scrisse Paese mio che stai sulla collina. Recentemente ha raccontato: Mio padre, indicandomi Cortona dal basso, mi dice: Ma un ti sembra un vecchio addormentato?

Il gatto nero di Giallormea

Partiamo dall’inizio. Saranno le 17 e 30. Il primo incontro è un con una signora avanti con gli anni. Tra gli ottanta e i novanta, ipotizziamo. Cammina in strada trascinando la spesa ma ogni tanto si volta e dice: «Allora, andiamo o no?».
Il gatto nero la guarda e senza esitazione obbedisce.
Mio figlio si avvicina al gatto, che ha un pelo fantastico.
«Accarezzalo pure, si fa accarezzare da tutti» dice la signora.

Proseguiamo con il finale. Qualche minuto alle 23. Mentre mi avvio alla macchina (per arrivare a casa mi ci vorranno 2 ore e mezzo) una signora carina, bionda, vestita di chiaro (era buio, mi pare fosse vestita di bianco) mi supera, poi si ferma, si gira, tira fuori dalla borsa una copia de La suora e mi dice: «Guardi che ce l’ho… me lo firma?»
Ormea, prima e ultima pagina insomma, con Giallormea in mezzo.
Presentazioni di libri, proiezioni di film. A me è toccato giovedì 20 (dal palco, invidiavo la zona fumatori, in fondo in fondo). Davanti il sindaco di Ormea. Ho dialogato con Bruno Vallepiano, di cui ho letto un gran bel libro che consiglio: La donna con la pistola.

Prima della presentazione (ho rimesso la marcia indietro) una bella cena con delle ottime lasagne di Ormea insieme a Bruno (che conoscevo telefonicamente), a Valeria Aschero (affabile, simpatica e tante altre cose) e a Carlo Turco (che non conoscevo; con lui è un piacere discutere di giornalismo, politica, basket).
Sulla presentazione, forse, dovrei dire altro, la rassegna è bella, ogni sera ci va gente, ed è bella Ormea, che un po’ mi ricorda la Valsesia (zona Scopa, Scopello), ma qui mi preme ringraziare Bruno, Valeria e Carlo: conoscerli è stata la cosa più bella della serata.
(Son solo appunti sparsi, questi, che però mi andava di scrivere).
Certo che un gatto che segue la sua padrona come un cane non l’avevo mai visto.

Il seno di Lara (racconto breve)

Lunedì 17 luglio, quattro ore di coda in autostrada, a Castel San Giovanni, tornando dalle Marche (bella gente, bei posti come Fermo, o Torre di palme). Ho passato il tempo a scrivere un piccolo racconto. Breve (non scrivo mai racconti lunghi). L’ho messo, poi, in una cartella con altri sei sette otto racconti, da rivedere). Eccolo.

Il seno di Lara

A me piace il seno cadente di Lara. Se ne vergogna, lei. La prima volta, ma eravamo al buio, entrava solo un po’ di luce dalla porta semiaperta della camera, se lo coprì con le braccia, prima di infilarsi tra le lenzuola.
L’avevo conosciuta due ore prima, forse meno, in un piccolo supermercato. Lei davanti a me, alla cassa con la cassiera più bella e indisponente, la gente preferiva fare la coda dall’altra, più anziana e affabile.
Io avevo comprato solo tre cose: una confezione con sei bottiglie piccole di acqua Perrier (andavo in quel supermercato perché era l’unico che ne vendeva), un quaderno e una matita. Arrivato alla cassa stavo per tornare indietro, mi ero scordato di comperare un temperamatite e una gomma da cancellare, saranno stati vent’anni che non scrivevo o disegnavo a matita e quel giorno, svegliandomi, avevo pensato che avrei dovuto ricominciare, da ragazzo ero bravo a disegnare paesaggi e gatti, chissà se la mia mano ricordava qualcosa… Alla cassa però mi fermai, dimenticando di gomma e temperamatite. La cassiera bella e stronza stava urlando e lei, Lara  ascoltava a testa bassa, inespressiva.
Il suo carrello era piuttosto pieno, doveva pagare un conto di 89 euro e 28 centesimi, peccato che non avesse con sé né il denaro né una carta.
«Ma come si fa a non avere nemmeno una carta al giorno d’oggi» disse la cassiera ad alta voce, così che sentissero tutti.
Lara era lì ferma e a testa bassa: la stessa testa bassa di quando si copre i seni nudi con le braccia.
«E adesso devo chiamare un mio collega a fare risistemare negli scaffali tutta la merce del suo carrello, ah bene, vedo che ha acquistato anche dei prodotti dalla nostra gastronomia… signora, ma possibile che non abbia nemmeno una carta? Ma come si fa, come si fa?»
«La signora va a casa, prende i soldi, torna qui, paga e prende le cose dal carrello» dissi io.
«Ma ci fa o non ci fa: lo vede che non c’è spazio? Dove me lo metto il carrello della signora… in testa me lo metto?»
«No, né in testa né da nessuna parte, la signora è una mia amica, pago io, tenga… è un bancomat, grazie.»
Lara non disse nulla, voleva sparire: tutti guardavano lei.
Grazie me lo disse appena fummo fuori.
«Mi accompagna a casa, non abito distante…»
«Certo, che ne dice se prima ci prendiamo un caffè» le dissi indicandole un bar. Non mi ascoltava.
«Non capisco, perché ha voluto umiliarmi? Vengo qui tutti i mercoledì mattina…»
Infatti, non mi aveva ascoltato. S’incamminò con le quattro buste della spesa, disse «no grazie, faccio io, ha già la sua» quando le proposi di darle una mano.
Non stava proprio vicino vicino al supermercato, ci vollero venti minuti o più per raggiungere il bel condominio dove viveva.
«Mi aspetta, vado a prendere i soldi, torno subito.»
Tornò e mi allungò cento euro. «Tenga pure il resto, lei è stato gentilissimo.»
«Guardi che prendo una buona pensione, no grazie, piuttosto…»
«Piuttosto?»
«Non mi offrirebbe un caffè? Poi devo andare in bagno.»
Un’ora dopo, girata di schiena sul letto, mi disse: «Lo so, non ci crederà, ma è la prima volta che scopo con uno sconosciuto.»
«Lei è la quarta… no, non la quarta sconosciuta con cui faccio l’amore, la quarta donna della mia vita.»
Che si chiamasse Lara lo seppi leggendo il nome sulla porta, sopra il pulsante del campanello.
Nei giorni successivi passai anche più volte al giorno sotto casa sua. Un condominio di dieci piani, bianco con i balconi e le finestre blu. Un bel condominio. Ci passai anche la sera. La sua finestra restava illuminata fino a tarda notte.
Prima o poi, pensai, ci incontreremo ancora.
La sera ripensavo al suo seno cadente, che avrei voluto aver baciare, che avrei voluto lì, accanto a me. Ripensavo anche un po’ ma poco alla sua casa, che avevo visto distrattamente, Lara, ne ero certo, non avrebbe gradito occhiate curiose.
Il mercoledì successivo, verso le 10,30, andai nuovamente a fare una piccola spesa nel piccolo supermercato.
Acqua Perrier, uova, stracchino e due quaderni, magari tre: in quello acquistato la settimana prima avevo provato a disegnare, ma quel che avevo disegnato non mi era piaciuto, una donna nuda in penombra in un letto, scoperta dall’ombelico in su.
Non verrai, lo so, pensavo guardandomi in giro. Certo, mi hai detto che vieni qui ogni mercoledì, ma mercoledì scorso quella stronza di commessa ti ha trattato proprio male, no, non verrai.
Invece arrivò, trafelata.
«Un caffè da me, dopo?»
Diventò la donna del mercoledì mattina. Un caffè, un’ora insieme ai suoi silenzi. Mi stava bene così.
Quando le dicevo «sei la mia quarta donna, tu» sorrideva. Ed era un sorriso indefinibile: né bello, né triste, né dolce. Era il sorriso di Lara.
Per la verità, avrei voluto tanto che mi chiedesse di parlarle delle altre, o se avevo figli, e avrei voluto invitarla a cena per poi trascorrere la notte con lei ma quel suo silenzio era un invito chiaro: a non chiedere.
(E avrei voluto baciarle quel suo piccolo seno cadente…)
Due mesi, sette incontri, poi sparì.
Il primo mercoledì che non la vidi apparire al supermercato fu un mercoledì triste per me. Più che triste. Come faccio senza di te?, pensavo.
Per mesi e mesi la cercai, ma il suo appartamento aveva le tapparelle abbassate e la sera non si vedeva nessuna luce, e tutti i mercoledì mattina, nel piccolo supermercato, di lei non c’era traccia.
E invece rispuntò nella mia vita sei mesi dopo, ancora lì, nel piccolo supermercato, un mercoledì d’agosto.
Mi sentii toccare il gomito, mi voltai, era lei. Parlava il suo viso, il suo viso e i suoi occhi mi stavano dicendo «mi dispiace».
«Un caffè da te, dopo?» chiesi.
Si strinse a me forte forte e, piangendo, disse: «Non posso, mi spiace mi spiace mi spiace…»
Sotto casa sua non sono più passato ma il mercoledì vengo sempre in questo piccolo supermercato a comperare acqua Perrier e quaderni dove disegnare un seno che vorrei tanto baciare, almeno una volta.

Da facebook… così per gioco

Chi sia la persona che su facebook si nasconde dietro al nick Monica Rossi io non lo so. Lo leggo, a volte scambio dei messaggi con lui. Conosce di sicuro il mondo della grande editoria, di cui parla spesso (e spesso non son d’accordo con lui), conosce di sicuro il cancro con cui convive, da anni.
Stamani ha intervistato una scrittrice, Deborah Gambetta e io, dopo aver letto l’intervista, sul mio profilo facebook ho scritto questo. Così, per passare il tempo. Per gioco.

Appena letto un’intervista di Monica Rossi a Deborah Gambetta. Dal momento che fa caldo, ho mal di schiena, devo lavorare (interviste di basket, una recensione) e sono di umore nero mi è venuto in mente un gioco cretino, tipo: vai su un’isola deserta, ti puoi portare solo 10 libri, oppure, solo 10 cose da mangiare (metterei pomodori e cetrioli al primo e secondo posto, il caffè al terzo, fagioli al quarto, olio di oliva al quinto, caffè al sesto, riso integrale al settimo, pecorino toscano di media stagionatura all’ottavo, birra rossa d’abbazia al nono, pizza margherita con origano al decimo…. cacchio, nemmeno un dolce…)… Ma veniamo alla proposta di cazzeggio estivo…

Supponiamo. Incontro un tipo pieno di soldi che mi dice, fammi da direttore editoriale di una casa editrice con i controcazzi. Poi prosegue. Dimmi dieci autori da contattare, anzi no, contattali…. Comincerei da De Cataldo, che per me è il più bravo giallista italiano., poi chiederei a Mozzi un libro di racconti e poi, appunto, un romanzo a Deborah Gambetta… Gli altri sette, poi, andrei a cercarli nella piccola e micro editoria, quella che nessuno caga. Sarebbe una figata, questa, un lavoraccio, anche. Una sfida

(Dimenticavo: fosse vivo Vitaliano Trevisan sarebbe il quarto… o primo dei famosi, non so)

(Poi. La Gambetta piaceva anche al mio amico scrittore, editor, traduttore e cento altre cose Luigi Bernardi).



Così per la cronaca, magari a qualcuno serve

Nel 1975, proprio il giorno del mio 19° compleanno, ebbi una crisi epilettica. Fui ricoverato. Quando mi dimisero il primario disse: Mi spiace, ma lei non guarirà mai (non ho più crisi dal 1991, da 32 anni, insomma).

Nel 1982 lavoro in fabbrica. Voglio iscrivermi a lettere. Ho un amico iscritto a sociologia, tutti 30. Gli dico: voglio iscrivermi a lettere lavorando. Scusami la franchezza, ma non ce la farai, mi disse (impiegai 8 anni: 110).

Nel 1983-84 faccio il portiere di notte e studio. Nell’albergo in cui lavoro arrivano giornalisti e fotografi da tutta Italia per il processo alla santona Mamma Ebe. Una notte un fotografo di non ricordo quale testata non ha sonno, scende alla reception mi chiede una birra, mi parla del suo lavoro. Gli dico: mi piacerebbe fare il giornalista un giorno… Guarda il vuoto, poi dopo alcuni minuti sale in camera, l’argomento non gli interessa (ho fatto e faccio ancora il giornalista, dal 1986).

Nel 1986-87 (credo) ho scritto il mio primo libro. Lo dico a una giornalista importante. Lo dico a un giovane scrittore. Svicolarono, avevano altri impegni… (poi per fortuna, parecchio tempo dopo, incontrai una scrittrice editor che lo lesse).

Qualche anno fa. Spedisco un mio manoscritto a un editore che conosco. Rispostaccia. Non è un libro, è un casino… (libro che fu pubblicato e con il quale sono arrivato primo – unica volta nella mia vita – a un premio letterario; primo ex aequo con un altro libro pubblicato da La casa di Teseo).

Così, per la cronaca. Magari a qualcuno serve.

Le ripetizioni

A proposito di ripetizioni.
Una volta, nel vecchio blog di Mozzi, qualcuno criticò Mozzi per aver ripetuto la parola bambina.
Mozzi rispose così: una bambina è una bambina, una bambina, una bambina.

Anche i cani sono cani, cani e poi ancora cani.
Da “A ciascuno il suo” di Sciascia:
Questo ritorno dei cani portò il paese intero, per giorni e giorni (e così sarà ogni volta che si parlerà della qualità dei cani), a sollevare riserve sull’ordine della creazione: poiché non è del tutto giusto che al cane manchi la parola. Senza tener conto, a discarico del creatore, che se anche la parola avessero avuto, i cani in quella circostanza…

Ho voglia di scrivere, insomma di stare un po’ con Anna

Hai finito di scrivere un libro e magari lo hai già rivisto barra corretto una volta? Ora fermati, aspetta, fai altro e pensa ad altro. Riprendi a lavorarci poi, senza fretta.
Oppure. Quando si scrive si scrive per gli altri, punto.
Mi son venuti in mente due (tra mille) consigli che leggevo vent’anni fa, in rete (questo blog è nato il 23 marzo 2003).
Si sa che la gente dà buoni consigli, cantava DeAndrè.
Allora, sull’aspettare. Dipende. Sull’editing (e io ne faccio cento delle cose che scrivo, 99 orimo della pubblicazione) posso anche aspettare uno o due anni, ma sulla storia no: vado avanti fino alla fine. Nell’editing, poi, potrò ritoccare, aggiungere e tagliare ma la storia quella è.
Sul consiglio numero due: si scrive per gli altri.
Vero
Anche no. Ho in mente una storia e ho voglia di scriverla: ma per me stesso.
E ho in mente solo il primo (lungo) capitolo, poi non so che sviluppi potrà avere.
Ho iniziato ma le prime righe non mi sono piaciute, e così mi sono fermato.
Stanotte, però, va a sapere, non riuscivo a dormire. Le tre, poi le quattro. Niente. Pensavo alla storia. A cosa scrivere. Avrei dovuto alzarmi, scrivere. Sembra quasi che le parole di una storia a me vangano di notte. Qualche volta il mattino ricordo, in genere no, sono qualcosa di vago, troppo vago.
E comunque, la protagonista è Anna Antichi.
Di lei ho scritto ne La donna che parlava con i morti (Newton Compton poi Il Vento antico) e nel libro Vegan. Le città di Dio (titolo sbagliato, quel Vegan andava tolto).
Ho voglia di passare un po’ di tempo con lei, adesso.

Da La donna che parlava con i morti
Il Vento antico

Sono tristi le risaie d’inverno, ma resterò sempre qua, tra queste nebbie che avvolgono i miei ricordi. Sono in treno, ora. Ho le cuffie, così nessuno prova ad attaccar bottone e non sento il casino degli studenti. Sto ascoltando La ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez.
… resterai sempre un po’ anarchica, vero Anna?
Comunque. Finalmente faccio quello che volevo fare anche se, quello che faccio, non è bello come ti fanno credere certi libri o film.
C’è sempre troppa nebbia attorno alla nostra vita. Troppo dolore.
Ho appena risolto un caso e oggi è una giornataccia.
Uno schifo di caso: una giovane madre che, dopo aver scoperto ed essersi data al sesso estremo con il vicino di casa pervertito, ha deciso di gettarsi giù dal sesto piano, vorrei non pensarci ma devo vedere suo padre, il cliente che mi ha pagato insomma, ho appuntamento alle undici, merda. Devo dirgli la verità – per questo è una giornataccia – altrimenti quello continua a sospettare che sia il genero la causa della morte della figlia, e anche se il genero è un senzapalle che non sa da che parte è girato e che vive per andare allo stadio la domenica, è giusto che la bambina resti a lui.
Mi sto specializzando nelle morti misteriose e nella ricerca di persone scomparse.
La sveglia da anteguerra, ora, mi butta giù dal letto alle sette di mattina. Da due anni, vado in stazione, prendo un caffè e poi, aspettando il treno che, in un quarto d’ora, venti minuti, mi porterà a lavorare fumo la seconda sigaretta della giornata.
Risaie e ricordi, risaie e ricordi, risaie e ricordi, arrivo, frenata, si scende, caffè al bar dell’altra stazione, poi terza sigaretta e via a piedi e in fretta in ufficio.
Ho preferito diventare una pendolare che trasferirmi. Sono troppo attaccata alla mia città e alla casa che mi ha lasciato mio padre.
La titolare dell’agenzia, mi trovo bene con lei, ha cinquantadue anni ben portati, è specializzata, lei, in corna e spionaggi industriali, mi ha proposto di diventare sua socia; accetterò.
Mi lascia poco tempo libero questo lavoro. E un po’ mi ha cambiata. Sono meno sboccata, ad alcuni clienti dava fastidio; e quando sono distratta non devo gettare per terra i pacchetti di sigarette vuoti e poi cerco di vestirmi in modo decente. Mi arrangio al mercato, comunque, sono mica una figalessa da boutique, io.
A volte, quando mi sento sporca perché lavoro per clienti senza scrupoli, o mi intrometto nella vita degli altri, nei loro tradimenti e nelle loro debolezze, rimpiango il lavoro in libreria.
Oggi lo preferirei: perché quando dirò a quel vecchio chi era sua figlia, lo so, mi odierà, mi maledirà; poi mi pagherà; poi, quando me ne sarò andata, bestemmierà, immaginerà la sua bambina che si fa legare a un letto, nuda, che si fa frustare; e poi piangerà, si ricorderà di lei quand’era piccola mentre io passerò il resto della giornata a pensare che sarebbe stato meglio essere in libreria piuttosto che ferire, in modo così atroce, un uomo.
Spero mi creda, spero proprio non mi costringa a mostrargli le foto che mi son fatta dare dal vicino di casa pervertito (l’ho costretto, altrimenti lo denunciavo).
No, no, non devo rimpiangere il mio passato. Vado, racconto, incasso. Ma ricorderò sempre chi ero.
…. due anni fa, giorni che non potrai dimenticare mai, vero Anna?

Due anni prima…

Alla riapertura della libreria mancava un giorno. A settembre mancavano invece dieci minuti. Esatti. Guardando l’ora, Anna ipotizzò un brindisi di mezzanotte, come si usa a capodanno. Ci ripensò: era un’idea stupida.
… di una stupida, inutile commessa di libreria, pensasti. Ti sentivi così. Si è sempre quel che ci si sente.
Si alzò dalla vecchia sedia a dondolo…