RIFIUTO AD OCCHI CHIUSI
«Mi rifiuto», continuava a ripetersi Maria Luce. Seduta scomodamente su una panca dello stanzone del commissariato centrale, la testa appoggiata al muro, gli occhi chiusi per difendersi dalla luce al neon, era lì oramai da più di quattro ore.
Era stata fermata intorno a mezzanotte, in pieno centro storico, mentre rientrava a casa a piedi. Fermata: un eufemismo.
Le era saltato addosso un uomo che urlava. « Puttana, ora te ne torni al tuo paese, con un calcio nel culo».
L’uomo l’aveva immobilizzata, schiacciandola con violenza contro il muro, girandole con forza un polso dietro alla schiena e quasi soffocandola. Aveva perso i suoi braccialetti, le armille, come li chiamava. Gliele aveva strappate l’uomo, così come l’aveva derubata dei contanti, dell’orologio e dell’anello con lo zaffiro, regalo di laurea dei suoi genitori.
Maria Luce aveva pensato a una rapina prima di uno stupro. Poi si era un po’ calmata quando aveva sentito l’uomo chiamare qualcuno con un walkie talkie.
«Ondaronda a pattuglia, ne ho presa un’altra. Sono alla cattedrale».
La pattuglia era arrivata, una vera pattuglia di polizia, per fortuna. Lei aveva subito iniziato a raccontare dell’aggressione allo spilungone in divisa, che invece di ascoltarla l’aveva ammanettata e spinta nel furgone. Dentro c’erano già alcune persone, uomini e donne silenziosi. Due ragazze in fondo piangevano. Pochi minuti dopo erano stati tutti sbarcati in questura. Neanche il tempo di chiedere che cosa stesse succedendo o di parlare con qualcuno. Erano stati tolti loro borse e cellulari, poi via, tutti rinchiusi nello stanzone. In tutto erano ventitré e venivano convocati uno per volta, circa uno all’ora. Maria Luce pensava che a quel ritmo avrebbero finito la sera successiva. Tutto le appariva incredibile e assurdo. Non aveva altro da fare che pensare. E poi l’aggressione era stata così violenta che quegli attimi le tornavano in mente senza sosta.
L’uomo aveva detto qualcosa sul suo abbigliamento, qualcosa del tipo «troia, vestita come una grandissima troia».
Già, il suo abbigliamento. Maria Luce recitava in una compagnia amatoriale e quella sera era andata in teatro già con l’abito di scena: camicia trasparente e scollata con ampi volant, pantaloni aderenti e al ginocchio, scarpe con il tacco alto. Era ancora truccata e i capelli ricci e rossi attiravano gli sguardi. Ecco, forse quell’uomo si riferiva al suo abbigliamento… ma come mai non le aveva dato modo di spiegarsi? Non l’aveva neanche ascoltata. E poi perché insultarla? Perché derubarla?
L’anello era stato l’ultimo regalo di suo padre, che aveva fatto appena in tempo a vederla laureata, ma non in cattedra, insegnante di lettere al liceo, né in scena con la compagnia, né alle sedute del consiglio comunale per la tutela del parco. Impresa solitaria anche quella, una battaglia vinta per la quale si era concessa l’ennesima armilla.
Maria Luce si guardò intorno. Accanto a lei sedevano le due ragazze. Non piangevano più e una accettò di scambiare qualche parola. Si chiamava Estrella, era argentina ed era venuta in Italia, da dove erano emigrati i suoi nonni, a terminare gli studi universitari. Durante l’arresto era stata schiaffeggiata violentemente.
Vicino a Estrella, Maria Luce se ne accorse solo allora, c’era un bel ragazzo sui 25 anni. Armeggiava con una parrucca e aveva resti di trucco sul volto. Darko! Era stato un suo studente, uno speciale.
Darko abitava al campo nomadi. Del suo diploma a pieni voti aveva scritto il giornale per il quale ora lavorava, cronaca.
Darko si mise a ridere: «Ohi prof, era ora che mi riconoscessi!».
«Ma che ci fai qui, vestito come un viado brasiliano? E poi che cosa sta succedendo, lo sai tu?».
«Servizio sulla prostituzione transessuale. Estrella mi fa da interprete, spagnolo e portoghese. Ci hanno arrestato quelli dell’Ondaronda, il nuovo servizio d’ordine municipale. Tranquilla, prof, il commissario è una brava persona e ci lasceranno subito uscire. Beh, almeno appena riescono a chiarire l’equivoco, così poi lei mi spiega come è finita qui».
Chiarire, spiegare. Maria Luce non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Però continuava a rifiutarsi e con gli occhi chiusi a sognare giustizia su quella panca del commissariato.
Qualche tempo dopo, Manlio Brambilla, quello dell’Ondaronda che aveva arrestato lei e gli altri, fu condannato in primo grado per furto, ricettazione, violenza privata, lesioni e altro. Era stata proprio lei a denunciarlo.
Mesi prima Brambilla aveva dovuto cedere l’attività commerciale. Troppo da fare con le ronde per gestire la macelleria che il suocero gli aveva ceduto. La moglie lo aveva piantato per un idraulico senegalese, gran lavoratore. Per risarcire Maria Luce e altre vittime, Brambilla aveva dovuto svendere la casa e ora abitava in una comunità alloggio gestita dal municipio. Ondaronda era stata disciolta e il sindaco di allora era sparito nel nulla dopo lo scandalo. Maria Luce, ad occhi chiusi, giocava con la sua nuova armilla.