Io a Cortona non ci sono mai stata.
Però la conosco. Conosco le vie, le piazze, i viottoli fuori porta e le colline attorno.
Io a Torino ci abito.
E la riconosco. Riconosco le vie, le piazze, i caffè e gli scorci delle colline attorno.
Una storia funziona quanto tu ti crei la tua personale mappa, dove la lettura diventa il materiale con cui edificare case, tirare su muri e tracciare toponomastiche che non saranno mai reali, ma ricostruite a regola d’arte dalla tua immaginazione che è la malta che congiunge le parole, le frasi, i punti.
Io conosco i gradini di Vicolo del Precipizio. Fossi nata là, ci sarei caduta. Mi sarei sbucciata le ginocchia. Peggio, li avrei ruzzolati tutti e settantasette, conoscendomi.
I numeri sono importanti in questa storia. Hanno la funzione delle pietre miliari che costeggiavano le strade romane. Sono funzionali e simbolici al tempo stesso. Ci sono gli anni di Cristo, il quarto di secolo di una gioventù apparentemente bruciata, la prima fidanzata, i tre storici amici, i nove mesi di convivenza, i venti giorni nel reparto di pneumologia, i vent’anni prima di rivederla di nuovo, i tre anni di terrore, i quarantaquattro quasi da compiere, i quarantasette compiuti, i trentasette strozzati, i ventiquattro racconti dell’osteria, i quindici minuti di tutti quei giorni dove il reale resisteva, assediato dall’abisso di tutti gli altri attimi di smarrimento.
“Ha voluto immortalare il risveglio della mamma fotografandola di spalle: lei che, appena alzata, guarda fuori dalla finestra. Magari sbadiglia, o sorride alle rondini, chissà. Io però in quella fotografia vedo il babbo, seduto: l’accarezza con lo sguardo e aspetta i quindici minuti.”
Ci sono i fantasmi in questa storia. No, non quelli fruscianti e con le catene, ma quelli che, allo stesso modo dei primi, disturbano il sonno, sino a dissolverlo in notti convulse ed albe nervose, senza soluzione di continuità.
Ci sono le distanze. Non solo geografiche, ma affettive, di pensiero e temporali. Perché ogni cosa ha il suo tempo e c’è un tempo per ogni cosa. Nella vita come nelle storie, c’è chi accelera e chi rallenta il passo. Talvolta ci si aspetta, oppure per una serie di circostanze ci si ricongiunge. Talvolta si guarda l’altro allontanarsi e nonostante la nostra volontà non riusciamo più a raggiungerlo, né lui riesce ad allinearsi al nostro passo. E quello che in un certo tempo ci sembra ancora realizzabile, scopriremo essere poi un vero distacco, uno spazio non più colmabile che ci separa per sempre da chi credevamo ancora possibile avere al nostro fianco.
Ci sono i giochi in questa storia. Quelli di bambino. Quelli di risa e di pianti, di risse e di sfottò. C’è Il palleggiarsi continuo tra Torino e Cortona, tra presente e passato. Che pare il vecchio Pong di Atari, o meglio, una partita a scacchi, di quelle che gli sfidanti studiano le mosse e poi tac, spostano un alfiere o la regina e con il palmo della mano schiacciano il timer a lato, per decretare che il loro passo è compiuto, ora tocca all’altro. Ora sta a te.
Ci sono gli amori in questa storia. Quelli veri, quelli presunti, quelli mai sbocciati, quelli vagheggiati, quelli distrutti, quelli traditi, quelli rabbiosi, quelli gelosi, quelli che fanno male, quelli per sempre, e quelli per mai. C’è l’amore per i luoghi, per i paesaggi, per le voci e per i silenzi, per le bestemmie oneste e per la saggezza antica, per le ritrosie e le sfacciataggini, per l’orgoglio e la vergogna, per la memoria delle cose e delle persone, per il raccontare e per il raccontarsi. C’è l’amore per le storie e per l’andarle a scovare, negli interstizi dei ricordi.
“Quando vidi che la storia di Tito e dell’Andreina non sbocciava, telefonai alla professoressa Moschetti. La consideravo il mio portafortuna. Non era in casa. Era al camposanto e nessuno – dio quanto m’arrabbiai con mio padre, che in quei giorni era tutto preso a consolare la mamma di Mariano, e mia madre, svampita come sempre – mi aveva avvisato.”
E ci sono le storie in questa storia. E sono di quelle storie che una volta che le hai iniziate, sai che devi finirle. Che non puoi lasciarle lì ad aspettare. Come un piatto che, se si freddasse perderebbe il sapore, la fragranza e quel certo non so che. Che quando hai finito ne vorresti ancora un po’, anelando persino alla pervicace persistenza di tutti quei sigari smozzicati.