Passeggio nel corridoio di un reparto ospedaliero. La maggior parte dei ricoverati è gente che di anni ne ha tanti, tanti anni e tanti acciacchi. La maggior parte delle stanze, nelle quali ci sono sei posti letto, ci sono tre quattro ricoverati, più persone, familiari o badanti, che assistono.
La maggior parte delle volte che vado lì, io, ho voglia di scappare, o di andare a fumare fuori.
Poche ore fa.
Sono nervoso, sono in pensiero per una persona della mia famiglia che adesso è sotto osservazione, cammino su e giù.
All’improvviso mi sento osservato: in una stanza da sei posti letto c’è un vecchio, che mi guarda. E’ immobile sul letto, ha l’ossigeno, una flebo. Faccio avanti e indietro, ripasso davanti, vedo che mi osserva con insistenza.
Mi fa un cenno timido con la mano, un mezzo cenno, direi.
Entro nella stanza, domando: Ha bisogno? Devo chiamare l’infermiera?
Mi fa cenno di no, ma mi fa anche cenno, stavolta inequivocabile, di avvicinarmi a lui.
O mamma, penso, magari deve sfogarsi e io ne ho del mio…
Tutto molto più semplice, invece. Il vecchio mi dice che non arriva a prendere la bottiglietta dell’acqua minerale, sul comodino.
Ce n’è ancora? Me la può allungare?, di dice.
C’è poca acqua (non gasata) nella bottiglietta, la beve lentamente, quando ha finito me la porge e me ne indica un’altra (gasata, stessa marca di quella che bevo io).
Mi fa: Me la può aprire e avvicinare così dopo posso bere?
Ma certo, dico.
Lo guardo meglio. No, non è vecchio. Avrà settant’anni, forse meno. L’ospedale e l’ossigeno e la flebo invecchiano. E poi la stanza, semibuia, vuota, silenziosa.
Ci son silenzi e silenzi: questo fa male.
Lo saluto, esco.
Mi dice: Mi scusi se ho approfittato della sua gentilezza.
Si figuri, dico, e vorrei dire altro, che non mi viene.
Anche il mio babbo aveva l’ossigeno, il drenaggio ai polmoni e la flebo ma non riusciva comunque a dimostrare nemmeno i suoi 65 anni. E non poteva parlare con la bocca. Però, come sempre, ci ha detto un mare di cose: con gli occhi. Era imbarazzato per noi, si preoccupava per noi. Però non è mai stato solo, mai.
Remo mi spiace… vorrei che quei controlli andassero più che bene.
La differenza è che io, al contrario, non vedevo l’ora venisse il mio turno per andare ad assisterlo e se non era il mio turno inventavo di tutto per andare a trovarlo.
Quando entravo, sempre senza avvisare, era felice: allargava gli occhi come se stesse vedendo chissà chi. Avevano, lui e mia mamma, delle foto mie e di mia figlia. Le mostravano a tutti come cimeli. A volte, quando entravo a sorpresa, mi sentivo salutare da persone mai viste prima che mi dicevano – “Lei è Paola, la mamma di Giulia, la riconosco!” –
corrreggo sono sparite le due ì ì.
quando ci si trova faccia a faccia con la sofferenza, un piccolo gesto di cortesia fonde le anime, si vorrebbe poter fare qualcosa di più, invece quasi sempre ci si tira indietro per non sembrare di troppo. Tu termini con quel ” e vorrei dire altro” è molto bello. La tua bocca è rimasta chiusa, parole in gola, han parlato i tuoi occhi e lui stanne certo ha capito tutto quello che avresti voluto dirgli.S’ s’. lo ha capito è gli è bastato per tutta la giornata e forse anche più.
Remo, che succede?
Spero tutto bene…
I silenzi imbarazzati, il pudore che non trova parole.
E poi: chi ha veramente bisogno spesso non strilla, non mendica attenzione. Chiede scusa perché crede di importunare.
quelle famose parole che rimangono dentro di noi e non escono. lo capisco bene.
Ti abbraccio forte da qui per questo momento difficile, caro remo.
Criscia
…