Perché ho scritto dei libri? mi è stato chiesto e mi son chiesto.
Parto dal primo, Il quaderno delle voci rubate.
Ho 39 anni, faccio il giornalista e, da giornalista, sono obbligato a scrivere in un certo modo e poi gli argomenti non li scelogo io. Ho 39 anni, mi sono laureato da pochi anni, lavoro da mattina a sera nella redazione del giornale La Sesia, gioco a bowling a livello agonistico e, oramai, il sogno di scrivere – che mi aveva accompagnato sempre – lo sto accantonando. Una sera però ho mal di denti, e, cosa strana, non esco di casa. Esco sempre io, amnche solo per un giretto di dieci minuti. Anche se ho la febbre. Una voce mi dice “raccontami una storia”: cominciai a far scrivere le mie mani. Scrivevo senza sapere cosa avrei scritto due righe dopo. Finii a tarda notte, poi misi via il bloc notes. Già, avevo scritto a mano. L’incipit de Il quaderno delle voci rubate è stato scritto a mano.
Sa di antico il mio piccolo bar: è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comperare i dolci della pasticceria Delrosso. Qui agli inizi del 900 c’era la bottega di un falegname.
Due mesi dopo lo riprendo in mano il bloc notes grande, formato degli a4. Ricordo molto bene. Era un giorno di Pasqua. In fuga da un pranzo familiare, ero solissimo in redazione. Prima di rileggere dico a me stesso: ora rileggi e poi farai come sempre: distruggerai. Hai fatto sempre così, da anni.
Rileggo. E per la prima volta mi piace quel che ho scritto. Mi viene voglia di continuare. Voglio continuare. Perché non ho nessun caporedattore nessun direttore a cui dare spiegazioni.
Il libro fu poi pubblicato dal giornale La Sesia, che lo diede in regalo agli abbonati, che erano circa 1500. O meglio: doveva essere il regalo per gli abbonati.
Poi ci fu un ripensamento. Agli abbonati furono date due opzioni: o il mio libro, o un’agenda con euroconvertitore.
I più scelsero l’agenda.
Il quaderno delle voci rubate, per me, è un libro fantasma. Tant’è che ho proposto, ma invano, ad alcuni editori di ripubblicarlo. Ma torno a ripetere: quando lo scrivevo mi sentivo libero, libero di scrivere come volevo io. Certo, c’era anche la voglia di raccontare storie che avevo dentro, nella testa e nelle mani, da tempo. Ma scrivere fu soprattutto un atto di ribellione.