Facevo prima media e mia madre mi faceva uscire un’ora al giorno se non aveva preso insufficienze, altrimenti in casa, con la testa sui libri a fingere di studiare.
Il mio voto preferito era dal cinque al sei: potevo uscire.
In quell’ora correvo sempre davanti a un negozio. Non ero l’unico, non ero mai solo. Tutti lì per la bambina dai capelli neri, figlia dei proprietari del negozio.
L’ho rivista ieri, cinquant’anni dopo. Era elegante da piccina, lo è adesso. I capelli sono grigi, ora, ma il portamento è della donna che sa di essere bella e non le importa dell’età.
Mi ha guardato, l’ho guardata, in questo mezzo secolo ci siamo incrociati poche volte per dirci poche parole.
Io però dovrei dirle grazie.
In un pomeriggio di primavera uscì dal negozio. Ero anche io lì, nella mia ora di libertà, e c’erano altri, tutti maschi. Lei cominciò a camminare, e noi tutti dietro. A un tratto mi prese per mano. Pum, tutti zitti.
Aveva preso la mano a me, solo a me, e non era mai successo ad altri. Ero strafelice. La pagai. Prima di andare a casa mi volarono addoso, gli altri, non avrei dovuto.
Quando mi volarono addosso e mi mollarono qualche pugno ero contento di quello che mi stava capitando: avevo vinto io.
Lei questo non l’ha mai saputo e credo che non lo saprà mai. Non so nemmeno se si ricorda d’avermi preso per mano, una vita fa. Una volta sola.