Cortona. Stanotte alle 4 ho terminato la prima revisione del libro Il sentiero dei papaveri.
Prima di addormentarmi ho messo giù una bozza della sinossi.
Da rivedere, certo. Eccola (ripeto, una bozza).
Nella periferia violenta di una città senza nome c’è un locale, il Bar del Capitano.
Sembra un bar d’altri tempi, non c’è nemmeno la televisione.
Il protagonista (anche lui senza nome) ci mette piede il giorno di Carnevale. Il titolare, che tutti chiamano il Capitano, gli dice «Ti stavo aspettando.»
Poi gli dirà: «Sei uno scrittore.»
Il protagonista vorrebbe fuggire. Vive col padre, non lavora a causa degli attacchi di panico, e non vuol sentirsi chiamare scrittore: anni prima ha scritto un libro (solo 49 le copie vendute) ormai dimenticato.
Quello che non riesce a dimenticare è un giorno di pioggia, mai confidato a nessuno, un giorno che lo ha segnato; e invece, il giorno in cui entra nel bar rivive e racconta, come se fosse in trance, la sua storia segreta al Capitano.
Il Capitano gli dice: «Le pareti di questo bar sono fatte di storie belle e dolorose, come quella che mi hai raccontato tu…»
Per dieci mesi frequenterà quel bar (dove si fa il gioco dei nomi diversi: ognuno ha un nuovo nome), ascoltando storie incredibili, sembra che il bar le attragga, e rielaborando la sua storia segreta: mancavano delle pagine.
S’intrecciano storie, nei dieci mesi raccontati dal Sentiero dei papaveri, storie di dolore ma anche storie d’amore: come quella di Marina, vicina casa dello scrittore e cameriera del bar. È innamorata del protagonista, ma non è ricambiata. Non vuole legami, lui, gli basta Verena, una escort che accompagna in clinica, quando sta male. Giorno dopo giorno si sente sempre attratto da una frequentatrice del Bar, Rosa. Era un avvocatessa, ora vive tra gatti e galline, fuori città.
Nel romanzo non compaiono parole dell’epoca digitale. I personaggi non le citano. Sembra di essere negli anni 60 ma invece ci racconta i giorni nostri visti con gli occhi di chi cerca di vivere senza i nuovi feticci.
Ci sono semmai alcuni oggetti-simbolo di un mondo che sta scomparendo. Una vecchia sveglia, una radiolina transistor, una macchina da scrivere, penne stilografiche.
Il protagonista dice: «… la parola rete per me ha un significato preciso: trappola. E il navigatore è colui che naviga, non l’aggeggio che sta impedendo alla gente di usare la piccola bussola che avevano nel cervello.»
Ha qualcosa di magico il Bar del Capitano? Così parrebbe. Il Capitano ha visioni, pratica la meditazione, ha ricevuto insegnamenti da un prete strano, quasi un eretico: il Piccolo Prete.
Un giorno nel Bar entra la violenza. Non solo. Il Capitano e i suoi amici vengono interrogati, accusati d’essere una setta.
Sono colpevoli perché sognano di costruire nuove città. «L’inquinamento peggiore non si vede, arriva nella testa della gente e non fa fumi né puzza, ma pervade tutto, ed è potente.»
I Capitano dovrà fuggire, è il suo destino, da sempre. Prima di andarsene, allo scrittore-cantore racconterà la propria “storia spuntata”, tra ospizi ed elettroshock. E gli lascerà un compito: «Dovrai raccontare le storie della nostra storia».
Una breve spiegazione sul libro.
Per la storia di un gruppo di persone che decide di vivere in un proprio mondo mi sono ispirato alle spiegazioni sulla rivoluzione digitale di uno psicanalista, Emilio Mordini.
Nel personaggio del Piccole Prete c’è un po’ di don Luisito Bianchi, scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere, unico sacerdote che rifiutò lo stipendio del sostentamento del clero, e c’è un po’ di un salesiano della mia città, don Piero Borelli. Entrambi non ci sono più, entrambi non ebbero una vita facile con le rispettive gerarchie. Nel Piccolo Prete c’è anche un terzo sacerdote, un “ricostruttore” insegnante di filosofia, che tenne un corso sulla meditazione anni e anni fa. Purtroppo non ricordo il suo nome.
Nella vicenda di Luca (una delle storie che il mio protagonista racconta) c’è il mistero del figlio dell’esploratore Augusto Franzoj. Un mistero non ancora svelato. Era figlio di Franzoj, ma non della donna con cui viveva il padre. Fu lui a trovare il corpo del padre, morto suicida, ma poi scomparve nel nulla.
La storia del Capitano, una sorta di messia o di Che Guevara, ci sono analogie con la biografia della poetessa Mariella Mehr.
La storia delle due città. Una ricorda la città anabattista di Munster, che fu distrutta da Cattolici e Protestanti, l’altra Kronstadt, che si ribellò, e per questo fu distrutta, quando vide che il sogno comunista era destinato a restare solo un sogno.
E poi ci sono tanti riferimento ai miei vecchi libri. Dal bar delle voci rubate a Bastardo posto. Ma la storia è una storia tutta nuova. Con elementi autobiografici, disseminati in qualche pagine e in personaggi diversi.
Il personaggio principale è uno scrittore che ha pubblicato un solo libro e che non sa se continuerà a farlo.
Lo farà, scrivendo Il sentiero dei papaveri.