Le belle recensioni: La morte di Auguste, di Gerges Simenon (Valerio Calzolaio)

Bella recensione di un libro da leggere.

La morte di Auguste
Georges Simenon
Traduzione di Laura Frausin Guarino
Romanzo
Adelphi Milano
2025
Pag. 157 euro 18
Valerio Calzolaio
Parigi, Le Halles. Marzo 1966. Muore a quasi 79 anni Auguste-Victor-André Mature, accasciandosi per un ictus nel suo piccolo splendido bistrot di rue de la Grande-Truanderie, Chez l’Auvergnat, prosciutti e salami appesi in vetrina, bancone di stagno e tavoli di marmo. Lo aveva rilevato nel 1913, con i suoi risparmi e un po’ di soldi che il fratello gli aveva prestato, senza immaginare che l’anno dopo lo avrebbero spedito al fronte. Lentamente poi ne aveva fatto un locale eccellente e rinomato, amato anche da clientela importante (ministri, ambasciatori), due stelle Michelin. Diciassette anni fa aveva coinvolto alla pari nella gestione il secondo dei suoi tre figli, Antoine, ora quasi 50enne, restato a lavorare con lui e la moglie fin dall’inizio, mentre il primo figlio Ferdinand (tre anni più grande) diventava un solerte dedito magistrato e il terzo Bernard (tre anni più piccolo) un avventuroso debosciato semialcolizzato. La morte di Auguste scatena fame di eredità nei fratelli. Antoine è felicemente sposato con una ex prostituta, sensibile attenta silenziosa, lei (con una malattia venerea) non poteva aver figli, hanno condiviso amore e fatica. I fratelli non si sono mai molto fatti vedere al ristorante (il minore solo per chiedere soldi), hanno delegato sia l’affetto per il padre, originario di Riom nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi, arrivato a Parigi senza un soldo in tasca, sempre restato “contadino” dentro, sia l’assistenza ai genitori che invecchiavano e arrancavano progressivamente (la madre ormai è da tempo poco presente alla vita). Ferdinand ha una bella ambiziosa arcigna moglie, Véronique, e due figli già grandicelli e ormai autonomi. Bernard ora sta con la 28enne Nicole, graziosa elegante vivace, ex modella e indossatrice, cattiva. Il testamento non si trova, nemmeno denaro nascosto, solo una chiave nel portafoglio. Si scatenano attriti, risentimenti, menzogne. E non è un bel vedere.
Il romanzo è molto bello. Mesto angosciante avvilente, ma eccelso e struggente. Di Simenon sappiamo quasi tutto (1903 – 1989, origine bretone, belga di nascita, francese d’adozione, non solo parigino d’elezione, oltre trecento romanzi, uno degli autori più letti al mondo) e la grande casa editrice milanese Adelphi sta ottimamente progressivamente garantendo la pubblicazione integrale dei suoi scritti. Questa lunga ansiogena tragedia familiare, originariamente del 1966, né noir né rosa, era inedita in italiano. La narrazione è in terza varia al passato, prevalentemente su Antoine, sempre più disgustato dalla situazione che si viene a creare dopo la morte del padre cui era legatissimo (da cui il titolo): “si capivano. Avevano lo stesso genere di vita, lo stesso modo di pensare, vivevano in mezzo allo stesso tipo di persone”. Un ruolo decisivo di coprotagonista è svolto in tante pagine liricamente descrittive dal quartiere dove Auguste e il figlio hanno avuto consolidato successo enogastronomico, le strade e la gente, le botteghe mitiche e i mercati antichi; siamo quasi alla vigilia dello “sventramento” del 1971 e già si annunciano progetti, ristrutturazioni e delocalizzazioni; una seconda morte nel romanzo, non attuale ma “annunciata”, anche adesso restituendoci mirabilmente la Parigi che qualcuno di noi conobbe “prima” e oggi ritrova solo nei libri di storia e fotografia: “nel giro di pochi anni Le Halles sarebbero sparite, i padiglioni smontati come giocattoli”. Il vino che accompagna spesso i pasti è vario e mai ordinario: Gamay d’Auvergne, Chanturgue, bianco rosé di Corent o di Sauvagnat; poi acquavite o armagnac. Molto in sottofondo il necessario accompagnamento musicale da funerale.

Libri miei, due stroncature

È giusto che insieme alle recensioni positive io pubblichi quelle che belle non sono (E non disse nemmeno una parola… non è solo un gran bel titolo di un libro)

Su Amazon: Forse non morirò di giovedì.

Il titolo mi è stato consigliato da amici, avevo grandi aspettative ma non ho trovato interessante la storia, trita e ritrita, la scrittura e i salti temporali secondo me fuori tempo. Magari riproverò con un altro lavoro dell’autore.

Giuseppe Ricciardi su Amazon

Poi c’è questa recensione di Claudio Pinna su thrillernord di Bastardo posto

Questo romanzo tocca quindi temi non banali, anzi attuali, come la ludopatia, la collusione delle mafie con il mondo dell’informazione e delle forze dell’ordine, oltre che della Chiesa. Ma in tutto questo c’è un ma.

Il ma è la forma narrativa scelta da Remo Bassini: la sua voce, peraltro molto ben definita e identificabile, rende la lettura davvero ostica e alla lunga stancante, per via della farraginosa sintassi che, forte di una punteggiatura sovrabbondante e pleonastica, obbliga ogni volta il lettore a cercare di capire quale sia il soggetto della frase, di cosa si stia parlando, come sia legata al resto.

Mille incisi evitabili con poco; per esempio: basterebbe non mettere il soggetto della frase tra due virgole. Pare inutile specificare che si tratti di una scelta stilistica da parte dell’autore. Sembra necessario, da parte mia, spiegare che questa scelta stilistica risulti quanto mai inefficace e infelice. A tutto questo va aggiunto un altro ostacolo non da poco: il romanzo non è suddiviso in capitoli.

A voler rincarare la dose, ci sarebbe da aggiungere che tutta la storia è come una sorta di lunga e interminabile narrazione, con spostamento costante del punto di vista del narratore, con personaggi che si fatica a “vedere” e con un approccio narrativo che, se ancora è possibile riferire a una precisa scelta stilistica, ovvero la narrazione pura, tuttavia è molto difficile da approvare poiché, unita all’uso convoluto della sintassi, rende la lettura del romanzo estremamente complessa, faticosa e laboriosa.

Profumi e colori di Orta nel libro La suora

alcuni passi de La suora, dove c’è Orta (il luogo del Piemonte che più amo…)

Orta San Giulio, dieci anni fa, una sera di gennaio. Saranno state le dieci, o le undici, che importa? Nelle sere sbagliate il tempo conta poco. Ero davanti all’ingresso dell’albergo dove avrei pernottato, non avevo voglia né di camminare né di salire in camera né di essere altrove.
(…)

E poi successe che, senza dire una parola, ci ritrovammo a camminare, piazza Motta, l’antico Broletto, via Olina, poi indietro, ancora in piazza Motta, i portici e le ultime finestre illuminate che, presto, avrebbero ceduto alla notte.
«Chissà quante storie ci sono nascoste là dentro» disse Nora, indicandomi il vecchio, imponente Albergo Orta, chiuso da anni.
Vedendomi sovrappensiero aggiunse «Lei ha un peso dentro».
(…)

…. all’isola di San Giulio il tempo viaggia su altri binari, perché il tempo, lì, è un tempo diverso. Forse più vero, perché si cura poco di orologi e calendari. È il tempo dell’anima, vien da pensare.
(…)

Nora era a Orta per un motivo preciso, io no; ero a Orta perché conosco bene i volti di questo borgo che profuma d’antico: nei giorni caldi della primavera e dell’estate Orta è un’esplosione di colori e di voci, ma nelle sere di freddo e nebbia è triste, senza vita. Era questo il volto che a me interessava. Il silenzio interrotto dal rumore dei miei passi e dallo sciabordio delle acque del lago.
(…)

So tutto, però, sulle suore benedettine che scelgono la clausura nel monastero Mater Ecclesiae a Orta San Giulio.
Loro dicono d’essere vicino a Dio, vivono nel silenzio e nella preghiera, ma vivono da recluse. Escono solo se stano male e devono essere ricoverate in ospedale, oppure se muore un loro parente. Oppure per votare. Escono l’ultima volta quando muoiono. Alle persone che amano spiegano che non è importante vedersi, sentirsi, parlare. Si svegliano prima delle quattro e, mentre il mondo sta ancora dormendo, assistono e pregano alla prima messa. Niente televisione, niente radio, niente internet. Vivono osservando la regola benedettina, Ora et labora, nel silenzio. Nell’isolamento più totale. Solo qualche giornale cattolico da sfogliare la sera, dopo la cena e dopo l’ultima preghiera, la Compieta. Poi la notte, in una minuscola cella.
(…)

Poi a Milano sono riconoscente. Le fughe nei fine settimana mi avevano fatto scoprire il lago d’Orta. Ero curioso di vedere i luoghi descritti da Gianni Rodari in “C’era due volte il barone Lamberto” o da Ernesto Ragazzoni, un poeta maledetto e dissacrante, nato proprio a Orta. Avevo conquistato i miei studenti, leggendo la poesia che scrisse quando fu inaugurato un cesso pubblico.

Lodate dunque, culi d’Orta, i cieli!
Cularelli innocenti degli asili,
immensi tafanari irti di peli…
(…)

Adesso, sto ascoltando l’acqua che s’infrange sul motoscafo che mi sta portando all’isola. Ecco, sono arrivato. Non so ancora cosa ti racconterò.
Ma so che ho qualcosa da dirti, ancora.

PS. L’albergo che cito all’inizio è il Leon d’oro. Lo stesso in cui soggiornò Dostoevskij

Nel caso: questo è il primo capitolo

«Sono giorni che ci penso, ci penso e piango». Da Il bar delle voci rubate

Un estratto (parte del primo capitolo) dal mio primo libro, Il bar delle voci rubate.


Per un certo periodo della mia vita, quando restavo da solo, su un quaderno avevo preso l’abitudine di collezionare le “ voci” che più mi colpivano. Ho iniziato per gioco, per un quaderno a quadretti, con la copertina nera e lucida, nuovo, senza nemmeno un rigo scritto, dimenticato da una ragazzina che non conoscevo e che non avrei più rivista Aveva marinato la scuola, era chiaro. Con lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso, aveva trascorso un’ora nel mio bar, col terrore che entrasse qualche viso noto, un parente, un professore.
In quel quaderno, inizialmente, avevo cominciato ad annotare le barzellette più divertenti che ascoltavo: le riscrivevo per non dimenticarle e, all’occorrenza, raccontarle. Ma questo non è mai avvenuto. Passai ad altro.
Volevo vedere se esistono risposte furbe alla domanda che quasi tutti fanno quando si vedono, anche a distanza di poche ore: «Come va?»
Così, nella terza pagina del mio quaderno, in alto e in maiuscolo, ho scritto il titolo: «Come va?»
Sotto, dovevano starci le risposte furbe. Quelle diverse.
Fu un tentativo inutile. Feci solo un’indigestione di “Bene grazie”, “Potrebbe andare meglio”, “Facciamola andare”, “Così così”, “Va!”, di “Non c’è male”, “Insomma”, di (tantissimi) “Finché c’è la salute”, di (qualche) “Va di merda.”
Era destino che in quella pagina, sotto quel titolo, dovesse restare solo dello spazio bianco. Del resto anch’io una risposta furba non l’ho ancora trovata. Faccio parte della categoria di chi dice “Insomma.” Insomma, fiato sprecato.
Mentì anche quell’ uomo, con un solito “Bene grazie” che mi diede lo spunto per scrivere altro. La sua fu la prima voce. Arrivò solo. Avrà avuto fra i quarantacinque e i cinquant’anni, non di più. Era distinto, eppure avevo la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di strano. Comunque aveva una faccia simpatica, da persona importante; importante ma cordiale. Oramai ci ho fatto il callo, io: i gasati li annuso subito. Quell’uomo poteva essere un bravo medico, di quelli che pensano a curarti e non alla parcella, o uno scienziato, un pianista, uno scrittore. Esclusi che si potesse trattare di un politico: è una razza, quella, che, difficilmente ha dell’umanità negli occhi. Ordinò una birra bionda, alla spina.
«Se vuole, gliela porto al tavolo.»
«La ringrazio, ma preferisco sgranchirmi le gambe, sono stato seduto per ore al volante.»
Poi, senza che io gli avessi domandato altro disse: «Sto attendendo una persona.»
Aveva l’aria di uno che non vede l’ora. E in effetti continuava a guardare il vecchio pendolo, vicino alla porta d’ingresso. Dopo un po’ si decise. Ordinò un’altra birra e si accomodò in fondo alla sala, lontano da me, quindi, e da Benito e Francesco, due pensionati che, in un tavolo vicino al banco, concentratissimi giocavano a dama. Era un afoso pomeriggio di luglio di quattro anni fa, e quell’ uomo era madido di sudore. Ricordo che ogni tanto si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco che aveva nella tasca interna della giacca color blu notte, appoggiata sulle spalle.
Arrivò la persona che aspettava. Era una signora piuttosto anziana, poteva avere una settantina d’anni portati molto bene, tutta ingioiellata e profumata. Vestiva un completino viola, il mio colore preferito. Appena la vide le andò incontro. Si abbracciarono e si baciarono con affetto.
«Allora Sandro, come va?» disse lei.
«Bene grazie.»
Si sedettero, sempre nello stesso tavolo.
La signora, dopo aver ordinato un bicchiere di acqua naturale, mi domandò se avevo qualcosa di solido – «e di gustoso» specificò – da mangiare. Proposi della crostata di mele fatta in casa.
«Anche se sono fuori orario, devo ancora pranzare. Che ne direbbe invece di un bel prosciuttino crudo magro, oppure meglio: ha della buona bresaola?»
«Ho una bresaola squisita.»
«Benissimo, mi faccia un bel panino e me la condisca con limone, olio di oliva e tanto pepe; mi raccomando il pepe, ho uno stomaco di ferro, sa?» disse con un bel sorriso. Quella signora elegante e disinvolta emanava vitalità. L’uomo invece pareva inebetito, stanco. Fissava il vuoto.
«Gradisce un’altra birra?»
«Come scusi? Ah sì, grazie, un’altra alla spina va benissimo.»
Quando tornai dalla cucina con birra e bresaola i due pensionati, che avevano terminato la loro partita a dama, si erano spostati nell’altra sala del bar, la più piccola, che è più ventilata perché dà sull’esterno dove c’è un piccolo spiazzo dove una volta mio nonno coltivava rose e pomodori. Col vassoio mi avvicinai al tavolo dei due clienti venuti da chissà dove; l’uomo, che stava parlando, mi dava le spalle. Non badò a me. Il tempo di avvicinarmi, di posare il vassoio sul tavolo e di allontanarmi mi fu sufficiente per ascoltare.
«Non mi ha sentito rientrare, non sapeva che io fossi in casa. Per puro caso, sento che dice: Tu almeno hai un padre che è qualcuno, il mio è una nullità. Anzi no, ha detto di peggio; ha detto: Tu hai un padre che è qualcuno, il mio non vale un cazzo. Ho pensato: starà imitando qualche comico, di sicuro non si sta riferendo a me. Però volevo esserne certo. Così, senza fare rumore lo raggiungo. Non stava imitando nessuno: steso nel letto, stava parlando al telefonino con un suo amico, credo. L’ho visto per un attimo, lui non si è accorto di me perché aveva il braccio che gli copriva gli occhi.»
Posai velocemente il vassoio sul tavolo, poi, a testa bassa, con la sensazione di avere addosso lo sguardo della signora, mi allontanai. Ma feci in tempo a sentire un’altra breve frase, sempre di lui: «Sono giorni che ci penso, ci penso e piango.»
Anch’io, come quell’uomo che non vidi mai più, avevo sentito per caso. Fu la prima “voce” che segnai nel quaderno dopo la pagina bianca dei “Come va?”
Ne capitano poche di “voci” così. Una, massimo due all’anno.

Lavorare per un aspirante Papa (dal libro Lo scommettitore)

Un breve brano tratto dal mio libro “Lo scommettitore” pubblicato da Fernandel nel 2006.
Il protagonista è un ex professionista della politica. Ha abbandonato il suo (sporco) lavoro. Quando lavorava, però, aveva dei sogni ricorrenti.

Il passaparola sulla sua bravura di professionista della politica a volte lo spaventava – perché prima o poi, specie se hai una squadra, qualcuno ti frega – altre volte lo riteneva insufficiente.
Avrebbe voluto piantarla con aspiranti sindaci, presidenti di provincia, parlamentari, europarlamentari. Avrebbe voluto di più. Avrebbe voluto che si sapesse della sua bravura anche nelle alte sfere, in alto in alto, dove non era mai arrivato.
Al Vaticano.
Qualcuno lo convoca, magari a Parigi – no, meglio in un castello nelle vicinanze di Praga – e gli dice che deve lavorare in silenzio, da solo, affinché Tizio venga eletto Papa. E per fare questo lui, da solo, deve contrastare Caio. Annientarlo. Avrebbe accettato di corsa, perché sarebbe stato il modo migliore per chiudere la carriera da scommettitore. Avrebbe accettato senza badare ai soldi, non si era mai preoccupato di diventare ricco.
Era il suo sogno proibito, che faceva a occhi aperti: microspie nei confessionali, donnine che scuciono indiscrezioni sbottonando qualche veste cardinalizia, incontri nei sotterranei del Vaticano. Roba da film, o da libro giallo.
Il sogno numero due, di scorta, era quello di confrontarsi e scontrarsi con i servizi segreti, quello di sentirsi un vero 007 che finalmente può capire con che gente ha a che fare. E magari spulciare nei loro archivi, vedere quante balle propinano i governi democratici con la complicità dei democraticissimi giornali.
E poi aveva un sogno numero tre…

Bastardo posto: le recensioni dei lettori su Amazon e IBS

Cominciamo da Amazon, c’è un’unica recensione, questa.

È il secondo libro che leggo di questo autore che si conferma una grandissima penna. “Bastardo posto” è un libro denso, la cui storia dura cinque notti ma dove il tempo si dilata. È pieno di storie difficili, di quei fantasmi che le perno ogni giorno nascondono. I personaggi soffrono, quasi costantemente, ognuno chiuso a combattere la propria battaglia, raramente riescono a parlarsi e anche quando lo fanno sembra non essere abbastanza per combattere il male. È un libro pieno di dolore ma, forse proprio per questo, profondamente umano, dove i personaggi sono pieni di debolezze e fanno fatica a mettersi a nudo.
La scrittura di Remo Bassini è molto poetica, con costruzioni che mi hanno ricordato “Sostiene Pereira” di Tabucchi.
“Bastardo posto” è un libro relativamente breve che riesce però a condensare al suo interno una vivissima rappresentazione della debolezza umana.
(Giulia, 2025)

Le recensioni su IBS (Internet Bookshop) (sono del 2010 e 2011 quando uscì la prima edizione)

Dopo 35 pagine di pensieri sconclusionati, ho cominciato a saltare i periodi cercando qualcosa che indicasse un miglioramento nella stesura di questo libro, alla fine mi sono arresa, ho chiuso il libro senza finirlo e ho concluso. Soldi buttati!
(Mari)

Trovato per caso in una bancarella. Un autore contemporaneo che ha una sua voce, diversa. Buon libro, nervosa la scrittura e un finale strano e giusto allo stesso tempo.
(Silvia)

Una provincia cupa, dove segretti e delitti sono coperti da una cappa di omertà e complicità. Un mondo in cui chi cerca verità e giustizia viene relegato al ruolo di pazzo e messo ai margini. Un mondo in cui tutti hanno una doppia faccia che viene messo in crisi dalla ribellione di un giornalista disperato che finirà per incappare nel più nero dei segreti… quello che coinvolge un prete in odore di santità. Nerissimo e capace di sorprendere il lettore fino all’ultima pagina. Indimenticabile.
(Mariafrancesca)

Romanzo sociale, scritto con mano sicura, con un tambureggiante “pensa Limara” che sembra scandire il ritmo di ogni pagina. Insieme al giornalista Limara che pensa e riflette, il libro ci racconta che le ingiustizie trionfano quasi sempre, e che lo spazio per la speranza si trova solo in due direttrici: quella dei perdenti o destinati a perdere e quella del caso.
(Mattia)

Sono lame che affondano sull’indifferenza le pagine di questo libro, un gran bel je accuse.
(Massimo)

Un libro che sorprende… fino all’ultima pagina mi sono chiesta: ?e adesso che succederà??.
(Tina)

Un libro forse un po’ troppo nero, troppo anarchico, senza speranza. Si salvano alcuni rapporti umani del tutto casuali. Scrittura superba: leggendo, sembra di ascoltare una sinfonia, e non è solo una questione di ritmo.
(Bianca)

Era un po’ matto il mio babbo

È morto mio padre, aveva 97 anni.
Gli volevo bene, soprattutto quando ero ragazzo stravedevo per lui. Era un padre-fratello, che mi proteggeva dalle sgridate di mia madre, che mi costruiva fionde, che mi dava soldi (sempre di nascosto dalla mamma).
Gli volevo bene ma col passare degli anni, parlavamo poco. Tra me e lui e tra e mia madre non c’era la stessa confidenza che c’era con mia sorella Silvia.
Diverse volte ho scritto di lui, in questo blog, basta usare la lente della ricerca che c’è sulla destra e digitare la parola babbo.
Gli ho dedicato anche una poesia che a un certo punto dice che io e lui non siamo mai cresciuti.
A 97 anni aveva conservato il suo spirito bambino, mio padre.
Anche un po’ di follia.
Una dozzina di anni fa era al mare a Follonica, con mia madre. Andò a fare la spesa al supermercato. Alla fine, prima di andare alla cassa, si ricordò che gli mancava qualcosa, ma questo qualcosa lui non sapeva dove fosse.
Si rivolse così a un commesso, che lo liquidò dicendo che non aveva tempo. Mio padre, allora, gli disse, indicandogli il carrello (bello) pieno: E allora te lo lascio qua…
Del resto… era una famiglia strana. Anche il padre di mio padre, non era tutto nel suo.
Era un contadino, ma viveva in un piccolo podere che era di sua moglie. Una sera pensò bene di perderlo a carte. Così lo lasciò e andò a mezzadria…
Questo invece è quello che ho scritto su facebook.

“Quando si fa il carbone si diventa neri come il diavolo” scrisse mio padre nel tema, all’esame di terza elementare.
Il carbone gli era familiare. Da quando aveva sei anni, andava a scuola un giorno sì e uno no: il giorno no, era dedicato a fare il carbone. Penultimo di 5 figli maschi (poi c’erano 3 femmine) è cresciuto in quell’Italia povera e contadina ben descritta dai film Novecento e L’albero degli zoccoli.
Non povera, poverissima. Chi dei cinque fratelli si svegliava per primo vestiva il miglior paio di pantaloni. Di cappotti ce n’era uno solo, in genere lo metteva mio nonno quando andava a Cortona.
Di mio padre ricordo soprattutto le mani, grandi, forti. Lui “parlava” con le mani. E non riusciva a capacitarsi della mia scarsa manualità quando mi portava con sé o all’orto o a raccogliere funghi o castagne. Le sue mani, già. Mai una carezza, mai uno scapaccione, uno schiaffo. Ma mi ha stretto la mano due giorni fa, prima di andarsene. Ciao babbo.

Qui sotto una foto che scattai a mio padre due o estati anni fa, a Porta Colonia (trattoria da Mario), Cortona

La donna che parlava con i morti, recensione di lelucidelpensiero

Oggi esce (nuova edizione) Bastardo posto.
Golem, la mia casa editrice, sta quindi ristampando alcuni miei lavori.
Il primo è stato La donna che parlava con i morti, che uscì per Newton Compton nel 2007. Proprio oggi Daiana, biologa e instancabile lettrice, (lelucidepensiero su instagram) lo ha recensito.

Questo romanzo mi ha sorpresa, credevo si trattasse di un semplice paranormal, ma la storia che si intreccia tra giallo e mistery assume delle note talmente realistiche da far sembrare tutto vero.
Anna, la nostra protagonista, vive quasi passivamente, affrontando giornate che le sembrano tutte uguali, facendo un lavoro che non le piace solo per coprire le spese e porta con sé il dolore di una perdita importante. Un giorno conoscerà un poliziotto di nome Fabrizio, che le ruberà il cuore, ma non molto tempo dopo lui sparisce senza lasciare tracce.
Anna cercherà in tutti modi di capire cosa sia successo, finché non si imbatte in Marta, una donna in grado di parlare con i morti. Da qui la storia prenderà una piega inaspettata e diversi segreti verranno svelati.
Remo Bassini ci regala, senza dubbio, un romanzo particolare e degno di nota, perfetto per gli amanti dei thriller con un tocco di paranormale!
La scrittura è molto originale, ma non per questo meno scorrevole e riesce a trasmettere tante emozioni. È presente anche un pizzico di romance, perché la nostra protagonista è spinta a trovare risposte da un amore bruciante nei confronti dell’uomo che ha perso.