Nora, Orta e l’isola di sempre: insomma “La suora”

Parlo con l’acqua e, di notte, anche con Nora, ho la fissa delle caviglie delle donne, la gelatina mi fa vomitare e non ho mai usato un preservativo perché mi ricorda la gelatina, ho scelto di farmi adottare da una Valle che con le mie radici non ha niente ma proprio niente da spartire, e mi è rimasta la paura delle lucertole perché quando ero piccolo avevo una cazzo di zia che mi diceva che dovevo stare bravo altrimenti sarebbero arrivate le lucertole volanti, e a me questa cosa delle lucertole che volano mi è rimasta impressa per anni e ancora adesso che di anni ne ho un bel po’ non se n’è andata del tutto, accidenti a quella zia, che poi era giovane, mica una vecchia acida. Insomma, di stranezze ne ho un vagone. La più grande, la più inspiegabile è lei. Nora.

Cara Nora, eccomi qui, a Orta. Ho affittato un appartamentino con vista su piazza Motta e, quindi, anche sul lago e sull’isola. Appena mi sveglio, preparo il caffè poi, con la tazzina in mano, vado alla finestra e ti saluto. La grande paura è passata, la grande paura è rimasta. Mascherine, poca gente nei ristoranti appena riaperti dopo il lockdown. Giorni di paura e di ubriacatura, anche. Il Covid-19 è tante cose, sapremo mai la verità?

Ma adesso sto guardando la tua isola, cara Nora. L’isola di sempre.

Nora e Orta, insomma
“La
suora”


Foto Viviana Martoccia

Orari di scrittura: ognuno cerchi i suoi

Non ho scritto mai romanzi troppo corposi: dalle 200 alle 300mila battute. E non so se questo che sto scrivendo sarà, alla fine, più o meno corposo degli altri.
Ieri sera ero arrivato a 38mila battute, bene mi sono detto alle 3 e mezza di notte mentre mi addormentavo (dormo sempre pochissimo quando scrivo, massimo quattro ore).
Poi stamattina ho riletto e le 38mila battute sono diventate 35mila, poi 36…
Meglio così: ho imparato a tagliare, interi paragrafi, oppure singole frasi.
Il titolo del libro (non credo che cambierò) è La strada dei papaveri.
Il protagonista è uno scrittore che, ogni tanto, dice a se stesso quel che dicono tanti aspiranti scrittori o scrittori: La scrittura è il mio grande amore non corrisposto.

A proposito di orari di scrittura.
Io, scrivendo, ho imparato due cose due.
Nella prima fase, quella di scrittura, quella del manoscritto che poi sarà da rivedere, scrivo a quelli che sono i miei soliti orari, e cioè dall’una di notte in poi. Ho cercato di cambiare, ma niente.
Anni fa sono in ferie nel Salento, sto scrivendo un libro (non ricordo quale).
Al mattino mi alzo presto, quindi la sera sono piuttosto stanco.
Così mi dico: invece di resistere anche grazie a caffè e sigari (oggi pipa) prova a dormire da mezzanotte alle cinque. Ti svegli, ti prepari un caffè doppio, scrivi fino alle 8, anche le 9.
Mi svegliai, bevvi il caffè doppio, non riuscii a scrivere un rigo. Meglio la sera stanco, oramai è così.
Ma poi c’è la fase – delicata – della riscrittura. Quando si riscrive (parlo per me, ovvio) occorre essere riposati, attenti. Per la riscrittura vanno bene tutte le ore del giorno in cui sono riposato. E mi sta bene farlo anche in un ambiente rumoroso, mentre per la prima stesura no: o c’è silenzio, oppure le idee non arrivano.

Insomma, questi sono i miei orari di scrittura: ognuno cerchi i suoi, non ci sono regole.

Questo bar è fatto di storie

«Dovresti venire più tardi, magari non stasera, sei troppo stanco oggi. Vedi, questo bar è diverso dagli altri. A mezzanotte, quando chiudo, ha un’altra vita questo bar di periferia. Io e altre persone (non importa che ti dicano chi sono e cosa fanno, non domandare niente, tu ascoltale e basta), io e altre persone, ti dicevo, di notte, tra un bicchiere di vino o un sorso di caffè, ci raccontiamo storie che possono essere nostre oppure le abbiamo raccolte come si raccolgo certi fiori di campo che nessuno vuole. La pareti di questo bar sono fatte di storie belle e dolorose, come quella che mi hai raccontato tu. Pensa: la vigilia dello scorso Natale l’abbiamo passata così, fino all’alba.»

Breve estratto del libro che sto scrivendo

Caro bollette, libri e tempi bui

Rimediare al caro-bollette (pago il doppio, rispetto a un anno fa).
Prima cosa: ho cambiato gestore.
Anche assicurazione dell’auto, probabilmente, visto che la uso poco e niente, potrei passare a una che costa la metà.
Poi. Disdettato Dazn e ridotto al minimo sky (12 al mese).
Ci son cose a cui non riesco e non voglio rinunciare: le colazioni al bar con mio figlio quando non va a scuola (ama i cannoli alla ricotta), il tabacco per la pipa (35 a settimana), un paio di caffè al giorno anche tre (prezzi variabili: 1,20, 1,10 e quelli che ancora mantengono il prezzo a 1; in genere vado dove capita, ma fa bene chi ci guarda anche al caro-caffè), la pizza una volta a settimana, integratori vari (uno soprattutto, costoso, ma efficace: niente più cortisone e ibuprofene, che assumevo dopo la seconda dose), i viaggi a Cortona con cena in trattoria (tre, quattro volte l’anno), le ferie al mare (Puglia o Maremma), la spesa per il cibo, che deve essere di qualità, possibilmente bio.
Per vestire non ho mai speso troppo, eccezion fatta per biancheria intima e camicie. Da una vita vado in giro con pantaloni, per lo più di velluto e giubbe stazzonati.

A certe cose di qualità non si deve mai rinunciare. Quando ero piccolo, e lavorava solo mio padre, mi prendevano sempre scarpe belle e costose. Il piede deve stare bene, e poi quelle che costano meno devi cambiarle più spesso, mi dicevano i miei vecchi allora giovani.
La prima volta che conobbi Luisito Bianchi mi mostrò con orgoglio le sue scarpe. Sembravano nuove. Mi disse: «Me le ha regalate padre Escarré trent’anni fa. Le passo tutti i giorni con lo straccio, ogni tanto le porto dal calzolaio. Purtroppo stiamo perdendo tante buone abitudini, come la manualità».
Lui viveva con 600 euro al mese. I proventi dei suoi libri li inviava alle missioni.
Luisito Bianchi, lo scrittore e anche prete (che non volle mai lo stipendio da prete), autore di tanti bei libri: La messa dell’uomo disarmato è, credo, il più bello.


Ci sarebbero poi i libri, mi piace andare in libreria, ma era un’uscita che superava il tabacco. Ci sono due opzioni-risparmio: leggere quelli comperati e non ancora letti oppure prenderne al mercatino dell’usato (qui a Vercelli una volta al mese). Su Amazon, preferisco di no, in prestito non mi garba: da quando ero ragazzo me i libri li porto sempre appresso.
(Poi ci sono i libri che recensisco sul blog che ho su Il fatto: in genere li ricevo omaggio, oppure in pdf. Ma volte li ho anche comperati…).
Due libri, comunque, da inizio anno li ho acquistati. Mi piace andare in libreria, cercare libri di autori di cui nessuna parla, sfogliarli. Fino a poco tempo fa uscivo sempre con qualcosa. L’anno scorso ai primi di gennaio ne avevo acquistati sei-sette da un mio amico libraio…
E comunque, non mi sento in colpa: perché di libri ne ho sempre comperati e tanti, e tanti ne ho regalati.
Poi. Ho insegnato a mio figlio a non lasciare luci accese inutilmente. Insomma, non ci fosse il caro bollette riuscirei anche, facendo così, a mettere qualcosa da parte. Il mio vecchio, 95 anni, 1000 al mese di pensione, dice che lui da parte mette sempre qualcosa, che non si sa mai cosa può capitare.
C’era anche uno scrittore di testi teatrali, Osborne (magari qualcuno avrà visto o letto “Ricorda con rabbia”) che una volta diventato ricco e famoso mantenne l’abitudine di conservare qualche monetina per i tempi bui. Che son sempre dietro l’angolo, dice il mio vecchio, ma io me ne dimentico spesso.

Mia madre mi diceva sempre: «Bisogna sempre guardare chi sta peggio di noi»:
Aveva dieci dodici frasi che usava ripetermi e che io non sopportavo.
Però è un dato da fatto: chi sta paggio di me c’è, e sono tanti; vedo sempre gente che staziona davanti alla sede della Caritas, davanti a casa mia. Non solo nomadi, e venuti da chissà dove. Anche gente che fino a qualche anno fa se la cavava. Mesi fa (tempi di lockdown) ho visto una persona che conosco chiedere l’elemosina. Ho guardato altrove.
C’è tanta gente che vive con poco, ma poco poco.

Non posso lamentarmi io. La mia pipa Dunhill sta tirando gli ultimi. Un’altra nuova costerebbe troppo, sui 600. Ho optato per una Paronelli da 150, non sarà una Dunhill ma in tempi di caro bollette è comunque una pipa che il suo dovere lo fa.

Di scritture, gatti, vendite, corsi eccetera

Non è ancora luna di notte, ancora due ore, quindi, prima di andare a dormire (prima dovrò dare i croccantini al gatto: alle tre miagola, sa che andrò a dormire e quindi devo provvedere a lui. E’ rosso, si chiama Ares. Il gatto precedente, Miomiou aveva un’altra abitudine: alle 3 dovevo farlo uscire in strada, per le sue ore di libertà. Rientrava sempore, affamatissimo, verso le 6 le 7).
Oggi ho scritto, ma non sono andato avanti con il romanzo. Mi è venuto in mente un racconto e così, per un’ora e mezzo, ho scritto 4mila battute.
Poi ho lavorato (intervista a un calciatore della Pro Vercelli, Gianmario Comi, e qualcuno volesse leggerla è QUI) poi ho preparato una scaletta per le cose da dire alla presentazione del mio corso di scrittura giovedì, alla Biblioteca di Santhià. Leggi qui.
(Ho anche ritrovato una vecchia intervista del 2014, in cui presentavo un mio corso all’Università popolare di Vercelli. Non ricordavo cosa dissi. LEGGI QUI).

E poi mi sono concesso mezzora di cazzeggio su amazon dove ho visto le vendite dei miei libri.
Segnali positivi da La suora (Golem, dicembre 2021).
72,389 e-book
18,882 book (ieri a 48,378)

Segnali positivi anche da La la donna di picche (Fanucci, maggio 2019)
e-book  201,072
book 19,044 (anche qui, meglio di ieri: 49,016)

E da La donna che parlava con i morti (Il vento antico, 2019, versione riveduta e corretta del libro Newton Compton 2008).
e-book 238,091
book 63,926

Non si sono mosse invece le vendite (questo da tempo; di Forse non morirò di giovedì (Golem, febbraio 2021) l’unico mio libro che mi ha visto arrivare primo a un premio letterario (Cattolica)
e-book 222,598
book 443,138

E non ci sono segnali positivi per Il bar delle voci rubate (I buoni cugini, novembre 2019) che uscì poco prima del lockdown: In tempo per una sola presentazione. Anche questo libro è una versione riveduta e corretta de Il bar delle voci rubate, il primo libro pubblicato nel lontanissimo 2002 (edizioni giornale La Sesia)
Solo la versione cartacea: 776,983

Il fatto che si sia mossa qualche vendita per La suora ha una spiegazione: la recente recensione su Art a part of cult(ure) di Isabella Moroni (LEGGI QUI) e gli articoli sui giornali online e cartacei che, in questi giorni parlano del corso che farò a Santhià. Non mi spiego la piccola impennata per La donna di picche, un libro che non è andato bene come speravo, ma è comunque un’impennata che mi fa piacere. Le piccole resurrezioni dei libri dimenticati….

Per qualche copia in più…

Vendite su Amazon, in questi giorni si è mosso qualcosa, qualche copia venduta insomma, per “La suora” (Golem) ma anche, sorprendetemente, per “La donna di picche” (Fanucci).
Qualche copia in più, insomma, e va bene così, dal momento che “La suora” è uscita a dicembre 2021 e “La donna di picche” nel maggio 2019.
Una sorta di lotta per non sparire.
(Tu impieghi da 6 mesi a 2 anni per scrivere un libro e quello dopo 2 mesi è bell è che morto, o quasi).

Giovedì a Santhià (in biblioteca) presento, in tre quarti d’ora, “La suora” e dico due parole sul corso di scrittura che farò, ogni giovedì alle 17,30.
Dirò questo, dirò, all’inizio: Vi insegnerò “cose” che se avessi saputo quando ho iniziato a scrivere mi avrebbero aiutato a scrivere meglio ma non so dire se con meno tempo, perché la fase di riscrittura richiede tempi lunghi. E altro.

Il libro che sto scrivendo è ancora fermo: ieri, anche a causa di un fastidioso raffreddore, nemmeno un rigo. Ma ci pensoi in continuazione, soprattutto prima di addormentarmi. Così finisce che – mai successo prima – adesso sto facendo conoscenza anche con un po’ d’insonnia, che èper uno che dorme quattro ore (dalle 3 alle 7) da lunedì a venerdì e cinque ore (dalle 5 alle 10) il sabato e la domenica (a meno che non debba accompagnare mio figlio alle sue partite di basket) è un po’ un casino.

La suora (ieri era alla posizione 18,346)

La donna di picche (non so a quanto fosse ieri, so che il 23 gennaio 2022 era alla posizione 328,956.

Il bar senza nome oppure L’elemento magico?

Ho sempre scritto improvvisando.

Le migliori idee vengono scrivendo, diceva Tondelli.

In genere, la maggior parte dei miei libri hanno una prima versione, che è incompleta, scritta di fretta. Poi una seconda, una terza: il libro diventa libro.

Poi bado alla forma solo quando arriva l’editing.

A volte ho scritto – ed è stato bello, credetemi – mettendo su carta quello che la mia mente vedeva senza sapere che seguito che dinamica che strada avrebbero percorso i personagge le cose intraviste, avvolta nella nebbia. Strade buie che poi si illuminavano.

Il libro che sto scrivendo è cosa diversa.

Ho iniziato più volte, con una indecisione: scrivo dei racconti oppure un libro che contiene sei sette otto storie?

Ho provato entrambe le strade, e sono arrivato a una conclusione: una storia non è un racconto, una storia è una storia.

Così è successo che, per la prima volta, ho fatto una scaletta. Con gli avvenimenti e anche con le storie – alcune difficili da credere, alcune vere, alcune no – che arrivano in un bar di periferia, frequentato da ragazzi figli della povertà ma anche da persone che vivono poerseguitate dai loro fantasmi.

Una scrittura più lenta rispetto ai libri precedenti, vedremo.

Titoli provvisori, per ora.

Il bar senza nome.

Oppure L’elemento magico.

Nessuno dei due mi convince, ma tant’è: dovessi scrivere come un forsennato per due giorni e chiudere in due giorni sceglierei uno dei due titoli.

Per adesso lavoro su due cose: il primo capitolo e la scaletta, ancora non definita. Magari lascerò delle finestre parte, dove improvvisare.

Le migliori idee vengono scrivendo? Sto cambiando registro: le migliori idee vengono pensando, magari mentre cammino la sera, a spasso con il cane…

Sei stata tu, vero mamma?

Nevicava a Vercelli, il primo febbraio 2019. Ero in auto, avevo portato a scuola il piccolo.
Arrivò la telefonata,

Sulla mia pagina facebook scrissi:
Si è svegliata, ha visto la neve, si è addormentata. Riposa in pace mamma.

Feci lo screenshot, che finì in una delle tante cartelle della scrivania, sul mac.
Io dimentico le date, anche importanti.
Ricordavo che nevicasse, ma non rammentavo né la data né l’anno (l’anno un po’ sì: quello prima del Covid, ma ci avrei dovuto pensare).
Stanotte (sono quasi le tre), senza volerlo, apro la cartella e trovo lo screenshot.

Tu credevi in Dio, io sono agnostico. Ma se Dio esiste lo ringrazio. Hai vissuto una vita dura mamma, perdere tre figli (la prima, prima di me, nacque morta; poi ci furono Fabrizio e Moreno) ti sconquassa il cuore.
Se Dio esiste, dicevo, ti ha voluto premiare con una morte forse con una lacrima ma senza quella disperazione che tu, mamma, ben conoscevi.

Sei stata tu, vero mamma, a farmi ricordare?.
Ciao

Bella sorpresa, oggi: recensione de La suora, a 13 mesi dall’uscita

Un bel regalo, oggi. Una recensione de “La suora” su art a part of cult(ure).
Leggi qui.

Pochi giorni fa ho scritto che oramai, a più di un anno dall’uscita, La suora è morta e sepolta. Succede così quando pubblichi un libro: in un attimo, insieme ad altri (e non è certo una consolazione) diventa un libro dimenticato.

Ed è quindi chiaro che tutto quello che passa il convento (tanto per restare in tema di suore) è comunque un regalo.
E questo è un gran bel regalo.
Poi. Per ribellarmi?… è il termine giusto?… sì lo è, dicevo per ribellarmi farò il possibile per alcune piccole resurrezioni di questo libro: qualche presentazione (il 9 febbraio a Santhià, dove terrò anche un corso di scrittura), la partecipazione a qualche concorso che mi ispira.
E buone cose a chi passa di qui

Vedere un uomo che muore, vicino a te. Era l’estate del 1983…

Il tempo. La vita è una lotta contro il tempo, spesso. Si tratta di scegliere. Perché si può anche decidere di restare sotto l’ombra di un albero e attendere che le cose accadano. Forse è meglio.
Ho un vissuto particolare, io, con il tempo.
Estate 1983, faccio l’operaio, ma sono anche iscritto a lettere, primo anno. Ho sostenuto due esami: 28 in letteratura e 30 in psicologia, e sto preparando il terzo, storia romana. Penso: a settembre do il quarto, sei per quattro ventiquattro, tra sei anni, quando io di anni ne avrò 32, mi laureo.
Peccato che a luglio, dopo una gita in Valsesia con amici torinesi, mi becco una bronchite. Brutta. La febbre non scendeva. Mi ricoverano, niente. Mi ricoverano in una struttura specializzata, niente, sto sempre peggio. Era legionella, sembra. Una notte rischiai di restarci, ma questo lo seppi solo quando mi dimisero (io di quella notte ho un po’ di ricordi: la bombola a ossigeno, un vai e vieni di medici – una dottoressa in particolare – e infermieri, mio padre con le lacrime agli occhi che mi fa bere del tè zuccherato…). Superata quella notte, piano piano mi rimisi in sesto.
Quando stavo meglio successe anche questo.
Nella mia stanza arrivò un uomo di 64 anni. Alto, magro, un bel paio di baffi. Era teso in volto, però, preoccupato. Occupò il letto vicino a me e cominciò a stare male. A un certo punto perse i sensi. Bombola ad ossigeno anche per lui (pensai: la sfangherà come l’ho sfangata io), poi, a un tratto, vedo che fa una smorfia di dolore: era morto.
Era la prima volta che vedevo qualcuno morire. Ero stato a funerali vari, mi era morto un fratellino, certo che lo sapevo: dobbiamo morire tutti, ma vedere che la vita si allontana da una persona è diverso, siamo come dei giocattoli che si rompono, dissi a me stesso.
Fu una brutta notte. Tra me e il letto dell’uomo morto misero un separé. Arrivarono la madre e la figlia che, dopo un po’, cominciarono a litigare.
La figlia disse alla madre: Lo hai costretto a lavorare, lui voleva andare in pensione ma tu niente, così questo povero uomo non è riuscito a godere un po’ di vita in santa pace.
Ma cosa dici? Replicò la madre. Dopo un po’, però, smisero e si abbracciarono.
La smorfia di quell’uomo, la sua morte, mi cambiarono.
Tornai a casa e dissi: mi licenzio dalla fabbrica, ho qualche soldo da parte, un paio di anni posso tirare avanti, e intanto studio…
Mi presero tutti per matto.
E in effetti: avevo 26 anni, la mia ex moglie faceva qualche supplenza, e soprattutto avevo una figlia di 3 anni.
E comunque. Una volta licenziato, avevo il tempo che non avevo avuto il primo anno quando, per studiare, sfruttavo ogni brandello di tempo: avevo studiato in fabbrica durante la mezz’ora della pausa pranzo, avevo studiato in treno oppure sull’autobus, avevo studiato alla stazione, la domenica, i pranzi di natale o delle altre feste comandate li avevo saltati sempre e solo per studiare, e poi, soprattutto, avevo studiato di notte, imparando a dormire quattro ore.
Invece successe che, una volta licenziato, per sei mesi persi tempo a girellare per Torino, facendo il minimo indispensabile.
Poi no, poi ritrovai la diritta via. Pensando solo a studiare e fare lavori vari, perché i pochi soldi che avevo in banca sarebbero finiti.


Col tempo bisogna saperci giocare, insomma. Ha le sue regole, ti frega. Non è mai troppo. Sei tu che a volte non sai giocare. E lui vince. Passa e vince. Passa, soprattutto.
E comunque. A parte alcuni mesi di cazzeggio, ho una convinzione: non avessi visto quell’uomo morire non mi sarei laureato, non avrei fatto il giornalista, non avrei scritto libri.
Avrei vissuto un’altra vita (sicuramente irrequieta), che non so immaginare.

… il tempo è come un treno
a volte vuoto e triste
a volte troppo pieno…
(scrivere versi idioti
con rime deficenti
vuol dire essere vuoti
vuol dire essere spenti)

Iu treno, in quegli anni, leggevo spesso poesie; a volte scrivevo filastrocche. Di questa non rammento l’inizio.

Scrivere sulla sabbia… Prime pagine del nuovo romanzo, forse

Ho scritto quasi 10mila e 260 battute di un romanzo che non so se porterò a termine, non so nemmeno se queste prima pagine verranno stravolte, tagliate, ampliate. Non ho scritto per scrivere un libro, ho scritto per tornare a scrivere.
Ho scritto un po’, ma poco, nel le pause che ho avuto nel pomeriggio. La parte che c’è sotto, insomma. Poi sono andato avanti (senza bere caffè e fumando una sola sigaretta) da mezzanotte alle due e mezzo. Ora (sono le 2,45) e forse domattina rileggo, correggo, e quando correggo ripenso a Fenoglio (La mia miglior pagina esce spensierata dopo decine e decine di penosi rifacimenti) e non penso a un manoscritto che diventerà un libro da proporre a un editore.
Scrivere un libro (vedi il post di ieri) è un po’ come scrivere sulla sabbia…
Poi. Ho scritto due libri (Lo scommettitore, edito da Fernandel e Bastardo posto, da Perdisa Pop) senza l’uso delle virgolette.
Marina disse: Sei un vecchio bastardo.
Marina disse: «Sei un vecchio bastardo».
Giorgio Pozzi (Fernandel) e Luigi Bernardi (Perdisa) convennero con me: è la stessa cosa. E nessuno, poi, mi scrisse o disse che senza virgolette non si capiva. Stessa cosa sto facendo, ora, scrivendo questa cosa qui.

Anche se è un bel giorno di primavera, e oggi lo è, percorrere questa strada che porta alla piazza senza nome mi fa male, a volte ho fitte al basso ventre, a volte provo una forte nausea. Però ho solo loro per cercarti, amico mio: la strada che porta agli orti e alla tangenziale e lo slargo che avresti voluto che fosse intitolato a un prete di questo pezzo di città, il peggiore. Tu, ateo e sboccato, a quel prete avevi voluto bene, e come segno di protesta avevi cambiato nome e insegna del bar, che era ed è, anche adesso, con le vetrine talmente impolverate da non vedere nulla dentro, “Il bar della piazza senza nome”. Se sei fuggito non credo che tornerai, se invece sei morto ho sempre paura che qualcuno scriva un biglietto o metta una tua foto davanti al bar, oppure che lasci un fiore di campo, magari un papavero, se è qualcuno che ti conosce bene.
Nelle belle giornate di primavera come queste, dicevi sempre che ti dava energia guardare prima il rosso dei papaveri sugli argini delle risaie e poi le cime innevate delle Alpi, in lontananza, quando alla buon’ora, prima di alzare la serranda e di bere il tuo primo caffè, facevi un giro in bicicletta appena fuori città (ma non ho mai capito dove). Comunque no, non sei morto, più di una volta avevi detto che saresti fuggito senza lasciare traccia né biglietti, e tu non sei uno che dice tanto per dire. Però quando vengo qui la paura che tu sia morto mi fa stare male, e la paura e il battiicuore aumentano ogni passo che faccio, sempre più, sempre più, mentre mi avvicino al bar, pensa che a volte, amico mio, soprattutto i primi tempi dopo la tua fuga, a volte non ce l’ho fatta e son tornato sui miei passi, sconfitto, pensando: è morto, è morto. No: sei vivo, lo so.


Al momento questo è l’incipit. Da rivedere, correggere, eventualmente da eliminare.

La suora (la mia suora insomma), libri e cani (chi muore di più?), quindi Amazon e libri tenuti in vita

I cani, si sa, vivono poco. Ne ho avuto uno, si chiamava Barone, me lo sono regalato quando mi laureai, che è vissuto 17 anni, un altro invece, che era di mio fratello e che presi quando mio fratello morì, meno di dieci anni di vita.
Dipende anche dalle razze, dicono.
Alcune razze, dieci anni di vita, undici al massimo.
I libri: stessa cosa. Vivono poco.
A meno che tu non sia una leggenda, da Dante a Saramago passando per Calvino e anche Salgari e mille altre (leggende) i libri campano poco. Anche quelli di autori famosi, anche quelli di grandi case editrici.
Diventano libri dimenticati, a volte muoiono prima.
E c’è un camposanto, dove andare a trovarli – non tutti, ma tanti – si chiama Amazon.
Io a trovare La suora, la “mia suora” ci vado tutte le settimane.
Più grande è il numero e più sei morto-dimenticato, libro.
Oggi La suora è al 256.510 (… cinquecento decimo) posto nella classifica libri
e 122,932 (…trentaduesimo) posto tra gli ebook.
Quando un libro esce o anche dopo che un paio di persone magari lo hanno apprezzato Amazon ti premia con una magia-farlocca: ti piazza tra i primi posti, tra i primi cento, anche tra i primi dieci, ma la cosa dura poco: una settimana dopo sei al 70mila eccetera posto: gli algoritmi premiano ma non perdonano.
E fortuna che c’è Amazon. Quando inizia a pubblicare qualcosa, nel 2005 mi pare, si diceva che un libro viveva massimo due mesi in libreria.
Così uno pensa: tante vale, no?
Anche perché tu sei un cane di sottorazza (leggasi piccola editoria): vivrai poco.
Guarda La suora: morta e sepolta.

Sul blog de Il Fatto scrivo di libri, ogni tanto. Non sono recensioni, non sono all’altezza di farne. Sono segnalazioni, dove racconto le mie impressioni di lettura.
L’ultimo articolo è questo.
Al Fatto o ad altri un giorno proporrò una rubrica: I libri dimenticati. Sono una marea.
Dimenticati, morti anche. A volte però, qualcuno resuscita, credo.

E intanto il libro che ho in mente non decolla. Scrivo dieci righe poi mi fermo e mi metto a cazzeggiare. Nulla fa perdere tempo come la rete, come i social, facebook in testa.