Ho sempre meno tempo per occuparmi delle cose mie, e poi non ho mai avuto una “testa commerciale”: penso che alla fin fine il pensiero dei soldi sia un pensiero che faccia perdere del gran tempo (come ha detto il mio vecchio, mesi fa, a una delle persone più ricche di Vercelli, Tra cinque dieci o quindici anni se ci sa tanto sedere saremo tutti e due al camposanto, lei con tutti i suoi soldi, io senza).
Comunque.
Ho visto che alcune case editrici che fino a poco tempo fa leggevano manoscritti ora non li leggono più. Bastano e avanzano, appunto, le proposte degli agenti.
L’agente letterario vende il manoscritto al miglior offerente, poi stitupla solitamente un contratto a condizioni che lo scrittore, fosse da solo, si sognerebbe, magari riesce a farti tradurre all’estero.
Sul ruolo delle agenzie mi sono ricordato di un fatto.
E’ vero, non insisto mai per avere qualche spicciolo in tasca in più, ma una volta è successo che mi sia arrabbiato: con una casa editrice.
Prima di telefonare ho assunto un bel po’ di informazioni, quindi, preparato a dire e confutare, ho chiamato.
A un certo punto sono sbottato.
Mi spiegate perché a me avete fatto un contratto capestro mentre invece al tipo, che vale o quanto me o meno di me, avete fatto un contratto dignitoso, e lui se ne vanta, dicendo che io sono un pollo?
La risposta che mi diedero fu: Lui ha l’agente e lei no.
Ah.
Comunque.
Un agente serve, oggi, in Italia. Io ho individuato un’agente: o lei o niente.
Che poi, sulle agenzie letterarie ci sono due considerazioni ancora da fare.
Curano, e bene, gli interessi di chi ha mercato, insomma di chi vende tanto.
Due, a volte ti bloccano. Tu dai loro un manoscritto e aspetti a speri, più che altro aspetti.
E buone cose a tutti
Mese: Maggio 2009
pari e patta
mi dice, la nostra generazione….
siamo cresciuti…
i nostri genitori ci hanno insegnato…
a noi che il sessantotto l’hanno raccontato…
Io la lascio parlare, ha una quarantina d’anni ben portati, è carina, perché debbo dirle che io non sono della “sua generazione”, perché dirle che ho dieci anni più di lei, e poi non sta bene interrompere le signore quando parlano, no?
il giorno dopo.
esco di casa, mi ferma un signore, mi chiede delle elezioni a sindaco, parliamo un po’ della città.
mi dice:
e poi noi di cose ne abbiamo viste, abbiamo la barba bianca tutti e due
io penso, la tua è bianca, la mia no, non del tutto ancora; approfitto di una pausa, gli domando (ci diamo del tu):
quanti anni hai?
sessantacinque.
ah
Il giorno prima quaranta, il giorno dopo sessantancinque: passa il tempo (pari e patta, insomma).
(Però il signore aveva degli occhiali con lenti molto spesse, la donna invece no, avrà avuto 17-10 di vista, se non di più)
… di ricordi nuovi
Dicono che la Vargas, che leggo ma non mi fa impazzire (meglio Mankell per esempio) scriva i suoi gialli in ventun giorni e che poi, questi suoi gialli, vengano riveduti e corretti da un primo editing, della sorella.
Il primo maggio, che per me è un bel giorno per tanti motivi, ha iniziato a pensare a un libro. Le prime ventimila battute le ho scritte nella notte tra l’uno e il due, il 20 maggio l’avevo finito, il 25 (domenica) ho rivisto ancora delle parti. Sono a 208mila battute, per ora.
Il cuore di questo libro è qua, in questo post.
“Il quaderno di mia madre”, insomma.
Ma il titolo sarà diverso.
E’ il mio sesto romanzo, quindi, dopo Il quaderno delle voci rubate (il mio libro fantasma, uscito solo a Vercelli e regalato ad alcuni amici), Dicono di Clelia (che sarebbe, quindi, il mio primo libro pubblicato, ma che non è andato molto bene), Lo scommettitore (quasi introvabile, poi io, che non partecipo mai a concorsi, posso almeno vantare di aver avuto un libro che è stato Libro del mese a Fahrenehit, nel 2006, e anche finalista dei Libro dell’anno 2006, sempre di Fahrenehit, solo che è cosa questa, che non si sa perché non andai alla trasmissione finale, a Roma), La donna che parlava con i morti (il primo e unico libro che ha venduto bene), Tamarri (raccolta di racconti che ho pubblicato con l’editore-ragazzino, Francesco Giubilei, un po’ per gioco e un po’ perché mi andava), Bastardo posto (che deve uscire, non so quando, per la Newton), quindi questo appena terminato, ma da rifinire ancora (so già che arriverò a 220mila battute almeno), il sesto romanzo, insomma.
Già consegnato alla Newton, vedremo. La sinossi ce l’ha anche un’agente (non è ancora la mia agente, ma io sto insistendo, con mail che son quasi dichiarazioni d’amore), vedremo. La deve spedire anche a una grande case editrice, vedremo tre. Ma non è escluso che lo pubblichi in rete, vedremo quattro.
Dipende.
Comunque, mi sono ammazzato a scrivere questo libro. Stavolta (a differenza de La donna che parlava con i morti che mi fece ingrassare di dieci chili, ho perso peso, tre chili almeno, ho bevuto “litrate” di caffè, ho fumato più del solito, ho dormito niente.
Pensavo, scrivendo, che se non avessi scritto avrei potuto perdere le storie che sono collegate da un’unica storia, un libro di passato e presente, insomma.
Di ricordi. Credo di aver svuotato il sacco, credo di non averne quasi più di ricordi. Ora per scrivere, se voglio scrivere ancora, ho bisogno di ricordi nuovi.
Buona giornata
un bel ricordo dei miei vent’anni
Ho vissuto la fabbrica, io, dal 2 aprile 1976 (primo stipendio, 79mila500 lire) al 1983, quando, stufo di fare lo studente ogni mattina a Torino, prendendo il treno che partiva alle 6 e 55 e arrivava a Torino Porta Susa alle 8 e 15 minuti, e l’operaio ogni pomeriggio dalle 14 alle 22, chiesi sei mesi di aspettativa.
Il treno due volte al giorno non era poi così pesante: studiavo e ascoltavo “storie”. E poi in fabbrica la mia vita aveva un senso (tanto per non farmi mancare nulla ero anche sindacalista).
La fabbrica, già: è un ricordo troppo lontano, oggi, per poterne scrivere, eppure vorrei.
Quando si scrive non si deve barare: i fumi, i rumori, il freddo al mattino, i capi ruffiani, la solidarietà esigono una scrittura attenta, non vaga.
E io, purtroppo, non ho ricordi così vividi da poterne scrivere.
Qualcosa sì, però, qualcosa che mi porta a chiedere: le poche fabbriche che ci sono oggi come sono?
(Faccio un sogno ricorrente: torno a essere un operaio. Giro per la fabbrica, non so fare niente e la cosa mi preoccupa. Che io non sia più quello che sono ora nel sogno non è motivo di preoccupazione).
Comunque, qualcosa ricordo.
Allora, lavoravo per una multinazionale giapponese che produceva e produce cerniere lampo.
Sono di tre tipi: di metallo (quelle dei jeans), di materiale plastico (quelle grosse con i dentoni per le giacche a vento), quelle di nylon.
Bene, io ho lavorato per cinque anni nel nylon.
I primi tempi ero una sciagura, ché con le mani sapevo far niente. Mi chiamavano lo studente, quando facevo qualche pasticcio.
Un giorno però feci una scommessa con me stesso, anzi non con mio padre. A mio padre che io studiassi o leggessi fregava niente. Per lui un uomo si distingue dalla cose che sa fare (lui sa fare tutto, l’idraulico, l’elettricista, il muratore, il giardiniere).
Volli stupire lui e me stesso.
Diventando operaio specializzato e, poi, quasi “meccanico”; quello cioè che va a mettere a posto i pasticci degli altri.
Ho scritto “quasi meccanico”.
In effetti avevo imparato facendomi un discreto culo approfittando della pause, e poi studiandoci su anche a casa.
Il diventare meccanico con il carrello degli attrezzi richiedeva però l’ufficiliazzazione da parte del capo del reparto, che era, appunto, un giapponese.
Gli stavo simpatico, credo, ma gli risultavo anche odioso: permessi sindacali, scioperi, ero sempre in prima fila, io.
Un giorno arriva, scuro in volto. Io sono lì che friggo, penso, quand’è che ti decidi a darmi il carrello degli attrezzi?
Significava, quel carrello, una grande soddisfazione e, cosa da tenere ben presente, ora, leggendo, anche un aumento di 20mila lire.
Il giapponese, però, quel giorno voleva risolvere ma a modo suo: escludendomi, e quindi scegliendo un altro.
Eravamo in una quindicina, in quel reparto. Domandò a tutti, tutti, meno uno, tutti gli dissero “Tocca a Remo”, oppure “Non sarebbe giusto”, oppure “No grazie”.
Chiaro, aveva detto di sì uno che non faceva mai sciopero ma anche uno che non era certo benvoluto dagli altri. Il giapponese, sconfitto, mi consegnò il carrello.
Dal mese successivo, ma per me non era così importante (qualcuno stava peggio di me) avrei guadagnato ventimila lire in più.
Grazie alla solidarietà, o al senso di giustizia, chiamatelo come volete, che si respirava allora.
Ci ripenso spesso a quell’episodio, e mentalmente dico “grazie ragazzi”.
Li ho persi di vista, quasi tutti.
Mi è successo di incontrarne uno, recentemente. Io lo fissavo, per salutarlo, gli avrei offerto un caffè, volentieri, lui guardava da un’altra parte.
Sono uno che scrive, ora. Che in una piccola città conta.
Conta quell’episodio, conta. Conta il cuore di quella gente, umile, semplice, vera. Quando scrivo penso sempre a loro. Nelle mie storie, alcuni di loro, ci sono.
Buon lunedì
L’avessi visto, gli avrei chiesto scusa
Devo chiedere scusa a una persona, anche se non servirebbe, però mi sento di farlo.
Allora, la persona è Giulio Mozzi. Non lo conosco bene, per quel po’ che lo conosco dico che lo stimo. Il primo blog che ho seguito è stato il suo – e quando si segue un blog tutti i giorni ci si affeziona, tanto al blog quanto a chi lo scrive -, poi, col passare del tempo, ci siamo scambiati qualche mail – e una volta mi ha dato un consiglio davvero prezioso -, ci siamo incrociati due tre volte al salone del libro, dove però solo una volta, davanti allo stand di Fernandel, abbiamo parlato (di Luisito Bianchi, della sua Bottega di lettura, di Sironi, di libri belli ma che non vendono…).
Allora, al salone del libro, escludendo i tanti amici che ho visto e quelli che non ho visto, ho incontrato scrittori che mi sono cari, come Barbara Garlaschelli, Marino Magliani, Francesca Bonafini, Rosella Postorino e Roberto Alajmo (e ho conosciuto – un vulcano di simpatia e di umiltà, anche – Maurizio De Giovanni, autore di punta Fandango con i libri del commissario che parla con i morti).
Avrei voluto vedere e salutare anche Luigi Bernardi
e, appunto, Giulio Mozzi.
A Mozzi, l’avessi visto, avrei chiesto anche scusa. Scusa, gli avrei detto, se tante volte, con altri, ci siamo detti che tu hai il brutto vizio di rispondere a una mail su cinque.
Allora, Mozzi è uno scrittore, ed è soprattutto un talent scout (con Sironi, Einaudi stile libero, Vibrisse). Quante mail riceverà in un giorno da me, da gente più famosa di me, da illustri sconosciuti, da conoscenti che poi s’arrabbiano – giustamente – se lui non risponde?
Torno al salone del libro. Arrivo che è sabato, ho con me il computer portatile con tanto di chiavetta. Poi, sto peggiorando lo so. Ho con me anche numero due cellulari. A un certo punto, ero all’aeroporto che aspettavo Laura Costantini, mi sono detto: ho rispondo agli sms e alle mail, e non vado al salone, oppure lascio perdere.
Non è la prima volta che maledico posta elettronica, cellulari e quant’altro.
Vigilia di Natale: mi rivedo, dalle 10 del mattino fino alle 19 di sera a scrivere mail. Per poi accorgermi, giorni dopo, di non aver pensato ad almeno due, tre persone che mi sono un po’ più care di altre (ognuno di noi, ha, no?, delle gerarchie affettuose?).
Ecco spiegato perché avrei voluto chiedere scusa a Mozzi.
Perché sono in torto marcio anche io. Uno vede una mail, la lascia stare e pensa Poi la leggo, oppure la legge e pensa Poi rispondo, e intanto il tempo corre e arrivano altre mail ed altri sms.
Ci son quelle legate ai miei libri, a questo blog, a face; ci sono quelle dei lettori del mio giornale, che magari mi scrivono per problemi un po’ più gravi, a volte anche per criticarmi, duramente.
Stamani no, ho ricevuto una bellissima mail. Sono orgoglioso di essere il lettore di un giornale libero, grazie direttore, c’era scritto.
Siamo fatti male, siamo egoisti, chiaro: a quel lettore ho risposto, ringraziandolo.
Buona giornata
PS Anche tra i lettori del mio giornale c’è chi, magari per posta, mi manda un manoscritto da leggere. Settimane fa un signore, invece, si è presentato e mi ha detto, Guardi che regalo che ho per lei. Un romanzo, scritto da lui. C’è rimasto male quando gli ho detto, scusandomi, che per ora non ho tempo.
esserci o meno
Loredana Falcone (Lory della coppia di scrittrici Laura e Lory) ha scritto questa cosa qua de Lo scommettitore.
Ogni tanto ricevo mail (una cinquantina almeno) di gente che lo ordina, ma la libreria dice che è fuori catalogo o introvabile o altro.
Sta succedendo un po’ la stessa cosa per La donna che parlava con i morti.
Introvabile, quasi.
Il libro dovrebbe aver venduto 5mila copie (secondo una agente letteraria).
La Newton Compton sta ipotizzando una ristampa in versione economica a 4,90, quando non so.
Scrivo questo perché vedo che ogni giorno qualcuno (da 3 a 10 persone) va a vedere il link I miei libri.
Diciamo che è abbastanza inutile, ora come ora, cercarmi in libreria.
Sì è vero, oggi vengono sfornati più libri rispetto al passato.
Ma sono libri usa e getta. Durano un attimo, in libreria.
E uno si chiede, Vale la pena?
Direi comunque sì: chi scrive non deve fare anche di conto.
Vendere tanto vendere poco, essere pubblicati non essere pubblicati, essere recensiti non essere recensiti: non sono queste cose che fanno di un libro un buon libro.
Che poi “buon libro” non vuol dire niente.
Leggere e (per me) scrivere: questo conta. Interrogandomi, anche.
Buona giornata
i libri, anche i libri
Del salone del libro è inutile che io dica: ché ha già detto Laura Costantini, qui.
Aggiungo questo: quando lei si è imbattuta nel principe Emanuele Filiberto attorniato da sette otto guardie del corpo c’ero anche io e penso di aver stupita Laura.
Chi è?, le ho domandato.
Non vedendo mai la televisione (vedo cose vecchie su san youtube) e saltando le cronache mondane dei giornali mi sfuggono “cose e personaggi”.
Mica tutti. Sgarbi l’ho riconosciuto.
M’han detto, Guarda Sgarbi.
Ah, ho risposto.
C’era pure la sorella, guarda, quella di Bompiani.
Ah.
Ho invece visto Fausto Bertinotti, ma da lontano. Era nello stand (stand?) di Ibs. Diceva, e di pubblico ce n’era, che “se Berlusconi e le destra oggi fanno il bello e il cattivo tempo il merito non è loro, ma della sinistra che noin c’è, non esiste”.
Eh.
Che altro dire sul salone. Che mi ricorda un po’ il calciomercato (ma il mio è il punto di vista di uno scrittore).
Al calciomercato, che seguii anni fa come cronista, a Milanofiori, vidi giocatori applauditi e intervistati che, in fila, attendevano d’essere ingaggiati da qualcuno.
Calciatori che cercano la squadra, scrittori che cercano editori: ci sono analogie.
Anche nel divisimo.
Comunque. Io penso che alla fin fine i grandi problemi del salone del libro stringi stringi son tre: fare la coda per il biglietto (o per i più fortunati per l’accredito); fare la coda per un caffè o un panino; fare la coda per fare pipì.
Poi ci sono i libri, certo.
No, sul salone devo aggiungere una decina di grazie, forse dodici. A Silvia, Morena, Milvia, Doriana, a Jack, che mi ha cercato per dirmi cose de La donna che parlava con i morti…
e a Lucia, che non c’era, ma ho trovato Blog & Nuvole…
a Francesca, Nadia, Elisa…
e a tutti quelli che non sono riuscito a incontrare o che mi sono dimenticato di salutare; ne faccio spesso, di figuracce, io.
Bene, adesso (ore 2 e 35 minuti) scrivo.
Ho finito di scrivere un libro, sto riscrivendo.
Auguro un buon lavoro a me e una buona notte o un buon giorno a chi passa di chi.
Dimenticanza.
Ho visto una sola presentazione, io, al Salone.
Di Massimo Novelli e Laura Hess (Spoon River) è uscito il libro “Guido Seborga. Scritti, immagini, lettere”.
Giancarlo Vigorelli, negli anni Sessanta, di Seborga scrisse:
Forse il solo tra noi a ostinarsi a scrivere un romanzo di rivolta sociale.
Uno scrittore dimenticato, libero e ribelle.
come al solito
Ci fosse una cosa, una, che va bene, in questi giorni.
E il post – in assoluto il più breve di “altri appunti” – potrebbe finire qui.
Però.
Fortuna che di notte scrivo e leggo.
Dalle 11 alle 3 scrivo. Poi pausa caffè o tè nero e lettura fino alle 4, poi ancora un’ora, fino alle 5, quando è l’ora di dare i croccantini al gatto, che ha gli orari sballati come me, per l’ultima ora di scrittura.
Due giorni, massimo tre, e ho finito di scrivere (e rivedere) un romanzo che è stato facile da scrivere: ce l’avevo in testa, da anni, titolo compreso.
Poi.
Domani incontro la persona che ha fatto sì che scrivessi La donna che parlava con i morti.
Infine.
Sabato pomeriggio e domenica sono al Salone.
Vado, che son di fretta, come al solito
lettere anonima, quindi strana
Sulla mia scrivania una lettera anonima.
Ne ricevo tante, anche di insulti.
Comunista bastardo.
Ma anche
servo del sindaco (che è di centrodestra).
Alcune di queste lettere son pettegolezzi a sfondo sessuale.
Oppure: il tale prende mazzette, indagate voi, che siete un giornale serio.
L’ultima lettera anonima è anomala.
Premessa. I lettori del mio giornale sanno (lo sanno dalle risposte che do sulla pagina delle lettere) che i facili qualunquismi contro rom ed extracomunitari non li sopporto.
Comunque.
La lettera anonima che ho appena ricevuto racconta di una ragazza extracomunitaria che sarebbe stata umiliata, racconta l’estensore della lettera (che è siglata), in una ricevitoria del lotto.
Avrebbe effettuato una giocata di 42 centesimi pagando con monetine da 1, 2, 5 centesimi, e questo avrebbe fatto spazientire il titolare della ricevitoria che avrebbe detto, Io i centesimi non li voglio.
L’estensore della lettera, a questo punto, scrive: Si fosse trattato di una ragazza italiana il tabaccaio si sarebbe comportato così.
No, dico subito.
(Tre o quattro anni fa ero in un bar di Gattinara. Accanto a me c’erano due ragazzi albanesi. La cameriera li ha fatti sentire delle merde. A loro, solo a loro, chiedeva i soldi della consumazione, e lo faceva guardandoli come se fossero cacche, infatti, e lo faceva, anche, cercando sguardi di complicità tra gli altri “italiani”, ché siam tutti buoni, noi).
La lettera anonima, come quasi tutte le lettere anonime, però, almeno un po’, puzza: alla fine dice, Non andate più da quel tabaccaio.
Metti che sia una vendetta, va a sapere perché.
E poi: quando si denunciano fatti di malcostume così, perché non firmarsi col nome e col cognome?
(A volte, ma è raro, perché c’è un problema oggettivo, possibili ritorsioni o questioni legate a un minore o alla privacy, si pubblicano lettere con la dicitura “lettera firmata”, ma è raro).
d’amore e morte
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera…
Oggi, su Facebook, la mia amica Gaja Cenciarelli (l’ho vista poco tempo fa, a Roma, era una bella giornata. Un aperitivo, io, lei, Francesca, Enrico) scrive:
Non so come farò senza di te. Sono persa e sconvolta. Ma grazie per tutto quello che mi hai dato, che forse non ho mai abbastanza ricambiato. Perdonami per quello che non sono riuscita a darti. Sono fiera di essere tua figlia. Ti amo, mamma
Pochi giorni fa, una telefonata. Non è un periodo bello, dovremmo vederci, combinare, una domenica da Zena, ci diciamo.
Sul suo blog, l’ultimo post è di gennaio.
E’ il bianco il colore della morte, me sono accorta oggi a pranzo. Un foglio di carta scritto a mano.
Considera che avevo cercato la verità per giorni, come può farlo ogni immaginabile prospettiva: con occhi attenti, spaventati, impietosi, compassionevoli, e poi stanchi.
Ogni passo mi aveva portato più lontano da casa.
Ma deve essere che il cielo mi sorveglia, e così mi sono fermata. La morte mi ha prestato il suo sguardo e, adesso che so, mi affido alle parole sicure che mi hai lasciato
immagino che nel fondo di quegli occhi spenti ci sarebbe il riflesso dei fiori che amavo coltivare, sfiorare, annaffiare, quasi mai recidere, per timore di far loro del male
Sono in redazione. E’ sabato, c’è il sole, forse più tardi riesco a fare un giro, se non ce la faccio oggi andrò domani, con il cane, al fiume.
Alla mia destra, vicino al telefono, c’è l’immagine di un ragazzo, Moreno Bassini, nato l’8 luglio del 1975, morto il 18 agosto del 2005.
E’ uno di quei ricordini che si fanno per i morti. solitamente si scrive qualcosa, anche. Io, quando morì, avevo in mente di scrivere questo: Ciao Moreno, ci ricorderemo sempre del suo sorriso buono e perdente.
Qualcuno mi scrisse e mi disse, No, non va bene, ricordi qual era la sua canzone preferita? Per amore solo per amore mio, ho giocato sempre a strabiliare.
Questo c’è scritto dietro la foto di Moreno.
Buon sabato
il ricordo sbiadito delle (belle) canzoni
e chi l’avrebbe immaginato che la stagione dei sedici anni sarebbe rimasta la più bella?
eppure, era solo la stagione della speranza, delle (belle, forse) canzoni, della fretta anche.
ecco la fretta è rimasta.
ed è rimasto il ricordo, sbiadito, di quelle canzoni
finché negli ospedali…
Ieri una signora, malata, che lotta per la vita, con dignità e forza, m’ha raccontato che è stata calpestata – è il termine giusto – in un ospedale.
Le han detto, Cosa pretende signora, tanto lei con la patologia che si ritrova…
Io credo che la civiltà di questa Italia si debba misurare proprio nei posti dove si soffre.
Le case di riposo, gli ospedali.
Dov’è la politica, dove sono i proclami, le promesse?
Sorge spontanea una domanda?
Succede anche in Francia, in Spagna, in Germania.
Mi dicono che succede: meno che qui.
E in Italia?
Non è così dappertutto ma finché negli ospedali (preciso meglio: in alcuni ospedali di alcune regioni) verranno trattati meglio quelli che hanno soldi e conoscenze, finché negli ospedali si sentirà dire a un anziano “come stai nonno?” significherà che siamo un grande paese incivile.
E senza speranza: perché io ancora devo sentire una forza politica che dica, con chiarezza, che la sanità italiana ha bisogno di una profonda rivoluzione strutturale e culturale: quella del rispetto.
(… e mi chiedo dov’è la sinistra. Mesi fa, nella mia città, ci fu un consiglio comunale aperto sulla crisi dell’ospedale cittadino. Ci andai.
Un consigliere comunale disse: Sappiamo tutti come vanno le cose a Vercelli. Chi non ha soldi è curato male, chi ne ha non ha problemi, perché si rivolge alle strutture private.
Era un consigliere comunale di Alleanza nazionale, ora PdL.)